Le Mille ed una Notti/Storia d'Azem e della regina dei Geni
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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STORIA
D’AZEM E DELLA REGINA DEI GENI.
— Sire,» disse Scheherazade al sultano delle Indie, «esisteva altre volte nella città di Balsora un giovane chiamato Azem, il quale esercitava la professione di tintore; benchè celebre pel suo gusto nella scena dei colori, la venustà della persona e le grazie dello spirito, egli non era ricco, e manteneva col frutto delle proprie fatiche la vecchia madre che conviveva seco lui; pure, la sua amabilità ed intelligenza gli attiravano ogni dì nuovi avventori, ed avrebbe potuto far fortuna nella professione che esercitava, se il destino non l’avesse eletto ad altre avventure.
«Un giorno in cui occupavasi nel solito lavoro vide entrare nel suo opificio uno straniero riccamente vestito, il quale, scorgendolo, sclamò: — Che! un giovine come voi, dotato di tanto spirito, può dedicarsi ad un simile mestiere? — Non arrossisco della mia onesta industria, e so limitare i miei desiderii,» rispose Azem. — Ma se vi si offrisse il mezzo di far pronta fortuna, rifiutereste?» aggiunse lo straniero,
«— No, se ciò non ripugna alla mia coscienza; io sarei lietissimo di procurare alla buona mia madre nuovi agi, e continuare gli studì che ho dovuto interrompere. — Figliuolo,» disse il vecchio con mendace affabilità, «i vostri voti saranno esauditi. Avete perduto il padre: io sarò il vostro; da questo momento vi adotto per figlio; conosco l’arte preziosa di cambiar in oro i metalli più vili, e possa in un istante formare la vostra fortuna. Siate domani mattina presto in bottega; io verrò, —
«Ciò detto, lo straniero partì, lasciando il giovane tutto stordito.
«Le parole del vecchio avevano eccitata al più alto grado la curiosità ed ambizione di Azem e col cuore pieno di gioia, chiuse in fretta la bottega, e corse dalla madre a raccontarle l’accaduto. — Figliuolo,» disse la buona donna, dopo aver riflettuto un istante; «sta ben in guardia: temo che la gentilezza di questo straniero non celi qualche inganno; osservalo attentamente: alla mia età si ha dell’esperienza, e si conosce fin dove può giungere la malizia degli uomini. Resta, figlio mio, nel tuo stato modesto, ma felice; non sei abbastanza ricco, giacchè puoi provvedere ai nostri bisogni?» Azem fu colpito dei buoni consigli della genitrice, le promise di stare guardingo, e dopo aver cenato, si coricarono. Ma il giovane non potè addormentarsi; egli aspettava con impazienza lo spuntar dell’alba per rivedere lo straniero; la sua curiosità, o, a meglio dire, la sua ambizione era troppo forte, per poter approfittare dei buoni consigli della madre.
«All’alba, egli corse alla bottega; lo straniero non si fece aspettare, e giunse con un crogiuolo in mano. Dopo i saluti d’uso, gli ordinò di accendere il fuoco, e chiese se avesse qualche metallo di vil prezzo, come ferro, piombo od altro. Azem trovò nella sua officina un vecchio vaso di rame, ch’essi tagliarono a pezzi e misero nel crogiuolo. Allora l’alchimista levò il turbante, lo spiegò, e presovi un po’ di una polvere gialla, la gettò sul metallo, pronunciando parole misteriose.
«Poco tempo dopo tolse il crogiuolo dal fuoco, ne ritrasse il contenuto, e mostrò allo stupefatto Azem un pezzo d’oro purissimo, inducendolo a portarlo dal cambiavalute per accertarsene. — Siete ora contento della mia abilità?» aggiunse l’alchimista trionfante; e siccome Azem, maravigliato, lo pregava di fargli parte del segreto: Stasera,» gli disse, «io cenerò con voi, e se siamo soli, soddisferò al vostro desiderio. —
«Essi recaronsi tosto alla casa. Azem mostrò alla madre il pezzo d’oro che aveva veduto fare, la pregò d’andar a passare la sera presso una vicina, onde potesse restar solo coll’ospite, e preparò la cena più splendida che gli fu possibile. La madre, convinta, non fece osservazione alcuna, e si conformò a’ di lui desiderii.
«Quando fu partita, si misero a tavola. Azem mangiava coll’appetito d’un miserello cui sia capitato d’improvviso un colpo di fortuna. Quantunque buono e zelante musulmano, non tralasciò di ber molto vino, bevanda alla quale non era avvezzo, e subito si ubbriacò.
«Il perfido vecchio, vedendolo in quello stato, approfittò del momento per gettare una polvere soporifera nella coppa d’Azem, il quale la vuotò senza accorgersene. Non l’ebbe appena bevuta, che cadde sul cuscino profondamente addormentato. Era l’istante aspettato dal mago traditore. Lo getta in un forziere, ne trae la chiave, e chiama alcuni facchini ai quali aveva dato ordine di tenersi pronti. Questi portano via il forziere, e camminando davanti al mago, lo vanno a deporre in una nave pronta a far vela. Si leva l’ancora, e vogano in alto mare.
«Quando la madre d’Azem, rientrando la sera in casa, non trovò il figlio, nè lo straniero, non dubitò più della disgrazia e della scelleraggine dell’uomo contro cui ella aveva tanto raccomandato al giovine di tenersi in guardia. Disperata, si strappa i capelli, accusando il destino, l’imprudenza del figliuolo e la crudeltà di colui che glielo aveva rapito. I vicini accorsi alle sue grida, e costernati di ciò che loro disse, vollero inutilmente consolarla; essa fece costruire in mezzo al cortile una tomba, andandovi giorno e notte a piangere la perdita fatta, senza mai prender cibo.
«Intanto il vecchio mago vogava con vento favorevole; era desso un Guebro, adoratore del fuoco, ed abile nella chiromanzia. Ciascun anno discendeva nel Korassan per sedurre con brillanti offerte un giovine musulmano, e quando erasene servito a procurarsi le cose che gli abbisognavano nelle chimiche sue operazioni, l’uccideva nel timore non divulgasse i suoi segreti.
«Due giorni dopo la partenza, Bharam (era il nome del mago) giudicò a proposito di rendere la sua vittima al sentimento del deplorabile suo stato; aperto il forziere, introdusse nelle nari di Azem un certo liquore. Questi sternuta, si frega gli occhi, e volgesi intorno attoniti sguardi; ma tosto la vista del mago ed il moto del naviglio gli svelano la sua disgrazia; s’accorge di essere caduto ne’ lacci di uno scellerato; contro il quale sua madre avevalo inutilmente avvertito. Allora, con la rasseguazioue di un musulmano sommesso ai decreti del destino, si mise a recitare i versetti del Corano.
«— Non avvi altro rifugio che in Dio, da cui veniamo ed a cui dobbiamo tornare. Gran Dio, degnati guidarmi nella via della salute, sul sentiero di quelli che tu favorisci, e che non ti hanno offeso!» Poi, volgendosi al vecchio: «Che fate voi dunque, padre mio?» gli disse con dolcezza. «Mi prometteste piaceri e ricchezze; è questo che mi facevate sperare? — Cane d’infedele,»- rispose il mago, «tu non morrai che di mia mano, ed il mio piacere sarà di prolungare il tuo supplizio. Già trentanove de tuoi fratelli sono caduti sotto i miei colpi: tu sei il quarantesimo. V’ha però un mezzo di salvarti; abiura l’islamismo, ed al par di me adora il fuoco sacro cui rendo omaggio: ti adotto allora per figlio, e ti svelo i miei segreti, — Che il cielo confonda te e la tua religione,» rispose Azem, alzandosi come un arrabbiato; «per Maometto! per salvarmi da pochi vani pericoli di questo mondo, io non voglio divenire apostata, e non rinuncerò mai ai piaceri che Dio promette ai veri credenti. — Miserabile,» sclama lo stregone furente, «saprò ben io umiliare la tua arroganza e smovere la tua fermezza.
