Raimondo Montecuccoli, la sua famiglia e i suoi tempi/II6
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Capitolo VI - Ultimo periodo della vita di Montecuccoli
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Capitolo VI
Ultimo periodo della vita del Montecuccoli
Più non essendo tornato Raimondo Montecuccoli sui campi di battaglia, a noi non ispetta di tener dietro ai casi di guerra di quel tempo; ci basterà pertanto di accennare che nell’anno 1676, del quale dicevamo, fu assediato Philisburg, che il 17 di settembre, dopo lunga resistenza, si arrendeva al marchese di Baden Durlach (morto non guari dopo), secondo è notato negli Avvisi del Bianchi. E circa quest’assedio, il Magalotti, trasportato dalla sua malnata passione, vorrebbe insinuare che Montecuccoli ne avesse incagliate le operazioni col far mancare or questa or quella cosa, e ritardando le leve. Di ciò scrivendo al Castiglioni, diceva: “il suo Montecuccoli non vuol che si pigli”; la qual cosa, quand’anche di per sé non apparisse inverisimile, si potrebbe confutare colle parole stesse di quel ministro, essendo stato da noi avvertito quanto egli scrisse dell’attività instancabile con cui nel consiglio aulico di guerra, da lui presieduto, dava opera a provvedere a quanto fosse per occorrere all’esercito, come più specialmente viene poi confermato da altre relazioni.
L’11 di aprile il Bianchi annunziava morta l’imperatrice Claudia, e diceva al tempo stesso che già di un novello matrimonio dell’imperatore si favellava, se non che ogni risoluzione sarebbesi rimandata al futuro mese, dopo cioè i funerali della defunta. Una malattia dell’imperatore, e la morte di una sua figlia, nonché la difficoltà nella scelta, fecero poi che solamente nell’ottobre fosse nota la determinazione imperiale, in favore di una principessa di Neuburg. Di lei dice Mailàth che aveva avuto vocazione pel chiostro, e che serbò sul trono costumi monacali: e questo lascia supporre che ella non si sarà dato soverchio pensiero dell’apparenza esterna del marito, che ci vien dipinto piccolo e brutto. Partì l’imperatore, seco prendendo il Montecuccoli, per Passau, dove il 14 di ottobre celebraronsi le nozze . In quella città un funesto annunzio pervenne a Raimondo, che lo fece partir tosto per Vienna. Era stata colta dal vaiolo la moglie sua, né egli giunse in tempo per raccorne l’ultimo addio, essendoché la trovasse morta al suo arrivo, con infinito dolor suo, come scrisse il Bianchi, perché molto l’amava. E ben lo meritava essa, perché andava fornita delle più belle virtù, e all’affetto di lui teneramente corrispondeva. Così vedevasi tolta Raimondo d’improvviso la sua cara compagna, nel momento che in sullo scorcio della sua vita più avrebbe avuto mestieri delle affettuose cure di lei. Della prostrazione d’animo, in così triste caso da lui provata, ci lasciò documento egli stesso in una lettera nella quale, condolendosi col marchese Coccapani di Modena, che gli aveva partecipato la morte della propria madre, usciva in queste parole: “Non è al mondo chi stia in più aspro dolore per la perdita che ho fatta della mia carissima consorte. Porto tuttavia a V. S. illustrissima consolazione per ricevere da lei benigno compatimento vedendomi privo d’una compagna ch’era il maggior tesoro ch’io possedessi. Convien con tutto ciò che ci rimettiamo nel volere di Dio”. Le quali parole ben paiono sgorgare da un’anima profondamente esulcerata, e insieme altamente religiosa; e dopo d’esse ci vien meno il coraggio per riferire quanto non si vergognò di scrivere il cinico Magalotti intorno a questa sventura, che colpiva uno dei più grandi uomini che onorasse mai la nazione italiana. Una sola cosa vogliamo ritrarre da quella sciagurata lettera sua, avere cioè creduto il Magalotti che la morte della moglie togliesse di mezzo un ostacolo al ritorno del Montecuccoli al campo, quasi che non fosse stata la condizione della salute sua che da ciò lo aveva distolto. Tal cosa sarà stata nondimeno creduta da altri, perché sappiamo dal Bianchi che gli si rinnovarono allora le istanze acciò ripigliasse il comando dell’esercito del Reno, mentre si manderebbe il Lorena a capo dei collegati in Fiandra. Ma neppure allora poté egli venir indotto ad assumere un carico che sarebbegli tornato troppo gravoso, tanto più perché si eran posti allora i francesi a devastare un gran tratto del paese, ove avrebbero dovuto campeggiare gl’imperiali, costretti perciò a mutarsi rapidamente d’uno in altro luogo; il che ad uomo che fosse nella condizione in cui era allora il Montecuccoli, più non sarebbe stato possibile. Né a lui, colpito da una grave sventura, rimaneva altro desiderio, se non di cercar lenimento al suo dolore presso il figlio Leopoldo, e la figlia Enrichetta ancor nubile, e nei conforti che dar gli potevano le altre due figlie maritate. Fra le mura domestiche, dal cuore più che dalla fantasia, gli sgorgò un sonetto in morte della sua Margherita, del quale, perché già pubblicato dal Paradisi e dal Foscolo, non riferirò a questo luogo se non gli ultimi versi, che dicono:
Segneranno il mio misero destino
Estatici pensier, viver solingo,
Neri panni, umid’occhi e viso chino.
