Le Mille ed una Notti/Storia del Sultano dello Yemen e de' suoi tre Figliuoli

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Storia del Sultano dello Yemen e de' suoi tre Figliuoli
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Il Sultano dell’Yemen.               Disp. XXVI.

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STORIA

DEL SULTANO DELLO YEMEN

E DE’ SUOI TRE FIGLIUOLI


Nel bel paese dell’Yemen viveva una volta un sovrano che sotto alla sua potenza riuniva molti tributari. La natura aveagli concessi quattro figliuoli, tre maschi ed una femmina: possedeva immensi tesori, quantità innumerevole di cavalli, di bestie da soma, e superbe gregge di pecore e montoni di candida lana. Amato da’ sudditi, dai vicini rispettato, fruiva in pace d’un regno lungo e felice.

«Intanto le infermità, quelle tristi messaggere, vennero a, avvertirlo che bisognava pensare al riposo, rinunziando agli affari. Fatti allora chiamare i [p. 96 modifica] figliuoli: — Figli miei,» disse loro, «sto per dipartirmi in breve da questo mondo, e prima dell’ora mia fatale, voglio dividere fra voi i beni che qui lascio, affine di portar meco, la dolce speranza, che viviate uniti come conviensi a buoni fratelli: tal è l’ultima mia volontà. — Sarete obbedito,» risposero i figli, chinandosi rispettosamente. — Lascio al primogenito,» riprese allora il sultano, «il trono e la corona; i tesori apparterranno al secondo; cedo al terzo i numerosi bestiami: rispettate questa divisione, di cui la paterna mia sollecitudine vi garantisce l’equità, e prestatevi sempre una reciproca assistenza. Fatte appena queste disposizioni, il buon vecchio si addormentò in grembo all’Eterno.

«I figli del defunto resero al padre gli ultimi uffizi secondo il suo grado. Lavatone il corpo ed accomodatolo, fecero le preci d’uso, e dopo la sepoltura, tornati al palazzo, vi trovarono i visiri, gli uffiziali dello stato e gli abitanti della capitale, che venivano con essi a piangere la perdita del monarca. Tosto l’infausta nuova corse nelle province, ed ogni città mandò deputazioni incaricate di volgere ai principi complimenti di condoglianza.

«Finite le cerimonie, il primogenito chiese di essere proclamato sultano, secondo la volontà del padre; ma avvedendosi che l’ambizione de’ fratelli volea contrastargli la corona, per evitare la guerra civile propose a quelli di rimettersi alla decisione d’uno dei tributari, coll’espressa condizione che quello dei tre al quale sarebbe toccato il trono, regnasse pacificamente. Accettato il patto, i fratelli si diressero, senza seguito veruno, verso la capitale dell’arbitro prescelto.

«Giunti a metà strada, i principi trovarono un luogo ameno, verdeggiante, copiose d’erbe e di fiori, ed irrigato da un ruscello d’acqua limpida; la [p. 97 modifica] bellezza del sito l’indusse a fermarvisi per farvi colazione. D’improvviso, uno de’ fratelli, volgendo gli occhi all’intorno, sclamò: — Per di qui è passato poco fa un camello; portava dolci da una parte, grano dall’altra. — È vero,» rispose il secondo, «ed era guercio. — Certo,» soggiunse il terzo, «ed inoltre non aveva coda.» Finivano appena tali osservazioni, quand’ecco accorrere il padrone dell’animale, che li accusa di averglielo rubato. — Noi non abbiamo veduto, nè toccato il vostro camello,» risposero i principi. — Per Dio,» replicò quegli, «niuno fuor di voi può averlo preso, e se non volete restituirmelo, corro ad appellarmi al sultano. — Ebbene,» soggiunsero i fratelli, «andiamo pure. —

«Giunti al palazzo, i tre fratelli furono subito annunziati ed ammessi all’udienza del principe; il padrone del camello, presentatosi con loro, sclamò entrando: — Sire, questi uomini, per propria confessione, hanno veduto il mio camello, avendo fatta la descrizione più esatta e fedele dell’animale e del carico che portava.» Ed in appoggio del suo riclamo, riferì al sultano i discorsi de’ tre fratelli; — Dice egli la verità?» chiese il Commendatore de’ fedeli. — Sire,» risposero i principi, «noi non abbiamo veduto il camello; ma mentre riposavamo sull’erba, abbiamo per caso notato che parte soltanto del pascolo era stato pasciuto, d’onde concludemmo ch’egli doveva esser guercio, se l’erba non era stata mangiata se non da un sol lato. Osservammo poscia che lo sterco trovavasi raccolto in un sol mucchio, e da ciò pensammo che doveva aver tagliata la coda, avendo questi animali l’abitudine, scuotendola, di sparpagliare gli escrementi. Infine, nel luogo dove erasi coricato, scorgemmo gran numero di mosche, ma soltanto da una banda, e ne traemmo la [p. 98 modifica] conseguenza che uno dei suoi panieri dovesse contener dolci, e grano soltanto nell’altro.» Sorpreso il sultano del loro spirito, disse al reclamante: — Amico, vattene a cercare il tuo camello deve potrai, poichè le osservazioni degli accusati non provano che abbiano commesso il furto, ma dimostrano un sano criterio ed una penetrazione poco comune1. —