«A tali parole, chiama i suoi schiavi, e mentre stendono Azem al suolo, egli lo percuote a raddoppiati colpi con un flagello munito d’acute punte, coprendolo di sanguinose piaghe; il giovane musulmano, pieno di coraggio sopporta intrepido le battiture insultando al suo furore. Il Guebro, stanco, si ferma alfine, e fatta caricare la vittima di pesanti catene impone agli schiavi di gettarlo in fondo alla sentina col pane e l’acqua necessarii alla sua esistenza. Il coraggio d’Azem non soggiacque a quei crudeli maltrattamenti, fu sostenuto dalla sua fiducia in Dio, e dalla speranza di veder finiti i suoi patimenti giornalmente rinnovati, che il vecchio mago veniva a fargli provare ogni mattina tutte le immaginabili torture.»
NOTTE DLXIV
Scheherazade, continuando il suo racconto: — Sire, noi abbiamo lasciato Azem esposto alla rabbia del Guebro, e sempre pertinace, malgrado i crudeli trattamenti, a conservare la fede musulmana. Un giorno, si scatenò una furiosa procella: le onde sollevavano il vascello, portandolo sino alle nubi; si temeva ad ogni istante di vederlo andar in frantumi: l’equipaggio, pieno di spavento, s’avvisò fortunatamente di attribuire il corruccio del cielo ai tormenti che Bahram infliggeva ad Azem. Gli ordinarono pertanto di rendere la libertà al prigioniero, e siccome non ubbidiva subito, afferrati gli schiavi ministri delle sue crudeltà, li gettarono in mare, minacciando egual sorte al padrone, se non toglieva sull’atto le catene al giovane musulmano. Allora fu ben d’uopo al mago di decidersi; lo astrinsero inoltre ad inginocchiarsi e chieder perdono alla sua vittima. Il vecchio giurò fra sè di far pagar caro al prigioniero tutte le umiliazioni che provava per lui.
«La procella si calmò, e pel resto del viaggio, Azem fu trattato bene e tornò alquanto in vita. Il suo rapitore gli prodigava mille cure, e sforzavasi di fargli dimenticare le primiere violenze. Alfine si scorse la terra; il mago discese con Azem, di cui aveva quasi ricuperata la fiducia, e gli disse che andava in cerca del paese ove trovavasi l’oro. Ingiunse al capitano di aspettarli un mese su quella spiaggia, e si avanzò nell’interno delle terre. Quando si trovò solo con Azem, trasse dalla veste un tamburello e due bacchette, battè una marcia, e tosto un vento furioso si alzò nel deserto. Una colonna di sabbia formossi: Azem ne fu spaventato, ma rimase gradevolmente sorpreso, quando la colonna d’arena scomparve, lasciandogli scorgere tre camelli: uno era carico di tutte le provvigioni necessarie ad un viaggio; due altri, riccamente bardati, sembravano aspettare i cavalieri. Bharam invitò Azem a montarne uno, prese l’altro, e partirono con prodigiosa celerità. Non videro nulla di notabile per otto giorni: il nono, Azem scorse qualche cosa di brillante all’orizzonte; s’inoltrarono, e potè contemplare la splendida architettura d’un castello rifulgente d’oro e di pietre preziose; un immenso spazio, sparso di deliziosi boschetti, stava sul dinanzi.
«Appena il mago, che non erasi alla prima accorto di tale spettacolo, l’ebbe veduto, volse le spalle, e si mise a fuggire con tutta la velocità del suo camello. Azem avrebbe ben voluto dirigersi verso il castello, ma l’animale che montava seguì quello del mago, malgrado tutti i suoi sforzi e non sostò se non quando Bharam, penetrato in un foltissimo bosco, si credette in salvo. Rispose allora alle domande di Azem, che il palazzo da lui veduto era abitato da geni malefici, suoi nemici, de’ quali promise narrargli un dì l’istoria.
«Si rimisero in viaggio, e Bharam, in capo ad alcuni giorni, chiese al compagno se non vedesse nulla all’orizzonte.
«— Vedo,» gli rispose questi, «una catena di nerissime nubi che corrono da levante a ponente; — Non sono nuvole,» disse Bharam, «ma altissime montagne chiamate i monti delle Nubi. Alla loro vetta, avremo raggiunto lo scopo del nostro viaggio, e coll’aiuto che mi presterai, torneremo al nostro vascello più ricchi di tutti i sovrani della terra; ma per far ciò, bisogna che tu mi obbedisca puntualmente in tutto quello che ti comanderò.» Azem glielo promise; ma fremeva internamente quando rammentava le trentanove vittime del vecchio Guebro ed i barbari trattamenti sofferti sulla nave, e pentivasi di essersene dipartito, ma troppo tardi. Si raccomandò nuovamente alla Provvidenza, e cercò nascondere alla meglio il proprio timore. Bharam lo colmava di carezze; viaggiarono così altri quattro giorni, dopo i quali trovaronsi alle falde delle montagne nere, ma non vi poterono salire, giacchè un precipizio, formato dal fianco dei dirupi, tagliati a picco, ed un largo fossato, impedivano di avvicinarsi, e la loro prodigiosa altezza diffondeva una tetra oscurità sugli oggetti circostanti.
«Scesi a terra, lasciarono pascolar i camelli. Il mago levò dalle provvigioni tre pani ed un piccolo vaso d’acqua, accese il fuoco, uccise poscia il più giovane dei camelli, e sventratolo, ne lavò ben bene l’interno. Allora disse ad Azem: — Figliuolo, ecco il momento di finire le nostre fatiche: a tal uopo bisogna entrare nel corpo di questo animale; io ne cucirò quindi la pelle, avendo cura di lasciarvi un foro onde tu possa respirare. Un enorme roc verrà a prendere negli artigli l’animale, e lo porterà sulla cima del monte; quando t’accorgerai di essere in terra, affrettati ad aprirti un varco colla daga; la tua improvvisa comparsa farà fuggire l’uccello: allora, senza perder tempo, riempirai il sacco che ti porgo colla polvere nera che troverai sulla vetta della montagna, ed attaccatolo al capo di questa corda, lo calerai giù, scendendo quindi tu pure in tal modo, e ci riporremo in viaggio. —
«Azem fu costretto a sottomettersi al volere del mago, malgrado la diffidenza che ne aveva, e si lasciò adunque rinchiudere nel corpo del camello. Vi era già da alcune ore, allorchè, secondo le parole del mago, uno degli enormi uccelli che abitavano in vetta al monte, scagliossi sul camello appena lo ebbe veduto, ed afferratolo cogli artigli, lo portò sulla punta più alta di quelle rupi.»
Lo spuntare del giorno troncò il racconto di Scheherazade; all’indomani, essa lo continuò in questi sensi:
NOTTE DLXV
— Sire,» disse, volgendosi al sultano delle Indie, «il giovane musulmano si conformò alle istruzioni ricevute: spaventato il roc, uscì dal camello, riempì il sacco di polvere nera, e si avvicinò alla roccia perpendicolare appiè della quale lo aspettava il vecchio Guebro. Quando costui lo vide, si mise a prodigargli lodi ed incoraggiamenti. — Vieni, diletto figliuolo,» gli diceva, «la nostra fortuna è ormai certa, ed a te solo ne sarò grato. Attacca il sacco alla corda che hai, e calalo giù fino a me; lega poscia la fune strettamente ad uno degli alberi vicino ai quali ti trovi, e scendi per raggiungermi. —
«Azem, senza diffidenza, attaccò il sacco e la lasciò cadere fino a terra; ma appena Bahram ebbe afferrata la corda, si mise a tirarla con tutta forza, cercando di trascinar giù il giovane, Il quale non ebbe altro mezzo, per evitare una morte certa, fuorchè di abbandonare ciò che doveva salvarlo. Allora il mago gli volse queste parole: — Tu ora espierai, cane di musulmano, le umiliazioni che mi facesti sopportare; rallegrati adesso, e va a trovare i cadaveri de’ tuoi compagni, che giacciono su queste montagne, ove li ho lasciati al par di te. —
«E siccome Azem implorava pietà: — Non piaccia a Dio,» disse, «ch’io sia tanto folle da ricondurre con me un uomo che potrebbe tradire il mio segreto! —
«Sì dicendo, salì sul camello, e lasciò Azem in preda alla più violenta disperazione. Il misero giovine seguì cogli occhi, fin che potè, il perfido compagno; ma quando l’ebbe perduto di vista, cadde a terra privo di sensi. Rimase in tale stato per alcune ore: indi la fame e l’amor della vita lo richiamarono in sè; alzossi, fece la sua preghiera al Creatore, e mangiò uno dei piccoli pani seco portati. Quella tenue refezione gli restituì un po’ di forza; corse da tutte le parti per trovare un varco, ma indarno. Intanto calò la notte: il timore delle bestie feroci ed il pericolo di qualche precipizio, lo costrinsero a fermarsi, e cercare un folto albero per ricovero durante la notte. Ne trovò uno che pareva fatto a bella posta, vi salì, e s’addormentò stanco di fatica.