Ma questo suo desiderio della solitudine, così cara agli afflitti, doveva ben presto venirgli contrastato. Leggiamo infatti negli Avvisi del Bianchi, che da pochi giorni trovavasi egli in Vienna, allorché un ordine dell’imperatore lo chiamò a Linz, dove questi s’intratteneva a festeggiamenti per le sue nozze. Poco mancò che non gli tornasse funesto quel viaggio, imperocché avendo voluto avventurarsi a passare colla carrozza sul fiume Ips, o canale ch’ei fosse, il quale era ghiacciato, il ghiaccio si ruppe, e senza l’opera del postiglione, secondo scrisse Bianchi, o di alcuni passeggeri al dire del Magalotti, egli senza fallo sarebbesi annegato, avendo avuto l’acqua sino alla gola. Giunto poi a Linz, intese richiedersi l’opinion sua circa il modo di porre riparo ai disordini gravissimi avvenuti nelle terre ove svernavano le truppe imperiali, avendo i principi di que’ luoghi fatti scacciare dai lor soldati quelli dell’imperatore dagli alloggiamenti che occupavano, onde tre de’ suoi reggimenti e tre dei circoli si trovarono allora in aperta campagna, esposti ai rigori della stagione. Origine di cotali disordini era stata, come sembra, l’ingordigia di alcuni ufficiali superiori, che a man salva estorcevano denaro da que’ principi. Fu ordinato allora al duca di Lorena di riconquistar colle armi gli alloggiamenti perduti: e forse tornò subito Raimondo a Vienna, dove gli si lasciò godere, dopo tanti anni spesi in servigio dell’impero, quell’onorato riposo che la protratta età, la mal ferma salute e i patemi d’animo gli rendevano necessario. Più che ad altro attese egli allora agli studi, e a rivedere quelle sue opere, delle quali tenemmo man mano parola, alcuni pregi delle medesime enumerando. In queste, disse Folard, che egli era andato innanzi a tutti gli scrittori di cose militari: onore che a lui e al Feuquières concede anche il colonnello Guibert. Condé, dicono i giornalisti di Trévoux, lodava sovrattutto i mezzi proposti dal Montecuccoli per rendere più sicura e più facile la sussistenza dell’esercito; e Turenna, gran maestro nell’arte degli accampamenti, che è tra le più necessarie nella pratica militare, asseriva che dal Montecuccoli era questa ottimamente posseduta. Destinate le opere di lui all’istruzione specialmente de’ generali, per suo volere non le pubblicarono per la stampa, ma se ne scrissero più copie che, per la poca conoscenza che i copiatori avevano della lingua italiana, riescirono errate. Andarono esse per le mani di molti; ed una di queste si sa che fosse posseduta dal principe di Anhalt, un’altra dal duca di Lorena, che la portava con sé ogni volta che usciva in campagna. La prima edizione di esse, assai scorretta, fu fatta a cura del consigliere Huissen in Colonia nel 1704, e venne poi riprodotta a Ferrara. Una traduzione in lingua latina di quelle opere, lavoro del gesuita Bombardi, la fece stampare nel 1718 in Vienna il marchese Francesco Montecuccoli, dichiarato dall’imperatore erede dell’estinto ramo di sua famiglia al quale Raimondo appartenne. Più altre traduzioni si fecero delle opere di Raimondo in tedesco e in spagnolo, ma lodaronsi più specialmente quelle in lingua francese, e i commentarii che ad una di queste nel 1770 appose il generale Turpin de Crissé. Nessuno tuttavia aveva ancora preso ad esame i manoscritti più sinceri di quelle opere, e curata l’emendazione dei testi scorrettissimi che andavano in volta. A ciò si accinse Ugo Foscolo, allorché “non perdonando, siccome ei dice, a fatica, né a sudori, né a spesa per rimeritare l’ombra del Montecuccoli dei beneficii e della gloria che le sue opere, sino ad oggi trascurate, procacciarono agli italiani”, pubblicò in Milano nel 1807 una magnifica edizione delle medesime. Ma perché neppur questa andava immune da imperfezioni, Giuseppe Grassi, piemontese, altamente dell’Italia e della scienza si rese benemerito, e della memoria del gran generale, intraprendendo un accurato studio sui manoscritti di più pregio di quelle opere, primo tra essi quello che fu del pittore e letterato Giacinto Bossi, ch’io ebbi poi la ventura di acquistare a Milano; il quale egli giudicò accuratamente copiato sull’autografo del Montecuccoli che è in Vienna. Da esso ricavò altresì il libro sull’Ungheria allora sconosciuto, benché se ne avesse copia anche dalla famiglia Montecuccoli in Modena , e in Vienna presso la contessa Trautson figlia di una figlia di Raimondo, che sembra lo copiasse di sua mano dall’originale. E questo libro sull’Ungheria lo pubblicò egli pel primo nell’edizion sua, lasciando invece da parte l’altro sull’Azione bellica, che reputò solamente un centone di appunti, del quale si valeva il Montecuccoli per le sue opere. Questo lavoro del Grassi, quanto ad esattezza, è difficilmente superabile, e riscosse l’approvazione degli eruditi. Ma più scritture inedite sfuggirono alle ricerche di quel valentuomo, che meritano di venir prodotte in luce; e sarebbe desiderabile che ciò potesse aver luogo nella ricorrenza del secondo centenario dalla morte dell’illustre autore di esse (il 16 di ottobre del 1880). Di due di queste, che manoscritte si serbano nella biblioteca di Modena, tenni già parola, e sono il Trattato sull’arte della guerra, e l’opuscolo Delle battaglie. Accennai pure ad una scrittura Sulla tattica degli svedesi, che si stima perduta, ma che può sperarsi che in Vienna o in Modena s’abbia quando che sia a ritrovare; e così quella relazione sui casi di guerra degli anni 1644 e 45 che fu da noi a suo luogo accennata, e la confutazione