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vate il loro potere come vi parrà meglio, e Dio vi protegga nella vostra impresa!» Azem si mise allora il berretto in testa, attaccò il tamburo alla cintola, poi, collocandosi in un navicello che pendeva dal pallone, nominò il luogo dove voleva recarsi, e la docile macchina, innalzandosi ratto, percorse lo spazio colla velocità d’impetuoso vento. I tre fratelli, vedendo Azem e la loro eredità allontanarsi con tanta prestezza, gli corsero diedro, gridando: — Ora avete la prova di ciò che desiderate: non siete contento? Basta, fermatevi, fermatevi....» Ma gridavano invano: Azem era già a dieci giorni di distanza.
«Il suo equipaggio si fermò davanti la porta di un ampio edificio. Azem scese dalla navicella, e preso il tamburo, pose i diti sui magici caratteri. Esitava a battere, quando udì una voce profferire queste parole: — Tu hai vinto, Azem, e superasti parte degli ostacoli che ti si offrivano; però, non puoi arrivare al tutto alla meta de’ tuoi desiderii se non dopo gravi stenti e pericoli; nascondi con cura il pallone che possiedi, perchè ora tu sei sulla terra dei geni malefici.» Azem, docile a tal consiglio, prese il pallone e lo celò sotto le vesti; poscia, guardandosi intorno con inquietudine: — Chi sei tu?» gridò egli. — Io sono,» rispose la voce, «uno dei geni devoti alla virtù del tamburo, e veglio di continuo alla tua sicurezza; gli altri geni miei fratelli non compariranno se non quando ne sarà d’uopo; continua il tuo viaggio, perchè sei ancora a tre anni di distanza dall’isole di Waak al Waak.»