«Egli faceva un brutto sogno, e sudava a grosse gocce, quando svegliatosi per l’agitazione che provava, si vide vicino al petto le fauci spalancate e gli occhi scintilianti d’un enorme serpente, che sembrava assaporar già il piacere di divorarlo. Il terrore lo rese immobile: il serpe, probabilmente per prendere una posizione più comoda, fe’ un movimento e volse il capo, allora Azem, approfittando della circostanza afferrò ratto la daga, e la cacciò nella testa del mostro, che cadde sull’istante.
«Azem non potè dormire pel resto della notte. All’aurora scese dall’albero, e fu allora soltanto che potè giudicare della lunghezza del serpente ucciso. Il mostro viveva ancora, ma i suoi occhi erano chiusi, e gli fu agevole finirlo. Ritrasse la daga dalla testa del serpente, e considerandone la smisurata grandezza, gli venne in pensiero di scorticarlo, e colla pelle formarne funi da sostituire a quelle di cui il mago l’aveva privato, per discendere alle falde della montagna. Si accinse subito al lavoro, e dopo varie prove pervenne alfine, con immensa fatica, appiè del monte, sulla cui vetta credeva di trovar la tomba. Prosternossi col viso a terra onde ringraziare la Provvidenza di questo beneficio e supplicò l’intercessione del Profeta pei pericoli che poteva incorrere; abbandonò quindi quegl’inospiti luoghi, e camminò fino a sera, cibandosi delle frutta che gli offrivano gli alberi delle foreste per le quali passava; in breve riconobbe la strada d’onde era venuto, e la seguì fino al nono giorno.
«Fu allora che vide, all’estremità d’un magnifico viale, il medesimo castello che il Guebro aveva presa tanta cura di evitare. A misura che avvicinavasi, ne esaminava l’imponente architettura; colonne d’oro sostenevano un peristilio di pietra cerulea, ed al disopra degli alberi, fra quali migliaia d’uocelli facevano sentire i loro gorgheggi, scorgeasi torreggiare il tetto d’un immenso e magnifico palagio. Azem esitò un istante se dovesse andar a chiedervi, ospitalità. Bharam avevagli detto ch’era abitato da geni malefici, ma pensando che nulla potevagli accadere di peggio del pericolo già superato, si azzardò ad entrarvi, e traversò una superba corte lastricata di prezioso marmo. Giunto in una sala di stupenda ricchezza, vide due giovani dame che giuocavano agli scacchi. — Ah! sorella,» sclamò una di esse, «ecco probabilmente lo sfortunato giovine passato qualche tempo fa col mago Bharam! — È lui appunto,» sclamò Azem, gettandosele alle ginocchia per domandarle ospitalità. — Voi non avete bisogno di pregare,» rispos’ella; «se non foste stato col vecchio Guebro, vi avremmo avuto con noi in questo palazzo da gran tempo. Sin dall’infanzia nostro padre ci ha relegate in questo remoto edificio, costruito dai geni. Noi siamo incaricate della cura degli appartamenti, e saremmo liete che ci aiutaste in codesto lavoro: vi tratteremo come nostro fratello —
«Il giovine accettò con gioia la proposta. Non aveva quasi nulla da fare, e domandavasi sovente a che cosa un castello sì magnifico, e nello stesso tempo sì lontano da tutte le città, potesse servire. Viveva nel miglior accordo colle due sorelle, e la sua amicizia per loro andava ognor più crescendo: accadeva però, che a certe epoche, lo facevano nascondere in un appartamento d’onde non poteva veder nulla di quanto succedeva nel castello. Si avvisò un giorno d’infrangere gli ordini delle sorelle, e celarsi nei boschetti. Qual fu la sua meraviglia, vedendo nella vasca del giardino molte leggiadre fanciulle che davansi ai piaceri del bagno. Azem ne osservò soprattutto una di cui s’invaghì sull’atto; aspettò che avessero finito di bagnarsi, e le vide vestire stoffe leggiere e sparir nell’aere. Azem usò varie volte del medesimo strattagemma per contemplare la bella incognita; ma le due sorelle, che ignoravanlo, vedevano con dispiacere ch’egli deperiva sensibilmente; alfine venne a tal punto, che si dovè temere della sua vita. Allora, sollecitato dalle amiche, confessò la sua colpa, e come l’amore ne lo avesse punito. Esse cercarono indarno di fargli sentire la follia di quella passione, e quanto fosse irragionevole l’aspirare alla mano d’una delle figlie del re dei geni (quel castello era uno dei loro ritrovi di piacere). Azem dichiarò che sarebbe morto infallibilmente, se non possedeva la bella sconosciuta. Allora, vedendo essere impossibile di guarir altrimenti l’infermo, le due sorelle, che avevano per Azem un’affezione sincera, lo consolarono, dicendo che tutta la possanza di quelle aeree fanciulle consisteva nella loro cintura, e che se arrivava ad involar quella dell’oggetto de’ suoi voti, l’astringerebbe a rimanere nel castello.
«Azem fu tosto guarito da tali parole, e si ripromise d’impadronirsi della cintura nella prossima venuta delle figlie del re dei geni. L’occasione non tardò a presentarsi. Le giovani ninfe si spogliarono, e l’amoroso musulmano, balzando sulla cintura della sua bella, la fece sventolar in aria. Le altre, spaventate, si precipitano in folla sui loro abiti, e fuggono mettendo alte strida; quella che rimaneva prigioniera si mise a piangere amaramente i genitori ed il suo paese, ma nulla potè decidere il rapitore a lasciare la leggiadra preda; Azem cercò di farsi perdonare la sua condotta colla gentilezza dei modi ed i massimi riguardi.
«Colpita dall’idea della schiavitù che l’aspettava, e della perdita dei parenti e degli amici, ella respinse le cure di Azem e delle sue compagne. Pure finirono col deciderla a lasciarsi condurre nel palazzo, ed Azem essendosi ritirato, la figlia dei re del geni rimase colle due sorelle che avevano cura della casa. Queste non tardarono ad acquistare una dolce influenza sullo spirito della giovine schiava, che non potè restar a lungo indifferente alle tenerezze che ciascuno le dimostrava. Il merito e l’avvenenza di Azem terminarono di guadagnargliene le affezioni; in breve essa provò per lui l’amore più tenero, e dopo qualche mese, il giovane musulmanno divenne lo sposo della bella principessa delle Isole Volanti. Superbe feste furono date in onore di queste nozze, e le amabili cure delle due sorelle aumentarono ancora la felicità di quella fortunata coppia.