delle censure fattegli per la condotta della guerra d’Ungheria. Di altre scritture del Montecuccoli che sono nell’archivio estense, si dà un sunto nell’Appendice di quest’opera. Fa menzione il Gregori di un manoscritto appartenente al marchese Giulio Montecuccoli, mostratogli da un Bartolomeo Brandoli, che porta in fronte il nome del general Raimondo, e che gli parve di suo carattere e scritto alla metà del secolo XVII: segue poi egli dicendo: “il riconosco però per suo alla chiarezza, ordine, ortografia che si osserva nelle sue scritture. Contiene questo libro gli elementi della Geometria che sono necessarii ad apprendere l’architettura militare”. Nel catalogo poi della rinomata collezione di opere matematiche manoscritte posseduta dal principe Buoncompagni di Roma, una ne trovo indicata, che reca il titolo seguente: Precetti militari havutisi col mezo (sic) del S.r Dottor Geminiano Montanari, del sig. Generale Montecuccoli, da me provati. Un volume ancora potrebbesi pubblicare di lettere di lui, che sono negli archivii di Modena e di Firenze, e nella biblioteca nazionale di questa città, delle quali ultime posseggo le copie, delle prime i sommarii solamente: e altre ne somministrerebbero gli archivii e le raccolte private. Diversi manoscritti che citai, e de’ quali mi valsi, potrebbero, se pubblicati in appendice alle opere inedite del Montecuccoli, tornare opportuni a chi facesse studio sulle guerre di quel tempo; circa le quali in un catalogo dei documenti dell’archivio Montecuccoli in Modena è segnato il seguente manoscritto: Relazione delle guerre dirette dal generale Montecuccoli, scritta nel 1673, che però può sospettarsi sia quella che per quel solo anno scrisse, come dicemmo, il Kanon . Se non che potrebbe essere ancora quel giornale ricordato dal Gregori, senza indicare ove sia, nel quale Raimondo notava settimanalmente gli affari, anche più reconditi, di que’ tempi. “In esso (così continua egli) si trova delineato al vero il ritratto morale de’ ministri e dei generali coi quali fu Raimondo in relazione”: le quali parole vivamente fanno desiderare che a qualcuno venga fatto di trarre dall’oblio un documento che potrebbe tornare di tanta utilità alla storia. A questa gioverà senz’altro quanto ritrar si possa dalle carte del Montecuccoli che sono nell’archivio di guerra a Vienna, delle quali dal conte Malaguzzi si fece già un compendio per incarico avutone dall’arciduca Massimiliano d’Austria d’Este, di cui era desso aiutante di campo: e questo probabilmente sarà posseduto dalla erede di lui, la contessa di Chambord. Né opera vana sarebbe a reputarsi il ritornare, dopo tanti mutamenti avvenuti nelle cose della milizia, ad uno scrittore del secolo XVII, imperocché le opere del Montecuccoli vanno fornite di tanta dottrina da riescire, in ciò che si riferisce ai principii fondamentali, e alla storia militare, opportune sempre ed istruttive. “Montecuccoli – disse Puysegur nel cap. VIII dell’opera sua Sull’arte della guerra – è tutto sentenze, e se ne può ritrarre moltissima utilità, e quantunque alcune cose risguardino le guerre di que’ paesi e di que’ tempi, non può negarsi che quanto egli scrisse non sia ottimo ed adattabile dapertutto”. Aggiungasi che lo stile conciso e nervoso di lui sarà sempre un modello da proporsi a chi imprenda a dettar precetti su quanto pertiene alla scienza militare.
E qui non va taciuto il nome di un valentuomo che di alcun poco in questo genere di scritture precesse il Montecuccoli, in un’opera che meriterebbe di essere conosciuta più che ora non sia. Intendo dire di Gualdo Priorato, che più volte avemmo a ricordare, e che nell’anno al quale siam pervenuti (il 1678) veniva a morte. Pose egli in luce nel 1640 l’opera sua intitolata: Il guerriero prudente, dalla quale non parmi improbabile che traesse Raimondo l’idea che, in più ampia forma, svolse ne’ suoi Aforismi.
Né solo dette opera il generale italiano, negli onorati suoi riposi dalle fatiche del campo, agli studi militari, e alle incombenze di gran momento che gli derivavano dalla presidenza del consiglio di guerra (al quale nel 1675 erano stati dall’imperatore cresciuti gl’incarichi, sottoponendogli ancora i paesi de’ confini militari verso la Turchia) ma alle lucubrazioni altresì di varie scienze, alle quali, come dice Elia Bruchner, non aveva per altro lasciato mai di attendere anche in mezzo allo strepito delle armi. E furono questi suoi studii che indussero l’accademia scientifica dei Curiosi della Natura, fondata da alcuni medici nel 1651 a Sweinfurth e poscia trasportata a Vienna, ad eleggerlo suo protettore perpetuo; in lui cercando schermo, secondo che scrisse lo storico di quell’accademia, il nome del quale poc’anzi citammo, contro gli Zoili che le facevano guerra, tentando altresì di alienarle l’imperatore. Accettava Montecuccoli l’onore compartitogli, rispondendo con una lettera latina, a quella del presidente dell’Accademia, che era il medico Michele Fehr, pretore di Sweinfurth, la quale riprodurremo nell’appendice ; ed asserisce il Buchner che protettore fu egli veramente di quell’istituto nelle frequentissime (saepenumero) occasioni che occorsero. Venne più tardi collocato il ritratto di lui tra gli altri dei protettori dell’accademia. Fra le Epistolæ Latinæ pubblicate in Wittemberga nel 1703 dal professor Kirchmaier una ve n’ha indirizzata a Raimondo come protettore di quell’accademia, alla quale pur esso apparteneva, dove tien parola di certa sua lanterna magica, che al patrocinio di lui raccomandava.