«Dopo tal decisione, la quale non soddisfece niente affatto il padrone del camello; il sultano ordinò di preparare pei principi sfarzosi appartamenti, e trattarli coi riguardi dovuti al loro grado.

«Alla sera, servita la cena, avendo il maggiore preso un pane, osservò che quello doveva essere stato fatto da qualche persona ammalata; il secondo, gustata carne di capretto, sclamò: — Questo capretto fu allattato da una cagna. — Certo,» uscì a dire il terzo, «il principe che ne riceve non discende da stirpe reale.» A codest’ultime parole, il sultano, il quale li stava ascoltando da una stanza vicina, entrò precipitosamente, e chiese ai tre fratelli i motivi che inducevanli a tenere simili discorsi. — Informatevi su tutto ciò che avete inteso,» risposero i principi, «e vedrete che non abbiamo detto nulla che non sia vero. —

«Ritiratosi il sultano nel suo harem, seppe che la donna, la quale aveva impastato il pane, era infatti ammalata. Mandò poi a cercar il pastore, il quale gli confessò che essendo morta la madre del capretto, lo aveva fatto allattare da una cagna. Sorpreso ed inquieto a sua volta delle parole dette dai principi [p. 99 modifica] sul proprio conto, recossi agli appartamenti della madre, e brandendo la scimitarra, la minacciò di morte, se sul momento non gli dichiarava da chi egli avesse ricevuta la vita.

«La sultana, atterrita, gli confessò ch’era figlio di un cuoco. — Il sultano non aveva maschi,» gli disse, «e tale privazione l’addolorava assai. La moglie del cuoco ed io ci sgravammo nello stesso giorno, io d’una femmina, ella d’un maschio. Temendo la freddezza del padre per la mia bambina, gli presentai come suo il figlio del cuoco, e questo sei tu. —

«Il misero sultano non seppe, ad onta del suo cordoglio, trattenersi dall’ammirare la penetrazione de’ tre fratelli; laonde, fattili chiamare, volle sapere su che cosa avessero fondato congetture ch’eransi trovate sì giuste. — Sire,» rispose il maggiore, «quando spezzai il pane, ne vidi cadere alcuni grumi di farina, d’onde argomentai che chi l’avea fatto, non avesse avuta forza bastante onde ben impastarlo, e per conseguenza dovesse essere ammalato. — Il grasso del capretto,» disse il secondo, «trovavasi appo all’osso, ed ogni altro animale, tranne il cane, ha il grasso vicino alla pelle. — Ottimamente,» riprese il sultano; «ma veniamo a ciò che mi risguarda. — La nostra ragione per sospettarti di lignaggio volgare,» disse il più giovane de’ fratelli, «è che non ci ammettesti in tua compagnia, benchè il nostro grado sia eguale al tuo. Ogni uomo ha certe qualità che a lui trasmettono il padre, l’avo o la madre. Per esempio, tiene dal primo la generosità o l’avarizia; gli lascia l’altro in retaggio il valore o la viltade; la madre gli compartè la timidità o l’arroganza. — Quanta sapienza!» sclamò il sultano. «Ma che bisogno avete dunque di prendermi ad arbitro delle vostre discrepanze, voi che sì ben v’intendete a decidere le quistioni più astruse? Tornate [p. 100 modifica] a casa, e l’unione più intima presieda a tutte le vostre azioni.» Seguirono i principi il consiglio, e si sottomisero intieramente alla volontà del defunto loro padre.»

«Il sultano Schahriar aveva ascoltato questa storia con molta attenzione. — Sire,» gli disse Scheherazade, «ne so un’altra il cui principio ha qualche somiglianza con questa, ma che differisce nei particolari, e contiene una serie di avventure che potranno interessare vostra maestà.» Acconsentì il principe ad udirla, e la notte seguente Scheherazade cominciò in tali sensi il suo racconto:


Note

  1. Non era questa novella probabilmente ignota a Voltaire quando compose il suo Zadig. Egli è infatti nella medesima guisa che vengono da Zadig conosciuti il cavallo del re e la cagna della regina di Babilonia, e ch’ei li giustifica davanti al grande Desterham dell’accusa contro di lui intentata di averli rubati.