«Intanto la memoria della sua buona madre veniva spesso a turbare la gioia d’Azem. Non potendo resistere più oltre al desiderio di vederla, chiese infine alle sue protettrici il permesso di abbandonarle, e tornare colla moglie nel paese natio. Le principesse, benchè afflitte da tale domanda, non poterono rifiutare, e fissarono il giorno della partenza. Venuto il momento di separarsi, le due sorelle batterono su di un tamburo magico, ed all’istante molti camelli, carichi di doni d’ogni sorta, trovaronsi alle porte del palazzo con un seguito numeroso di schiavi destinati per Azem e la sua giovane sposa. La collocò in una lettiga elegante e comoda, ed egli montò su d’un camello sfarzosamente bardato. Pianse nell’abbandonare le sue generose protettrici, e promise di venirle un dì a trovare. Finalmente allontanatisi, e giunti sulla costa, trovarono un vascello pronto a far vela, ed un vento favorevole li spinse in poco tempo a Balsora, dove Azem ebbe la fortuna di ritrovare la madre. Nulla potrebbe dipingere la gioia della buona donna nel rivedere un figlio che credeva perduto per sempre. Ella abbracciò con trasporto la nuora, che le parve leggiadrissima, ed alzando le mani al cielo, ringraziò Iddio della felicità che le aveva serbato nella vecchiaia.»
NOTTE DLXVI
La sultana, continuando il racconto: — Azera, ricolmo dei doni della fortuna e de’ favori dell’amore, era uno dei più doviziosi e felici abitanti di Balsora; due figli, belli com il sole, vennero a mettere il colmo alla sua felicità e tre anni erano trascorsi rapidamente dacchè aveva lasciato il castello delle due buone sorelle. Rammentandosi infine la promessa lor data di andarle a trovare, egli dispose tutto pel suo viaggio, e dopo aver salutata la consorte, rimise l’abito incantato alla madre, raccomandandole espressamente di non permettere che se ne vestisse, nel timore che un impulso irresistibile non spingessela a volare verso il paese nativo, avendo osservato spesso che, sebbene fosse contenta di trovarsi con lui, non provava però meno talora il desiderio di rivedere la famiglia e le amiche compagne.
«Azem, avendo ricevuta dalla madre la desiderata promessa, allontanossi rapidamente. Il suo viaggio fu felice; trovò, sbarcando, vari camelli che l’aspettavano, perchè le principesse, dotte nella magia, erano state già instruite del suo arrivo, e gli avevano mandato in fretta tutto il necessario per trasportarlo subito al castello dei geni. Esse gli fecero l’accoglienza la più graziosa, e tutto il tempo che passò con loro fu impiegato in feste ed allegrie.
«Alcuni giorni dopo la partenza d’Azem, sua moglie chiese alla suocera il permesso d’andare ai pubblici bagni. La vecchia vi acconsentì volentieri, ed accompagnò in persona la nuora ai bagni, dove le persone più distinte della città solevano recarsi, come anche quelle della corte del califfo Aaron Alraschild, che allora trovavasi a Balsora.
«Nel momento che v’arrivarono, eranvi alcune donne del seguito di Zobeide, sposa del Commendatore dei credenti. Appena videro la moglie di Azem, rimasero colpite della sua beltà, e non cessarono di ammirarla fin quando abbandonò il bagno. Alcune anzi, non potendo saziarsi dal rimirare tal bellezza, la seguirono fino a casa, e tornarono a palazzo tardissimo. Zobeide, vedendole, esternò il suo malcontento per una sì lunga assenza, e volle saperne il motivo. Quando intese fare sì grand’elogio della moglie d’Azen, concepì estremo desiderio di vederla, ed il giorno, seguente mandò a cercare la madre, la quale, inquieta di tal ordine, recossi tremando dalla sposa del Commendatore dei credenti; giunta alla sua presenza, si prosternò e baciò i piedi di Zobeide. — Alzati,» le disse cortesemente la principessa, «e non temere; io ho udito vantare la beltà di tua nuora, che dicesi portentosa: bramo vederla, e voglio che tu me la conduca.—
«La madre d’Azem non osando resistere agli ordini della sultana, inchinossi rispettosamente, ed avendo promesso d’obbedire, baciò le mani della principessa e corse a casa. — La sultana Zobeide vuol vederti,» diss’ella alla nuora; «affrettati a venire da lei. —
«La moglie d’Azem, lieta di quella notizia, indossò tosto i più ricchi abiti, e, seguita dai due fanciulli e dalla suocera, si diresse verso il palazzo. Quando vi entrò, tutti gli sguardi si volsero su di lei. Zobeide stupì alla vista di tante grazie. — In qual luogo,» sclamò, «fu creata beltà sì divina? Ella la invitò con bontà a sederle vicino, e diè ordine di portar i rinfreschi; colmolla di carezza e d’elogi, e la pregò di raccontarle la sua storia, che ne accrebbe la maraviglia. —Principessa,» le disse la moglie d’Azem, «giacchè ti degnate trovarmi bella sotto questi abiti, che direste mai se mi vedeste nel mio costume natio? Se volete soddisfare alla vostra curiosità, ordinate a mia suocera di darmi la mia veste aerea; ella non oserà rifiutarvi, e godrete allora di uno spettacolo curioso. —
«Zobeide ordinò subito alla madre d’Azem di andar a cercare l’abito incantato. A quelle terribili parole, la vecchia tremò, rammentandosi la promessa fatta al figliuole; ma non osando far alcuna osservazione, tornò tristamente a casa, riportandone la veste fatale. Zobeide, esaminatola a lungo, ed ammirato il modo con cui era lavorato quel leggiero abbigliamento, lo rimise alla moglie d’Azem, i cui occhi brillarono di gioia. Quando l’ebbe in mano, affrettossi a coprirsene; poi, scendendo rapidamente nella corte del palazzo, prese i due figli in braccio, e prima che si pensasse a trattenerla, s’innalzò nell’aere allo sguardo attonito di tutti. Quando fu ad un’altezza sufficiente per non essere raggiunta, sclamò: — Addio, madre mia, v’incarico di consolare il mio sposo; ditegli che non cesserò d’amarlo ma che il desiderio di rivedere la mia famiglia mi costringe ad allontanarmi; se m’ama a segno di non poter vivere senza di me, mi venga a cercare nell’isole di Waak al Waak.» A tali parole, riprese il volo, e si celò tra le nubi; ricomparve ancora, e sparì infine a tutti gli sguardi.
«Quando la madre d’Azem l’ebbe perduta di vista, la disperazione s’impadronì di lei, e non potendo dissimulare l’affanno che ne provava, accusò la sultana di essere stata l’origine di quella disgrazia.
«Zobeide, afflittissima anch’essa, fu incapace di offendersi dell’ardire col quale la madre d’Azem le aveva parlato, e ritirossi nelle sue stanze trista e pentendosi amaramante della propria curiosità.
«Mentre tutte queste cose accadevano a Balsora, Azem, benchè circondato di tenere premure, pensava alla moglie, e rammaricavasi d’essersene diviso. Accelerò il momento del ritorno, e volti teneri saluti alle due sorelle, rimpatriò. Giunto a casa, trovò la madre sola, immersa in amaro pianto. — Che è accaduto, madre?» sclamò; «dov’è mia moglie, ove i miei figli?» A quella terribile domanda, le lagrime della vecchia raddoppiarono; nulla potrebbe dare una giusta idea della disperazione d’Azem al conoscere la crudel perdita fatta. Un terribile delirio s’impadronì di lui, e gli tolse per un momento la cognizione de’ suoi affanni; ricuperata ch’ebbe la ragione, volle sapere che cosa avesse detto la moglie partendo, e quando la madre ebbegli ripetute le sue ultime parole, prese sull’atto la risoluzione di andare in cerca della sposa e dei figli, quand’anche avesse dovuto percorrere tutta la terra. Inutilmente gli si rappresentò che la distanza da Balsora alle isole di Waak al Waak era tale, che ci volevano non meno di centocinquant’anni per compiere il viaggio; egli persistè ostinatamente nella sua risoluzione, e nulla potè farvelo rinunziare.