Della poesia, come toccammo già, si dilettava altresì il generale, e i saggi che ci rimangono de’ componimenti suoi, fan prova, a giudicio del Paradisi, “come ei vi fosse disposto, e come ei vi sarebbe riescito se fosse vissuto in altro secolo, e avesse avuto ozio di esercitarvisi”. Nella teologia lui disse erudito l’abate Pacichelli che lo conobbe, e attestava ancora passasse le intere notti nella sua biblioteca intento agli studi. Delle arti fu proteggitore, decorando la sua casa in Vienna di più quadri di valenti pittori, tre de’ quali vedremo nominati nel suo testamento. Nel 1677 Raimondo mandava in Italia il proprio figlio Leopoldo per ragion di studio, e per fare omaggio al suo sovrano naturale, il duca di Modena Francesco II d’Este, al quale indirizzava la seguente lettera che reca la data del 20 aprile: “Essendo a me già molto avanzato negli anni tolta la fortuna di rendere a V. A. S. quelli personali ossequii che resi già a’ suoi grand’avi, bisavi e abavi, viene Leopoldo mio figlio a presentarsi umilissimamente ai piedi dell’A. V. ed arrolarsi nel numero de’ suoi più devoti. Supplico V. A. di riceverlo per tale e dargli licenza di passar più oltre in Italia ad apprendere la lingua e farvi acquisto di altre virtuose conoscenze, e per esser più capace di servire a V. A.”. Da Modena passò quel giovane a Siena a studio della lingua italiana, che colà si ode più purgata che altrove. Del suo passaggio per Firenze abbiamo ricordo in una lettera del conte Filippo d’Elci, che con altre sue sta nella Raccolta di autografi di Giuseppe Campori, ove si legge: “E’ passato di qua un figlio del signor generale Montecuccoli che va a studio a Siena”. Che bene accolto foss’egli dalla corte di Modena, ce lo dice il padre suo in una lettera, nella quale ne ringraziava il duca e il principe Rinaldo. Dal re di Spagna riceveva Leopoldo l’anno seguente, in riguardo senza dubbio dei meriti del padre, l’ordine di San Giacomo, con facoltà che la vestizione si potesse fare a Vienna; il diploma per altro non sarà stato spedito allora, avendo la data del 1680. Contemporaneamente a lui (cioè nel 1678) veniva fatto cavaliere dell’ordine di Calatrava il conte Filippo Montecuccoli, come ritrassi da un elenco dei documenti della famiglia sua. Accenniamo ora ad un ultimo servigio reso da Raimondo negli anni 1678 e 79 alla corte di Modena, allorché gli fu raccomandato dal duca Francesco II il marchese Annibale Foschieri, cugino per parte di madre del marchese Giambattista e degli altri fratelli Montecuccoli. Veniva esso spedito a Vienna per gli affari di Guastalla, della qual città, alla morte del duca Ferdinando Gonzaga, si era impadronito il duca di Mantova, laddove altri, e tra questi il duca di Modena, opinavano che dovesse spettare a Vespasiano fratello del defunto, e interponevano l’autorità dell’imperatore in favore di quest’ultimo. In tutto, secondo gli ordini ricevuti, doveva il Foschieri dipendere per questo affare dal Montecuccoli, che in effetto si pigliò a cuore la cosa presso l’imperatore. Ma v’era di mezzo l’imperatrice vedova Eleonora Gonzaga, che con calore trattava la causa in pro del duca di Mantova suo nipote, il quale nondimeno rimase più tardi escluso dal possesso di quel ducato.
Estinguevasi circa quel tempo nel conte Carlo Montecuccoli la linea di Federico fratello di Galeotto, bisavolo di Raimondo, che nel Frignano aveva in feudo Montecenere, Olina e Camatta, nelle quali terre doveva succedere Raimondo, insieme con Alessandro ultimo de’ conti di Renno, derivato da un altro fratello di Galeotto. Sul modo di divisione di quelle terre nacque una questione, che non fu definita se non nel 1681, quando più non era tra i vivi il generale. Al figlio di lui toccò allora la parte maggiore del feudo, cioè Montecenere, il rimanente ad Alessandro.
Venne fatto nel 1678 al re Luigi XIV, alle armi del quale arrideva la fortuna, di costringere gli olandesi da prima, e gli spagnoli poco appresso, ad una pace separata con lui, assicurandosi in tal maniera il possesso della Franca Contea e di molte città fiamminghe; la qual pace fu conclusa nell’agosto e nel settembre a Nimega. Ad essa il 5 di febbraio dell’anno successivo accedeva l’imperatore Leopoldo, al quale rimaneva bensì Philisburg, ma a patto di cedere Friburg, chiave della Germania, come fu detta. L’imperatore con quella pace lasciava a discrezione della Francia il suo alleato elettore di Brandeburgo, che fu poi astretto a restituire le conquiste fatte sugli svedesi, come accadde ad altri principi tedeschi. Né poté Leopoldo ottenere pel duca di Lorena, suo generale, condizioni ch’egli stimasse a sé convenienti, onde rimase poi stabilmente in Vienna. Montecuccoli, dice Mailàth, profondamente devoto alla casa d’Austria, provò un vivo dolore per questa pace ad essa dannosa: non pertanto non è esatto quanto a questo luogo dice il Menzel, che “se si avesse lasciato operare il valoroso Montecuccoli, le cose sarebbero procedute altrimenti, ma tempi come quelli, soggiunge esso, non potevano sopportare atti di vigore”. E dico non essere giusto il rimprovero rivolto a Leopoldo, perché da lui non dipese, né da istanze che avesse intralasciato di fare, se a capo de’ suoi eserciti non tornò quel generale, ma sì ne fu colpa la malferma salute; per la cagione medesima essendosi anche il Condé ritirato allora dal campo. Più conforme al vero sarebbe il dire, che se fosse stato possibile al Montecuccoli di ritornare coll’antico vigore alla guerra, egli, che così bene avea tenuto fronte ai migliori generali francesi, avrebbe impedito agli altri che di quelli erano da meno, quei trionfi che procacciarono alla Francia una pace tanto per essa vantaggiosa.
