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Tutti gli ufficiali e bassi ufficiali romani, che servivano nell’esercito italiano, vollero venire a Roma per il Plebiscito dalle più lontane città della penisola, e si adunarono la mattina del 2, prima di mezzogiorno, in piazza di Spagna. Fra di essi vi era il general Cerroti, comandante la piazza di Civitavecchia per il Re, i colonnelli Galletti, Croce e Gigli, il duca Sforza Cesarini e il fratello don Bosio di Santa Fiora, don Fabrizio Colonna, Augusto Sindici, allora aiutante del generale Ferrero, due Ruspoli, figli di don Augusto, e cento altri. Li precedeva una bandiera e da un lato di essa camminava il canuto cappellano dell’Accademia di San Luca con calze paonazze, e dall’altro un cappuccino di Palestrina, dotto cultore della sacra Teologia, e la sua bella faccia aristocratica, circondata dalla rozza cocolla, attirava tutti gli sguardi e provocava le acclamazioni. Questo giovane cappuccino, nella notte fra il 18 e il 19 settembre era fuggito dal convento. Il 20 aveva raggiunto i nostri avamposti, e quando incominciò l’attacco, assistè i primi feriti e rimase presso di loro alle ambulanze, cibandosi scarsamente del pan di munizione, finchè non li vide adagiati nei letti degli ospedali. Allora torno al convento, ma gliene furono chiuse le porte in faccia, ed egli ritorno a Roma, dove in quei giorni divenne popolarissimo.

Questi valorosi soldati, che avevano abbandonato Roma, non potendo spargere per lei il proprio sangue e lo avevano offerto all’Italia, camminavano alteri in mezzo al popolo plaudente, e per via Condotti e il Corso, ovunque acclamati, movevano verso il Campidoglio, che avevano lungamente sognato, nelle lotte e negli esilii, custode del palladio della libertà italiana. Essi non portavano sul colle sacro i trofei delle loro vittorie; vi andavano modestamente al seguito del popolo, quasi volessero significare che per il popolo di Roma avevano combattuto.

Sotto il palazzo Piombino fecero sosta e un potente evviva sgorgò dai loro petti. Essi non dimenticavano che uno dei più validi cooperatori dell’indipendenza di Roma era il generale Cadorna, che là alloggiava.

Un entusiasmo potente, indescrivibile, produsse per le vie di Roma la lunga processione degli abitanti della città Leonina. Essi erano preceduti da uno stendardo bianco su cui erano scritte queste semplici parole:

«Città Leonina: Si».

Era stata eretta un’urna in piazza Pia e alla presenza di un notaro vi erano state depositate le schede e poi si era suggellata. Essa recava 1546 si, senza un no, e i 1546 votanti accompagnarono l’urna, portata a braccia da un robusto popolano, con la lunga barba nera, fino al Campidoglio.

Dalle nove di mattina alle tre era stato tutto uno sfilare di associazioni, tutto un gridare, un abbracciarsi, mentre nell’aria echeggiavano a volta a volta la marcia reale, l’inno di Garibaldi o di Mameli. La città era gaia come in un giorno di festa, eppure da quella gaiezza traspariva la solennità del fatto che aveva compiuto. Alle tre, Roma era tornata alla calma, e veniva fatto di domandare dove mai si erano rifugiate quelle migliaia e migliaia di persone, come potevano essersi calmati quei gridi. Era il raccoglimento che succede alle grandi commozioni: Roma aveva veduto tutto il popolo festante per via, ma non conosceva ancora l’esito definitivo della votazione. Dopo tanti anni di attesa e di delusioni, il dubbio era giustificato.

Ma quel dubbio svanì non appena nella sera la campana del Campidoglio fece udire la sua voce solenne. Allora Roma si accese tutta di mille fiaccole, il popolo si riversò per le vie, salì al Campidoglio, ove era proclamata la votazione:


40785 Si e 46 No.