«Dopo aver pregato Dio di benedire l’intrapresa e proteggere sua madre durante la di lui assenza, si separò da questa, e non riposò giorno, nè notte finchè non giunse al palazzo delle due sorelle. Grande fu la loro sorpresa vedendolo, e quando seppero la fuga di sua moglie e la di lui risoluzione di recarsi alle isole di Waak al Waak, sclamarono che tal progetto era impossibile, nessun uomo potendo vivere abbastanza per arrivare al compimento di tal viaggio. — Non importa,» rispose Azem;» se il cielo vuole ch’io mi riunisca alla moglie ed ai figli, saprà ben farmeli raggiungere; se ha deciso il contrario, morrò almeno consolato dall’idea che avrò impiegata in tale ricerca tutto il resto della mia vita. —
«Le sorelle, afflitte di tal risoluzione, continuarono per alcuni giorni a pregarlo di rinunciare ad un’intrapresa sì perigliosa, ma egli rimase fermo nel suo proposito. Le donne, vivamente commosse della sua tenerezza per la moglie ed i figli, si consultarono fra loro.
«Esse avevano due zii, l’uno chiamato Ab dal Kuddos, l’altro Abd al Sullyb, i quali dimoravano a tre mesi di distanza. Dopo ch’ebbero ragionato insieme sul mezzo di aiutare Azem nel suo viaggio, pensarono a que’ due zii, possenti geni, e rimisero al giovane una lettera concepita in questi termini:
««Il latore della presente è il nostro intimo amico Azem, di Balsora: se potete dargli i mezzi di giungere alle isole di Waak al Waak fatelo per l’amore delle vostre nipoti, che v’amano e vi rispettano; se ciò che vi domandiamo è impossibile, impeditegli d’intraprendere il viaggio, per timore non corra alla sua rovina. In questo momento, il suo amore estremo per sua moglie e pe’ suoi figli gli fanno e rigettare tutti i nostri consigli ma speriamo che voi avrete maggior influenza su di lui, o che, per vostro mezzo, otterrà sicurezza e prospero successo.»»
«Esse diedero quello scritto ad Azem, e colmatolo di benedizioni, lo lasciarono partire, seguendolo cogli occhi finchè fu fuor di vista.»
NOTTE DLXVII
— Sire,» continuò Scheherazade, «noi abbiamo lasciato ieri Azem che partiva dal castello delle due sorelle per recarsi al paese abitato dagli zii, ai quali era stato raccomandato; il suo viaggio fu lungo e penoso. Finalmente, dopo molti mesi di cammino, giunse in un luogo campestre e fertile; la natura eravi sì ferace, che credette quasi trovarsi nel paradiso terrestre. Vide a poca distanza un bellissimo edificio, verso il quale diresse i passi. Un venerando vecchio stava seduto sotto un’elegante colonnata; i suoi sguardi si portarono con curiosità sullo straniero, che s’avanzava e gli restituì il saluto con fare grazioso. Rapito dall’aria nobile di Azem, invitollo a sedere, e dopo una leggiera refezione, informossi dei motivi del suo viaggio.
«Questo vecchio era Abd al Kuddos, zio delle principesse; quando ebbe udito nominare le nipoti, e che interessavansi in particolar guisa pel giovane straniero, raddoppiò d’attenzioni e di riguardi. Rilesse molte volte la lettera presentatagli da questi, e dopo aver a lungo riflettuto, disse: — Rinuncia, figliuolo, te ne scongiuro, al tuo insano progetto, e non esporre la tua vita in un’impresa che non può riuscire; il viaggio che vuoi fare è pieno d’infiniti pericoli; sonvi deserti aridi e popolati da belve feroci: terre diseccate che non producono alcun frutto per nutrirti, e non offrono sorgente alcuna per dissetarti. Supponiamo che tu giungessi a superare tutti questi ostacoli: saresti ancora lontano dal toccare la meta de’ tuoi voti, perchè il resto della tua vita non può bastare ad un viaggio, pel quale abbisognano centocinquant’anni. Cessa dunque dal correre alla tua rovina, figliuol mio, e torna alla tua dimora. —
«Ma indarno il vecchio sforzavasi di smoverlo dalla sua risoluzione: non volle ascoltar nulla, e, preso sufficiente riposo, il terzo dì si dispose a continuare il viaggio. Quando il genio vide che nulla poteva stornarlo da tal progetto, accese il fuoco, vi arse profumi, e pronunciate alcune misteriose parole comparve subito un genio di burbero aspetto. — Perchè mi chiamasti?» chiese al vecchio, «Deggio svellere il culmine che sostiene il tuo palazzo, e lanciarlo al di là delle montagne di Kaf? — No, la Dio mercè,» rispose Abd al Kuddos; «ho bisogno de’ tuoi servigi in un’altra guisa. Bramo che tu trasporti questo giovine da mio fratello Abd al Sullyb. —
«Benchè la distanza fosse immensa, il genio v’acconsentì, e preso Azem colla destra, se lo pose sugli omeri, innalzossi nell’aere, e verso il tramonto discese con lui davanti alla dimora di Abd al Sullyb.
«Appena entrati, il genio, salutatolo con rispetto, gli esternò il desiderio di suo fratello Abd al Kuddos, ed Azem, avanzatosi gli presentò la lettera delle nipoti.
La di lui sorpresa fu grande come quella del fratello, apprendendo la storia d’Azem ed il suo progetto stravagante di penetrare nelle isole di Waak al Waak, e poco mancò non si sdegnasse con lui, vedendo la pertinacia ed il poco ritardo che sembrava avere pe’ suoi consigli. Infine, la disperazione di Azem e le lagrime che versò calmarono il corruccio di Abd al Sullyb, il quale, mosso da compassione, risolse nel fondo del cuore di proteggerlo e guarentirlo, il più che gli fosse possibile, dai pericoli in cui stava per incorrere. Egli chiamò dunque dieci geni, che presentaronsi all’istante, e pregatili cortesemente a sedere, narrò loro la storia d’Azem, chiedendo poi che cosa ne pensassero.
«— Questa storia è maravigliosa,» sclamarono essi, «ed il progetto di codesto giovine ben temerario; pure, noi faremo ciò che desiderate, signore, trasportando il vostro protetto di montagna in montagna, di deserto in deserto fino ai limiti del nostro territorio; ivi lo lasceremo, non essendoci permesso di andar più lungi, non osando mettere il piede in luoghi abitati da geni più possenti di noi, e di cui avremmo a temere il risentimento. — Accetto la vostra offerta con gratitudine!» sclamò Azem; «e se lo permettete, partiremo senza indugio, perchè il tempo è prezioso. —
«Azem si congedò dunque da Ab al Sullyb, ed i dieci geni messolo in mezzo, presero il volo, e dopo un giorno ed una notte, fermaronsi in un paese chiamato la terra di Kafoor; colà, era il termine del loro viaggio. Non potendo più essere utili ad Azera, augurarongli un buon successo, e scomparvero.
«Egli continuò il suo viaggio, e dopo aver volta al cielo una fervida preghiera, camminò per dieci giorni senza trovare sembianza umana, non avendo per altro nutrimento che i frutti degli alberi. Alla fine, egli scorse tre uomini che parevano animati da estrema collera, e come disposti a venire alle mani. Azem accingevasi ad avanzarsi per separarli, quando i tre uomini, scorgendolo, sclamarono: — Bisogna che questo giovane sia giudice della nostra lite.