Né meno dell’esito di questa guerra di sei anni dovean recar dolore al canuto eroe i torbidi dell’Ungheria, che nell’anno 1679, col favore della Francia e del turco, prorompevano a tal fiamma che non doveva così presto estinguersi. E perché non suole un infortunio scompagnarsi da altri, venne d’Ungheria anche la peste, che travagliò più provincie, e nella sola Vienna fece più che centomila vittime . Si rifugiò l’imperatore a Praga, vietando che persona alcuna proveniente da Vienna a lui si presentasse: e seco condusse Montecuccoli, da poco tempo risanato da quelle flussioni emorroidali, che nell’aprile e nel maggio, secondo al duca di Modena scriveva il Foschieri, così lo incomodarono da impedirgli di seguitar la corte a Laxemburg. E dalla capitale della Boemia scriveva egli al principe Cesare d’Este in commendazione di un Morandi (modenese senza dubbio) che aspirava ad un officio nelle poste imperiali a Venezia.
A Praga gravi considerazioni venne facendo Raimondo, che lo indussero a chiedere all’imperatore di essere sollevato dall’officio di presidente del consiglio di guerra, che occupava insino dal 1668. Le ragioni che a ciò lo consigliavano, le troviamo in una Memoria di lui non so bene a chi indirizzata, della quale vidi una copia nell’archivio estense. Diceva in quella aver chiesto il riposo, perché non era, se non di rado, chiamato a consigli di confidenza; perché tenevansi conferenze militari non presiedute da lui, e si prendevano determinazioni senza saputa del consiglio, che con ciò veniva posto in discredito, come accadeva ancora perché tenevansi in non cale dalla Camera (aulica?) i decreti consigliari, anche quando avevano ricevuta l’approvazione sovrana; e finalmente, perché si erano introdotte nel consiglio persone di poco credito, onde poi la poca deferenza dei generali ai pareri ch’esso emetteva. Venendo quindi a dire della persona sua, soggiungeva che la sua lunga servitù avrebbe meritato miglior trattamento, e che occorreva una gran perfezione per ricevere uno schiaffo sopra una guancia, e sporger l’altra senza dolersi: “concetto improprio alla fedeltà, allo zelo e alla disinteressatissima servitù prestata”. Se fosse stato guidato dall’interesse nella sua professione militare, avrebbe preso altri partiti da quelli da lui seguiti, e le sue facoltà sarebbero maggiori che non siano. Accennava in fine anche al titolo di principe che aveva dimandato, e non conseguito.
Un’altra breve Memoria, che è nell’archivio medesimo, e della quale non è detto l’autore, ci porge ulteriori spiegazioni circa questa sua dimanda di licenza. Da essa ci vien detto che, dopo la pace di Nimega, dal cappuccino Emerico, che fu poi vescovo di Vienna, ed era allora, secondo credo, confessore dell’imperatore, uomo che molto negli affari di stato s’intrometteva , dal conte di Zinzedorf, e dall’Abele segretario della corte che più addietro nominammo, venne consigliato il licenziamento di molti soldati. E questo fu consentito dall’imperatore senza aver richiesto il parere del consiglio di guerra, e senza che neanche fosse interpellato il Montecuccoli, al quale fu dall’Abele partecipato soltanto l’ordine di far eseguire il decreto. Con tale procedere non solamente si recava offesa al suo onore, ma si tenevano in non cale i consigli da lui dati per la conservazione di un esercito stabile, affine di non esser colti sprovveduti dagli avvenimenti. A quella determinazione, se interrogato, si sarebbe egli opposto senza dubbio, anche in riguardo ai torbidi dell’Ungheria. Di queste sue giuste cagioni di lamento non toccò nella supplica che fece presentare all’imperatore in Praga dal conte Dietrichstein suo cognato, ma si diceva carico d’anni e d’indisposizioni, e costretto perciò a cercare alleviamento alle molte incombenze affidategli. “Il servigio imperiale (così egli), dev’essere esercitato con somma cura o tralasciato”, con zelo s’adoperò fin che poté, ma ora mancargli le forze... Dolergli la vecchiezza, perché gli toglieva di continuare la sua servitù in tante cariche conferitegli. Spiacquegli già ne’ passati anni di dover chiedere di venir esentato dalle fatiche campali “che non furono per divina grazia, né improspere, né infruttuose, né vuote d’applausi alle armi cesaree”: ma vedersi ora astretto a chiedere di poter deporre la presidenza del consiglio di guerra. Vi rimise in piede le sessioni regolate delle consulte, cadute in disuso: e curò che fossero chiamati all’officio di consiglieri soltanto degni ufficiali: adesso, le forze che gli rimanevano, impiegherebbe negli altri offici suoi. Non piacque all’imperatore esaudire la dimanda, e con viglietto in data di Praga 14 d’ottobre rispose che quantunque compatisse la sua grave età e gli accidenti che recava con sé, trovavasi però tanto soddisfatto dei suoi servigi, da non potergli consentire di abbandonare la presidenza del consiglio di guerra “dal quale dipende il buon servigio, e il ben pubblico”. Sperava non l’abbandonerebbe in circostanze così gravi, tanto più che avendo egli così bene ordinato quel consiglio, gli tornerebbe più facile il presiederlo. Questo attestato della fiducia imperiale, per quanto onorevole, non toglieva di mezzo le cagioni per le quali s’era Raimondo indotto a quella risoluzione, e vedremo perciò non aver egli tardato guari a rinnovare le istanze allora tornategli vane.
Venuta in questo mentre a cognizione de’ cortigiani la rinuncia alla presidenza da lui offerta, fuvvi tra loro chi si dié a lacerare il buon nome del generale, come apparisce da una lettera, che per questo egli scrisse all’imperatore, e della quale questo è il sunto. Sparsasi la voce della rinunzia che aveva presentata, ode susurrare aver egli accumulate molte ricchezze, laddove non ebbe mai cupidigia di denaro, e non servì che per acquistare la grazie imperiale, e per conseguir gloria: non avere per questo accresciute le sua facoltà patrimoniali. S’informi l’imperatore se nelle guerre, ove tanti ufficiali si fecero ricchi, alcun principe vi sia che, eccetto di qualche commestibile, di selvaggina e di vino, gli facesse mai regali. E qui ricorda alcune prove di disinteresse da lui date, che ai luoghi loro furono da noi riferite. Dei proventi di cancelleria del consiglio di guerra non fu mai messo a parte. Si cerchi nella cancelleria se esistano ricorsi contro di lui in materia d’interesse per regali avuti. Quanti furono per opera di lui promossi, si ristrinsero a ringraziarlo: soli i generali Caprara, Cavaignac e Grana, i colonnelli Carafa, Taaff, Souches, gli fecero qualche dono di cavalli, cioccolata, orologi, scrigni e simili cose. Il marchese di Baireuth gli diede il suo ritratto contornato di piccoli brillanti; del rimanente non era vietato ricever regali. Si ponga poi mente, soggiungeva, al detrimento venuto alle sue sostanze dallo star lontano dai suoi possessi, da quelli specialmente d’Italia, alle spese richieste dal vivere in corte, all’enorme diffalco che si fece al suo credito di 250.000 fiorini (che dicemmo ereditato da’ suoi cugini), e pel quale non più che 50.000 fiorini gli furono pagati dall’erario, e dall’altro canto si mettano i profitti del servigio, e la sua paga che a titolo di rimunerazione fu portata a 100.000 fiorini, e si vedrà non avere accresciuto di alcun grado considerevole le sue facoltà patrimoniali. E questo diceva aver voluto riferire a scorno dei detrattori, che tramano l’altrui rovina. Sembra in effetto che negli ultimi anni del viver suo vivamente gli stesse a cuore di confutare le calunnie che contro di lui si mettevan fuori, affinché nella famiglia sua e ne’ posteri puro da ogni macchia rimanesse il suo nome. In questa relazione non troviamo parola dei beni d’Ungheria, ricordati dal padre Carlantonio, i quali crediamo, a norma delle congetture da noi più addietro prodotte, che non avesse mai; né di una precedente donazione che gli fu fatta, in rimborso di crediti. Desta veramente non so se sdegno o pietà, il vedere un uomo, al quale più volte dovette l’impero la sua salvezza, e che, vissuto in mezzo a tanti frodatori del pubblico e del privato peculio, seppe mantenersi probo, esser costretto, egli vecchio e ricinto di gloria, a ribattere accuse che lo colpivano nell’onore. E forse codesta nuova amarezza ch’ei provò, ebbe a confermarlo nel proposito di voler levarsi dalla presidenza del consiglio di guerra. Questo chiese egli di nuovo in Linz dove, essendo cessata la peste a Vienna, aveva accompagnato l’imperatore, con una lettera nella quale diceva che, non avendo esso accettate le precedenti sue istanze, coi bagli di Tœplitz e con una dieta rigorosa cercò vedere se gli poteva rifiorire la salute, ma ogni cosa tornò indarno; si trovava indotto perciò a rinnovare la preghiera di essere esonerato dall’officio che dicemmo; l’opera sua la spenderebbe ne’ consigli che si tengono presso l’imperatore, come faceva pel passato. Ripeteva poi l’istanza pel titolo promessogli di principe dell’impero il quale, diceva, non costa all’imperatore se non un diploma. E faceva notare che se i principi elettori che si adoperavano per la sua promozione non si vedessero esauditi, crederebbero che demeriti suoi gl’impedissero di conseguirla.
Questa volta, a procacciare accoglimento alle sue richieste, pensò egli di valersi del potente cappuccino che nominammo, e a lui mandò la supplica con una lettera sua nella quale, recando il corredo di qualche testo scritturale, lo pregava di presentarla egli stesso, e di spender parole in favore di quanto chiedeva, dicendogli che in lui solo, dopo l’imperatore, aveva riposte le sue speranze.
Ottenne allora Raimondo il titolo di Principe, il che men duro gli avrà reso il rifiuto datogli nuovamente di poter cessare dall’officio di presidente del consiglio di guerra, del quale, come appare dall’epitafio che riporteremo, trovavasi investito al tempo ancora della sua morte. “Ma quella onorificenza (scrisse il Mailàth), non valse a lenirgli il dolore provato pel danno derivato all’impero dalla pace di Nimega”, né quello, aggiungeremo, procacciatogli dal vedersi nello scorcio del viver suo fatto scopo ad offese ed a sospetti immeritati.
Dicevamo che Raimondo accompagnò l’imperatore a Linz, ed ora ci conviene accennare ad un infortunio che colà gl’incolse. Narra Mailàth, che nell’ingresso che entrambi fecero a cavallo nel castello, urtò Raimondo del capo in una trave; e nell’opera delle Azioni di generali e soldati italiani, si legge che una trave gli cadde sul capo passando da una stanza all’altra; ma errano entrambi quegli scrittori asserendo che di quel colpo ei morisse, o pochi giorni appresso, come credé il primo di essi, o, come scrisse l’altro, per una febbre che poi gli sorvenne. Fu invece nel vero l’Huissen dicendo che leggera fu la ferita che allora riportava. Il generale dopo quell’accidente dimorò più mesi a Linz, e fu anche, secondo avvisammo, ai bagni di Tœplitz, e in Linz scrisse le lettere che riferimmo in sunto. Tristo, per le cagioni che dicemmo, fu quest’ultimo stadio della vita di Raimondo, né consolato forse dalla presenza della famiglia sua; ma uomo com’era di molta virtù, impreparato non lo colse la morte; la vera cagione della quale è espressa nel suo epitafio, cioè “Hemorroidum fluvio... extinctus”; e questa flussione, troviamo notato in una carta dell’archivio modenese che durasse dodici giorni. Tra le lettere di Giulio Palazzolo, probabilmente agente estense in Vienna, che sono nell’archivio or nominato, una del 14 di ottobre 1680 diceva, in pessima condizione di salute trovarsi il principe Raimondo, molto sangue avendo perduto per le emoroidi. In altra poi del 21, diretta al marchese Francesco Pio di Savoia segretario di stato del duca di Modena, egli annunziava la morte di lui avvenuta il precedente mercoledì, che sappiamo essere stato il 16 di quel mese di ottobre del 1680, erroneamente essendosi asserito da più storici che Raimondo morisse nel 1681. Solo nell’opera delle Azioni di generali e soldati italiani, trovo esattamente notato l’anno 1680, che dietro la lettera del Palazzolo, s’ha a ritenere per indubitato fosse quello nel quale il mondo rimase privo di uno de’ più grandi uomini di guerra, e de’ più sapienti che sia mai stato a capo di eserciti. Essendo nato, secondo dicemmo, il 21 di febbraio del 1609, giunse egli all’età di 71 anno, mesi 7, giorni 23; ed egli stesso notava di avere appunto 71 anno ne’ primi mesi del 1680, in una sua lettera scritta in Linz che avemmo a ricordare: un poco meno perciò di que’ 72 anni che gli si sogliono attribuire, i quali nell’iscrizione già citata sono portati a 73.