«Tosto dirigendosi alla sua volta, gli domandarono se voleva essere loro arbitro. Azem acconsentì; essi allora gli mostrarono un berretto un tamburo ed un pallone, dicendo: — Noi siamo tre fratelli, ed abbiamo ereditato dai nostri parenti questi oggetti: ma siccome, prima di morire, non hanno destinato a ciascuno la parte che doveva toccargli, suscitossi tra noi una discussione a tal proposito: siate dunque nostro abritro e date a ciascuno la parte che gli si compete; noi giuriamo di conformarci alla vostra decisione. —
«Azem, sorpreso, trovò quei tre oggetti di sì meschina apparenza, che gli parve tutti insieme non potessero valere più di mezzo dinar, — Palesatemi,» disse ai tre fratelli, «il merito che possono avere questi tre articoli individualmente, perchè sinora non ne darei un quattrino. — Signore,» sclamarono coloro, «ciascuno di questi oggetti ha una virtù particolare, che vale essa sola tutti i tesori della terra, e quando ne conoscerete il merito, farete loro maggior giustizia; degnatevi ascoltarci. — Questo berretto,» disse il maggiore, «ha il potere di render invisibile. Non avvi nulla che impedir possa a chi lo possiede di pervenire ad un’alta fortuna; mettendolo sulla testa, può penetrare dappertutto, perchè gli uomini e neppure i geni non potrebbero scorgerlo; può appropriarsi tutto quello che gli conviene, penetrare nei gabinetti dei re e dei ministri, sventarne gli ambiziosi progetti, svelarne le turpitudini, e sorprendere i loro più reconditi intrighi. Se le ricchezze sono l’oggetto de’ suoi voti, può attingere nei tesori reali; se la vendetta è un bisogno del suo cuore, egli può, senza timor di castigo, togliere di vita il suo nemico. —
«Azem ascoltava attentamente l’enumerazione di tutti i vantaggi che potevansi ricavare dal prezioso berretto, e pensò che non sarebbe convenuto a nessun altro quanto a lui. — Forse,» pensava, «questo maraviglioso berretto potrà farmi ritrovare mia moglie.» Volutosi quindi ai tre fratelli, disse: — Ora che sono convinto del merito del berretto, ditemi qual è quello del tamburo di rame.
«— Il possessore di questo prezioso oggetto,» riprese il secondogenito, «quand’anche fosse nella posizione più pericolosa, ne sarebbe tosto liberato, battendo sui caratteri incisi nel rame. Tutta la virtù di questo tamburo sta racchiuso nelle magiche parole scritte dal gran Salomone. Tutti gli spiriti, tutti i geni saranno agli ordini del fortunato possessore di questo maraviglioso strumento, e quand’egli avrà battuto, tutti s’affretteranno ad eseguirne i comandi per quanto difficili; e ciò in virtù delle parole magiche del nostro gran re Salomone, figlio di David.
«— Questo tamburo è realmente fatto per me,» disse tra sè Azem; «io ne ho maggior bisogno di questi tre uomini esso mi proteggerà contro i pericoli, nei quali incorro, andando all’isole di Waak al Waak. Mi aiuterà a ritrovare mia moglie ed i figli, e mi metterà al coperto degli assalti de’ miei nemici visibili ed invisibili. Va benissimo,» aggiunse quindi, volto al secondo fratello, il quale avevagli fatto l’elogio del tamburo; «vediamo ora ciò che riguarda il pallone di legno.
«— Signore,» riprese il terzo fratello «chiunque possederà questo pallone, troverà in lui virtù sorprendenti. Egli ha il potere di portar in un attimo un uomo all’estremità della terra, e compisce in due giorni un viaggio di duecento anni; non si ha bisogno che accennare il luogo dove si vuol essere trasportati, e tosto egli si slancia a percorrere lo spazio colla celerità del turbine. —
«Quando il terzo fratello ebbe finito di parlare, Azem si determinò ad appropriarsi il pallone insieme agli altri due oggetti. — Non basta,» disse loro, «avermi spiegate le virtù di queste tre cose; bisogna inoltre ch’io abbia la prova della verità di ciò che voi asserite: altrimenti non posso essere vostro arbitro. — Avete ragione,» sclamarono i tre fratelli; « provate il loro potere come vi parrà meglio, e Dio vi protegga nella vostra impresa!» Azem si mise allora il berretto in testa, attaccò il tamburo alla cintola, poi, collocandosi in un navicello che pendeva dal pallone, nominò il luogo dove voleva recarsi, e la docile macchina, innalzandosi ratto, percorse lo spazio colla velocità d’impetuoso vento. I tre fratelli, vedendo Azem e la loro eredità allontanarsi con tanta prestezza, gli corsero diedro, gridando: — Ora avete la prova di ciò che desiderate: non siete contento? Basta, fermatevi, fermatevi....» Ma gridavano invano: Azem era già a dieci giorni di distanza.
«Il suo equipaggio si fermò davanti la porta di un ampio edificio. Azem scese dalla navicella, e preso il tamburo, pose i diti sui magici caratteri. Esitava a battere, quando udì una voce profferire queste parole: — Tu hai vinto, Azem, e superasti parte degli ostacoli che ti si offrivano; però, non puoi arrivare al tutto alla meta de’ tuoi desiderii se non dopo gravi stenti e pericoli; nascondi con cura il pallone che possiedi, perchè ora tu sei sulla terra dei geni malefici.» Azem, docile a tal consiglio, prese il pallone e lo celò sotto le vesti; poscia, guardandosi intorno con inquietudine: — Chi sei tu?» gridò egli. — Io sono,» rispose la voce, «uno dei geni devoti alla virtù del tamburo, e veglio di continuo alla tua sicurezza; gli altri geni miei fratelli non compariranno se non quando ne sarà d’uopo; continua il tuo viaggio, perchè sei ancora a tre anni di distanza dall’isole di Waak al Waak.»
NOTTE DLXVIII
— Azem non ismarrì il coraggio, e dopo una breve prece, si rimise in cammino, e giunse finalmente in un paese infestato da serpenti e dragoni mostruosi. Atterrito a tal vista, battè leggiermente sul tamburo.— Qual è questo paese?» chies’egli? — È la terra dei dragoni,» rispose la voce; e sta in guardia, e per quanto sii stanco, non fermarti in questo pericoloso paese. I geni di codeste regioni sono i più crudeli di tutti, e le loro orribili caverne piene d’animali feroci.» La voce cessò allora di farsi udire, ed Azem stimò prudente di mettersi in capo il berretto, ed attraversò quello spaventoso deserto, senza essere attaccato da alcuno de’ suoi crudeli abitanti, i cui orrendi urli gl’indussero qualche spavento. Giunse infine al lido del mare, e vide da lontano le isole di Waak al Waak, le cui montagne, d’un fosso ardente, somigliavano a nubi dorate dai raggi del sole al tramonto. Vedendole fu colpito da sorpresa e timore, ma tornando in sè: — Perchè spaventarmi?» pensò; «giacchè Iddio si è degnato di condurmi fin qui, saprà proteggermi ancora, se tale è la sua volontà.» Allora mangiò qualche frutto, e dopo una fervida prece, addormentossi sull’erba sino alla mattina vegnente.
«Verso l’alba, Azem battè leggermente sul tamburo. Che cosa vuoi?» gli disse il genio. — Domandarti il mezzo di attraversare questo vasto mare, per recarmi nelle isole. — Tu non puoi farlo,» rispose la voce, «senza il soccorso d’un saggio venerabile che dimora in un eremo situato ai piedi di quel monte che vedi da lungi, ed è ad una giornata di distanza. Fa uso del pallone, e vi sarai condotto in meno di mezzora. Non celar nulla al veglio, perchè egli solo ti può indicare e somministrare il mezzo d’attraversare quest’oceano. —
«Azem, salito nel pallone, fu trasportato subito alla dimora dell’eremita. Bussò leggermente alla porta che tosto si schiuse, entrò, e fu ricevuto cortesemente dal saggio, a cui domandò il mezzo di valicar il mare. — Qual motivo t’induce, figliuolo,» chiese l’eremita, «ad intraprendere sì arduo viaggio? — Padre,» rispose Azem, «vi basti per ora di sapere, che il mio più vivo desiderio è di varcar questo mare, e penetrare nelle isole ch’esso racchiude; io sono venuto da un paese assai lontano di qui.» Il saggio, a tali parole, si fermò dinanzi ad Azem, aprì un grosso libro, e ne lesse alcuni passi. Ad ogni momento, gettava sul giovine uno sguardo di maraviglia. — Gran Dio!» sclamò infine; «quante pene, quante crudeli prove sono riserbate a questo infelice! — Perchè mi guardate così, padre?» chiese l’altro. — Figliuolo, ti darò il mezzo di giungere a quelle isole, poichè tale è il tuo desiderio; ma non ti dissimulo che non otterrai l’oggetto delle tue ricerche, se non dopo molte traversie e tormenti. Ora raccontami esattamente la tua storia.