Da Linz il cadavere fu trasportato a Vienna, dove magnifiche esequie, come avvisò il Palazzuolo, gli si fecero nella chiesa de’ gesuiti, nella quale erasi lasciato sepolto in una cappella che trovo scritto essere stata da lui fatta costruire; e la sua cotta di maglia venne deposta nell’arsenale di Vienna, ove tuttavia si conserva. Riprodurremo in appendice il prolisso epitafio che compendia la carriera sua militare, e fu già stampato dall’Huissen, che sembra essere però una posteriore esercitazione letteraria, di qualche gesuita forse . Tra gli anagrammi che dal suo nome si trassero quello che dice: centum oculi al vivo riproduce la previdenza e insieme la perspicacia di quel gran capitano.
Aveva egli fatto testamento nel 1675 innanzi di partire per l’ultima sua campagna: in questo, oltre le disposizioni che dicemmo per la sepoltura, lasciava legati ai gesuiti, ai cappuccini, ai carmelitani, ai domestici suoi, e limosine ai poveri, orologi a diversi amici, un quadro del Guercino, rappresentante una donna, a Giovanni Massimiliano conte di Lamberg, primo ciambellano dell’imperatore, un altro detto Gratia Dei del Canavio (Caracci?) al conte Contardo, e uno del Durer al conte Ferdinando, entrambi Dietrichstein. Mille fiorini aveva destinati al padre Carlantonio per noi nominato, che dicemmo essergli premorto. Alla moglie, che pure lo precedé nel sepolcro, dovevano pagarsi annualmente tremila fiorini, e le si lascierebbe l’uso degli oggetti preziosi, salvo il ritratto gemmato di Cristina di Svezia: sarebbe stata tutrice del figlio e di Ernestina che nel 1675 era ancor nubile, sino all’età loro di 22 anni, e tutori, s’ella morisse, i due Dietrichstein ora nominati. Alla figlia Luigia, maritata (come nel testamento si legge) in Berkin , 10.000 fiorini, che sarà stata la sua dote, giacché quella da lui assegnata ad Ernestina viene indicata nella somma medesima. Non si trova menzione dell’altra figlia Carlotta, o fosse per dimenticanza di chi trascrisse il testamento, o meglio perché già avesse ritirata la sua dote. La vedremo poi nominata nel codicillo. Erede universale, il figlio Leopoldo, purché nulla innovasse nel maggiorasco che allora ei fondava, consistente nella sua casa in Vienna (che era nella Schenkstrasse), in un orto fuori della città e nel ritratto ornato di diamanti di Cristina di Svezia, il qual fedecommesso doveva passare, secondo ivi si legge, nelle due dinastie (o linee) di Hohenegg e di Osterburg, parendo s’avesse a intendere che quelle due terre andrebbero divise tra i figli che aver potesse Leopoldo, non vedendole comprese nel fedecommesso perpetuo, e che la seconda linea succederebbe nel fedecommesso, se mai la prima si estinguesse. Se Leopoldo si facesse religioso, avrebbe solamente tremila fiorini. Dopo di lui istituiva erede il conte Francesco Montecuccoli, che dicemmo figlio di Giambattista, e che militava allora (1675) nel reggimento Lesler (Leslie?): ed esso, nel caso che Leopoldo lasciasse soltanto figlie, dovrebbe dotarle al modo che avrebbe fatto il padre. Succedendo Francesco, il marchese Giuseppe godrebbe e amministrerebbe i beni del testatore in Italia. Codesti beni per altro, essendo di ragion feudale, furono bensì lasciati godere a Leopoldo, ma non a chi ebbe poi quelli di Germania: e tale può darsi che fosse anche l’intenzione di Raimondo, che ne lasciava il godimento al fratello del suo erede in Germania, il qual ultimo per cagion dei feudi avrebbe dovuto prender domicilio colà, ed assumere fors’anche nazionalità austriaca, il che non fecero né Raimondo, né suo figlio. Fu letto il testamento, alla presenza di quest’ultimo, il 30 di ottobre 1680. Il 15 di ottobre, vigilia della sua morte, il generale aveva fatto un codicillo per lasciar legati al cappuccino che l’aveva assistito al letto di morte, e al medico. In esso per l’ultima volta accomiatavasi da’ suoi generi conte Kisel (marito di Carlotta), e conte Berkin, e dal terzo di essi che nomavasi Weissenwolfen, ed ebbe in moglie Ernestina, la quale sappiamo dall’Huissen che sposò poi in seconde nozze il conte Francesco Cristoforo Kevenüller di Aichemberg , e dalle sue figlie che benediceva, alle loro orazioni raccomandandosi, e incaricandole di farlo seppellire “nella tomba della mia in Dio riposante consorte”.
Egli, vissuto virtuoso e pio, tale ancora morì.
Di lui disse Mailàth, che era grande di persona, robusto, forte, serio, severo, superbo ma non vanaglorioso, amatissimo dai sottoposti, e che sapeva l’arte di rialzare l’animo di un esercito. Il Priorato, commilitone suo, ce lo ritrae di statura ben composta, di corpo agile e svelto, gagliardo, operatore, faticatore instancabile, di spirito vivace e pronto, d’ingegno meraviglioso, di amabili maniere. Incanutitogli il pelo già nero, marziale, brillante la faccia. Si distende poscia nell’encomiarne il valore, la prudenza, il disinteresse, il suo zelo pel servigio imperiale, e finisce col dire, che da Dio fu dato al mondo per gloria e per beneficio di tutta la cristianità. Fu egli felice il Montecuccoli? Tale reputar nol potrebbe chi soltanto avesse riguardo alle opposizioni incontrate nella sua carriera militare, ed alle persecuzioni de’ suoi nemici, non venute meno se non sulla sua tomba, e ancora ai dolori fisici dell’ultimo stadio del viver suo; ma per un’anima di tempra simile all’anima di questo grande italiano, il conseguimento della gloria con onorevoli fatiche acquistata, l’intimo convincimento di non aver fallito a nessun debito suo verso Dio, la sua patria, e il principe, al quale aveva dedicato i suoi servigi, superiore per questo lato a Wallenstein, a Turenna, a Condé; il testimonio della sua coscienza, che dalle sevizie e dalle estorsioni così frequenti tra i generali del suo tempo lo assicurava immune, la stima che si era procacciata de’ principi e dei può onorati uomini del suo tempo e d’ogni paese, non che il ricordo delle famose imprese compiute; ben è da credere che tutto questo gli sarà stato sorgente d’inestimabile consolazione, e che egli pertanto abbia fruito di quella morale felicità, che è premio alle grandi virtù.
Lui morto, gli uffici di presidente del consiglio di guerra e di comandante generale dell’esercito imperiale, che egli copriva vennero separati, chiamandosi alla presidenza il principe di Baden, e a governare l’esercito il duca Carlo di Lorena, allievo, come dicemmo, del Montecuccoli.
Una postuma dimostrazione di affetto e di gratitudine volle dare a Raimondo l’imperatore Leopoldo, ricolmando di favori il figlio suo, da lui, come dicevamo, tenuto al sacro fonte. Lo nominò tosto colonnello di un reggimento ch’era a stanza nell’Austria superiore, onde è da credere che già dal padre fosse stato introdotto nell’esercito con qualche grado in uno dei reggimenti dei quali era proprietario, benché egli non contasse, allorché Raimondo morì, più che 19 anni. Quantunque poi quel giovane, che si spense di soli 36 anni, non avesse modo di prestare grandi servigi all’impero, benché prendesse parte pur esso, come generale, alle guerre contro i turchi, l’imperatore tuttavia non cessò, secondo ora notavamo, di conferirgli sempre nuove onorificenze: lo fece generale, e poscia maresciallo di campo, capitano delle sue guardie degli arcieri, proprietario di un reggimento di corazzieri (quello forse di suo padre), suo ciambellano, cavaliere del toson d’oro, e nel 1689 principe dell’impero, il qual grado vedemmo quanto venisse indugiato al generale Raimondo. Di quest’ultima dimostrazione del favore imperiale dando notizia Leopoldo al duca di Modena, diceva doverla ai meriti di suo padre, che sono infatti ricordati nel diploma di elezione insieme con quelli acquistatisi verso la casa d’Austria da Girolamo e da Ernesto Montecuccoli. Maritatosi Leopoldo a Caterina Colloredo, non ebbe figli, e morì all’aprirsi dell’anno 1698, con universale dispiacere, dice una lettera che è nell’archivio estense, per le sue amabili qualità .
Più ancora di lui, troppo presto mancato alla vita, può dirsi continuatore nella sua famiglia della gloria militare del general Raimondo, Ercole uno de’ figli del marchese Giambattista, che nell’anno medesimo in cui veniva a morte Raimondo, fuggendo, appena quindicenne, dalla casa paterna, si arrolava nelle truppe imperiali, ch’erano in Ungheria sotto il general Caprara, e molto ebbe poi a distinguersi combattendo i ribelli ungheresi, e a lungo contro i turchi; premiato infine col titolo di tenente maresciallo e col governo militare della Lombardia. Nei solenni funerali fattigli nel 1739 in Milano, l’elogio di lui (che si ha alle stampe) fu recitato dal padre Michele Casati.
E qui, pervenuti alla meta dopo così lungo cammino, ci piace invitare chi non si stancò nel seguirci sino a questo punto, a ritornar col pensiero sulle imprese di Raimondo Montecuccoli, che lasciò così splendidi vestigii nella storia, e venne da più scrittori comparato quando a Vegezio, quando a Fabio Massimo e quando a Cesare, e che dal Foscolo fu salutato il più dotto fra i capitani nati in Italia dopo il risorgimento dalla barbarie, e da Napione il più grand’uomo di guerra che forse vi sia stato in Italia. Il ripensare a quanto giunse egli a fare superando ostacoli d’ogni natura, al grado e alla gloria che in paese straniero ei conseguì, alla sapienza sua e al suo valore sui campi di battaglia, che al dire dell’Hassler, storico dell’impero austriaco, gli tenean luogo di un esercito, servendogli la prudenza di magazzini e di fortezze, ove mancavano, non può a meno di suscitare ammirazione per quella grand’anima italiana. Che se le sventure nostre non consentirono che in pro della patria, e per redimerla dalla soggezione agli stranieri, potesse spendere l’opera sua, ci basti almeno ch’egli nascesse a quest’almo sole d’Italia.