«Allorchè l’ebbe intesa: — Dio permetterà,» soggiunse, «che tu riesca in codesta impresa, sebbene assai perigliosa. Domani, figlio mio, ci dirigeremo verso quei monti, e tu traverserai il portentoso oceano. —
«All’alba, l’eremita ed Azem si misero in cammino, e dopo una salita erta e faticosa, giunti davanti ad un edificio che pareva una fortezza, entrarono in una corte, in mezzo alla quale eravi una statua colossale di rame; vari tubi vi stavano attaccati) andando a metter capo in un immenso serbatoio di marmo: questa meraviglia era opera dei geni. L’eremita accese del fuoco, vi gettò alcuni profumi, e profferì parole inintelligibili al giovane. Appena finite le sue evocazioni, il cielo oscurossi, si scatenò una fiera tempesta, pallidi lampi squarciarono le nubi, ed il tuono rumoreggiò tremendamente per tutto il monte. Azem, atterrito al sommo, contemplava in silenzio quanto gli accadeva intorno. La tempesta però produceva sull’animo suo minor impressione dei gemiti e del fracasso spaventevole che facevansi intendere in mezzo al serbatoio, il quale apparve in breve coperto di onde spumeggianti. L’oragano finalmente acquetossi, i rumori cessarono, ed il vecchio, volgendosi ad Azem: — Esci da questo luogo,» disse; «e guarda quell’oceano che ti pareva sì difficile da varcare. —
«Azem tornò sulla vetta del monte, e diretti gli sguardi curiosi verso il mare, la sua sorpresa fu al colmo non iscorgendone più la minima traccia. Invano cercò alcuni segni di quel mare, la cui immensità lo aveva tanto colpito. — Continua, o figliuolo, a riporre la tua fiducia in Dio solo,» gli disse il saggio vecchio, «e prosegui l’oggetto delle tue ricerche.» A tali parole, l’eremita disparve agli sguardi del giovane. Questi continuò la sua strada, e giunse finalmente alle isole di Waak al Waak verso il tramonto. Quel paese gli parve incantevole: magnifici ed abbondanti pascoli, fitte ombre se gli offrivano alla vista; camminò lunga pezza sotto ameni boschetti, il cui silenzio non era turbato che dai melodiosi gorgheggi degli uccelli. In quella vide avanzarsi una vecchia verso di lui. Sorpresa all’aspetto d’un giovane, gli domandò cosa volesse e da qual parte venisse. — Abbiate fiducia in me,» soggiunse colei, «io farò il possibile per esservi utile.» Incoraggito da parole sì cortesi, narrò alla vecchia una parte della propria storia, e qual fosse il motivo del suo viaggio. Essa parve assai commossa ascoltandolo; e dopo aver riflettuto alcuni minuti, gli promise di aiutarlo a penetrare presso la moglie, ad onta dei pericoli che dovesse incorrere. Arrivarono in breve alle porte della capitale, e la vecchia, profittando dell’oscurità notturna, introdusse Azem nella città, lo nascose in propria casa, e raccomandogli espressamente di non uscire, giacchè la sola vista d’un uomo poteva metter l’allarme in tutto il paese, e turbare il popolo femminino che l’abitava.»
Con sommo rammarico del sultano e di Dinarzade, che quel racconto interessava assaissimo, i primi raggi del sole vennero ad interrompere la narratrice. All’indomani, col consenso del sultano, essa lo continuò in questi termini:
NOTTE DLXIX
— Sire,» disse la sultana delle Indie, «Azem, lieto di essere finalmente giunto al termine d’un viaggio sì lungo e penoso, promise alla vecchia tutto ciò ch’essa volle, e col cuore pieno di speranza, ringraziò il cielo, e supplicollo di porre il colmo a’ suoi voti, riunendolo alla consorte ed ai figliuoli. La vecchia preparò ad Azem un pasto ch’egli trovò eccellente, benchè i cibi di quel paese fossero diversi da quelli cui era avvezzo. Andò quindi a letto, e dormì saporitamente, avendone sommo bisogno dopo tante fatiche, svegliandosi all’indomani assai tardi. Aprendo gli occhi, vide la vecchia seduta vicino al letto. — Figlio,» gli disse questa, «m’è d’uopo palesarti che tua moglie ha sofferto mille tormenti dopo che si divise da te; nessuno meglio di me può informarti di quanto la riguarda, essendo la nutrice della regina e delle sue sorelle. Io fui sovente testimonio dell’affanno ch’ella prova pensando che si è volontariamente separata da te, e cercai di raddolcire le sue pene. —
«Azem piangeva a calde lagrime udendo tali parole: la vecchia non potè consolarlo se non promettendogli che presto avrebbelo condotto dalla principessa. Dopo aver finito d’informarlo degli infortunii di sua moglie dacchè era di ritorno nell’isola, lo lasciò, e recossi al palazzo, ove trovò la regina e le sue sorelle che deliberavano sulla sorte della moglie di Azem, alla quale non avevano potuto perdonare ancora d’essersi maritata ad un mortale. Il risultato della loro conferenza fu di farla morire fra le torture per punirla di tanta ingiuria alla loro illustre schiatta. Appena la vecchia comparve la regina e le sue sorelle si alzarono con rispetto, e la indussero a sedere.
«— Che cosa avete deciso intorno alla sorte della vostra sfortunata suora?» domandò poi alla regina. Considerando,» rispose la sovrana, «ch’essa si è avvilita dando la sua mano ad un essere che non è della schiatta dei geni; che questo disonore ricadrebbe su di noi, e che la nostra nobile stirpe avrebbe il diritto di sprezzarci, risolvemmo di farla perire senza speme di misericordia. — La sua morte ricadrà su’ vostri capi,» gridò la vecchia, «non essendovi lecito di punire un lieve errore con sì orribile castigo. Del resto, la sola grazia che vi chieggo, è di permettermi di vederla per l’ultima volta.—
«Essendole stato accordato tale permesso, la nutrice fu immediatamente condotta nella prigione dell’infelice principessa, ove la trovò pallida e lagrimosa: i suoi figli le stavano intorno, sforzandosi, colla loro innocente allegria e le dolci carezze, di distrarla da’ suoi tristi pensieri. La nutrice pianse dapprima con lei, l’abbracciò teneramente, ed avendola indotta a confidare in Dio, cercò di farle concepire la speranza che forse fra poco i suoi mali sarebbero terminati. — Cara nutrice, le vostre parole furono sempre per me un balsamo consolatore; ma non so perchè in questo momento esse sono più potenti dell’usato: sento, per la prima volta, un raggio di speranza destarmisi in fondo all’anima. — È un presentimento di felicità che il cielo t’invia, o figlia! consolati,» riprese la nutrice, «il tuo sposo, dopo innumerevoli pericoli, è alfine giunto in questo paese; ora abita nella mia propria casa, e fra poco ti sarà vicino.» La gioia che provò in quel punto la povera prigioniera fu per divenirle fatale; ma la vecchia, avendole fatto respirare alcuni odori, ricuperò i sensi, e volse al cielo le prime parole che potè proferire. Quando la nutrice la vide al tutto ristabilita, l’abbracciò teneramente, e lasciolla per ritornare da Azem, a cui, dopo aver narrato la risoluzione presa dalla regina e dalle sorelle, consigliò di rapire la moglie al più presto possibile.
«Azem, fuor di sè, versava lagrime di dolore e di rabbia, ascoltando il racconto della crudeltà della regina, ed ardeva d’impazienza di trovarsi riunito alla diletta del suo cuore. Quando fu notte, la vecchia lo condusse appiè della torre, ove stava chiusa la principessa, ed avendogli dati tutti gli schiarimenti necessari, lo raccomandò al santo Profeta, ed affrettossi a lasciarlo. Azem passò il resto della notte pregando, e quando vide comparire l’aurora, mise in testa il berretto e divenne invisibile a tutti. La regina comparve tosto, seguita da alcune schiave, aprì la porta della prigione, ed Azem, postosi in coda, vi si introdusse con lei, senza essere stato veduto da alcuno.
«Sforzandosi di contenere i sentimenti di cordoglio e d’amore che provava, entrando in quella trista dimora, si mise in un angolo del carcere, e fu testimonio degli indegni trattamenti che la regina fece subire alla misera sorella. Dopo averle parlato nella maniera più ironica e barbara, le intimò di prepararsi a morire, ed ordinò alle schiave di attaccarla pe’ suoi bei capelli ad una delle colonne della prigione. — Fermatevi, infami carnefici, e temete la vendetta celeste! «gridò Azem, incapace di più a lungo frenare la violenta collera onde sentivasi agitato. La regina, spaventata dalla voce minacciosa che udiva, volse intorno sguardi atterriti, ed affrettossi a fuggire, seguita dalle schiave; mentre la principessa, la quale aveva riconosciuta la voce dello sposo, recatesi ambe le mani al cuore, alzò i begli occhi al cielo per ringraziarlo dell’inaspettato soccorso. Appena la regina ebbe lasciata la prigione, Azem, togliendosi il berretto, che rendevalo invisibile, volò nelle braccia della consorte. - Crudele,» le disse, «perchè mi abbandonasti? è così che tu dovevi ricompensare tanto affetto e tante cure? — Ah!» rispose la principessa; «non rammentarmi un errore che mi sono mille volte rimproverata, e di cui fui a lungo ed ingiustamente punita! Perdonami, amato sposo,» aggiunse, gettandosegli a’ piedi, «e dimentica i torti ch’io sola debbo sempre rammentarmi.» Azem, intenerito, la rialzò e la strinse al cuore coi fanciulli, e quando i primi trasporti di gioia furono calmati, s’occuparono amendue dei modi di fuggire da quella terra inospite.
«Verso sera, la porte deila prigione si aprirono; Azem, avendo messo il berretto, sedè in un canto, e tornò invisibile. Apparve tosto la carceriera, portando alla principessa le solite provvigioni, e siccome aveva l’abitudine di dormire nella stessa carcere, mangiò con lei, e finì coll’addormentarsi profondamente. Azem, approfittando della favorevole occasione, si avvicinò alla feroce carceriera, e spiccato il mazzo di chiavi che portava alla cintola, aprì con precauzione la porta della torre, ed affrettossi di trascinare la consorte ed i figli fuor da quella funesta dimora, ove rinchiuse la schiava; se ne allontanarono quindi rapidamente, e sebbene carichi dei bambini, camminarono con tanta celerità per tutta la notte che, quando spuntò il sole, erano già assai lungi dalla città.
«La regina, udita la fuga delle sorelle, montò in una collera difficile a descriversi; chiamò tutti i geni di sua conoscenza, che accorsero ai di lei ordini, e seguita da innumerevole esercito, inseguì i fuggiaschi, risoluta di ucciderli. Azem, il quale continuava a fuggire, maravigliò, guardandosi indietro, di scorgere un denso nembo di polve, e fu atterrito riconoscendo la numerosa oste della regina: udiva già le grida guerriere, distingueva gli stendardi ed il luccicare delle lance nemiche, e non poteva nè allontanarsi abbastanza celeremente, nè pensare alla difesa. A che cosa gli avrebbe servito il proprio coraggio contro sì possente esercito? Preso adunque il tamburo, lo battè con tal vigore, che nel medesimo punto legioni di geni riempirono la pianura, ed offrendo in un batter d’occhio battaglioni schierati in bell’ordine, marciarono fieramente incontro alla schiere della regina. Allora cominciò un combattimento spaventevole non mai fin allora veduto, non essendo uomini, ma tutti i geni della terra che combattevano l’un contro l’altro. Le truppe d’Azem furono alfine vittoriose, e la regina rimase prigioniera con tutto il suo seguito.
«La moglie del giovane, vedendo la sorella in una situazione sì umiliante, affrettossi a confortarla, e gettatasi ai piedi dello sposo, gli chiese grazia per la regina. Azem, smettendo ogni desio di vendetta, la trattò col dovuto rispetto, e le promise di obbliare i suoi torti, se acconsentiva a rendere il primiero affetto alla sorella.
«La regina, commossa di sì generoso procedere, sentì rimordersi la coscienza, e correndo a gettarsi fra le braccia della germana, la pregò di dimenticare la sua ingiusta crudeltà. Da quel momento, la pace venne conchiusa: feste e pubbliche allegrie furono ordinate nei due campi, e durarono molti giorni. La regina di Waak al Waak disse infine addio alla sorella ed al cognato, e dopo i più teneri amplessi, geni vinti e vincitori si ritirarono, perfettamente soddisfatti.
«Azem e la di lui famiglia si diressero verso la casa di Abd al Sullyb, ove giunsero in pochissimi giorni col soccorso dei geni e del pallone. Il vecchio li accolse con bontà, e trattolli per molti giorni con magnificena. Il racconto dei viaggi del giovane lo divertì moltissimo, ed ebbe in ispecie sommo piacere udendo la storia del berretto, del pallone e del tamburo. Azem, presumendo che, per l’avvenire, non avrebbe più bisogno di quei tre oggetti, pregò Abd al Sullyb di accettare il berretto come un pegno della sua riconoscenza. Il vecchio lo ricevette con piacere, e gli fece anch’egli ricchi donativi.
«I due sposi continuarono il loro viaggio, non fermandosi che alla dimora di Abd al Kuddos, il quale fece loro la medesima accoglienza del fratello; anche questi si divertì del racconto fattogli da Azem delle sue straordinarie avventure, ed accettò con gioia il tamburo magico, promettendogli di tenerlo sempre a sua disposizione, se mai ne avesse avuto bisogno.
«Quando il fortunato Azem si avvicinò al palazzo delle due sorelle, egli le vide venirgli incontro: la loro tenera inquietudine non avevanle lasciato un momento di riposo, sin dalla sua partenza per le isole di Waak al Waak. Grandi furono i loro trasporti di gioia vedendolo, ed esse condussero in trionfo i due sposi al palazzo; magnifiche feste ve li aspettavano. Azem ebbe molta pena ad abbandonare le amabili protettrici e l’incantevole luogo che abitavano.
«Bisognò alfine separarsi, il magico pallone fu offerto alle sorelle, che promisero di servirsene per recarsi a visitare qualche volta Azem e la sua famiglia, e l’ultimo addio venne profferito.
«Azem, sua moglie ed i suoi figli viaggiarono, senza fermarsi, fino a Balsora, e nulla potrebbe descrivere la gioia della madre del giovane, al rivedere un figliuolo ch’essa credeva perduto per sempre, e che piangeva da tanto tempo. L’effetto di quella letizia fu tale che, divenuta cieca pel continuo piangere, ricuperò la vista, che tutti gli sforzi dell’arte non avevano potuto renderle. Questo fausto avvenimento fu risguardato come un miracolo, e la fama ne pervenne sino alle orecchie del califfo Aaron Alraschild, il quale, curioso di conoscere persone sì straordinarie come Azem e la principessa di Waak al Waak, li mandò a complimentare, come già aveva fatto tutta la città. Il califfo fece, nel medesimo tempo, pregare Azem di presentarsegli, e condurre sua moglie dalla principessa Zobeide, che bramava ardentemente di vederla: Azem obbedì. Appena fu davanti al Commendatore dei credenti, inchinossi profondamente, ed il principe avendo ingiunto che si facesse venire uno de’ suoi segretari, egli cominciò la sua storia, e quel racconto divertì tanto il califfo, che varie volte interruppe il narratore per ordinare allo scrivano di nulla ammettere, ne alterare alcuno dei dettagli di quelle sorprendenti avventure.»
La notte era al suo termine, quando Scheherazade finì la storia di Azem; essa affrettossi d’annunciarne un’altra al consorte, il quale aderì assai volontieri.
NOTTE DLXX
Scheherazade s’accinse di tal guisa al racconto della novella promessa al sultano: