Le Mille ed una Notti/Il Paradiso di Schedad
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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NOTTE DLXII
IL PARADISO DI SCHEDAD.
— Sire, molto tempo prima che il profeta dei veri credenti rischiarasse il mondo, e che il santo Corano discendesse dal settimo cielo, Schedad regnava nello Yemen1 con assoluto potere, di cui usava senza moderazione: era un tiranno voluttuoso e crudele, empio, stravagante; insomma un mostro più che un uomo, il quale aveva l’ambizione di voler essere un Dio! Se avesse voluto esserlo soltanto nella sua corte, si dice che i cortigiani d’allora l’avrebbero adorato senza scrupolo, egli, la sua scimia ed il suo pappagallo; ma Schedad pretendeva che tutti i sudditi riconoscessero la sua pretesa divinità, e vi credessero di buona fede e sul serio.
«Per riescire in tal progetto, immaginò un mezzo che gli parve infallibile; fece costruire nella più bella regicne dello Yemen un muro circolare d’altezza ed estensione prodigiosa. Questo muro era circondato di dentro da siepi di pini che servivano di cinta al giardino più vasto e magnifico che si possa immaginare; erano prati smaltati di tutti i fiori primaverili, ed orti feraci che promettevano tutte le ricchezze autunnali; ruscelli che travolvevano le tacite acque su d’aurea sabbia, o che, scorrendo impentuosi sur un letto di perle, mescevano il loro mormorio al gorgheggio degli angelletti; qui si poteva specchiarsi in un laghetto ove scherzavano pesci d’ogni sorta e d’ogni colore; là si discendeva in deliziosa valle, la cui frescura era conservata da una cascata che precipitavasi dall’alto d’una roccia; più lungi si passeggiava tra boschetti profumati e sempre verdi, dove il nardo, il giacinto e l’aloè crescevano appiè delle palme e dei cedri; dovunque mostravasi la bellezza della natura, ed appena vi si scorgeva l’arte timida che avevala adorna.
«Nel centro di questa magica solitudine una montagna rotonda s’innalzava a dolce pendio, e facendosi piana d’improvviso, formava sulla vetta una vasta spianata. Fu colà che Schedad fece costruire un superbo palazzo, ammobigliandolo con pari sontuosità ed eleganza; vi si trovava la pompa del lusso congiunta alle ricerche della mollezza ed all’infinito numero degli agi della vita, e tutti gli artisti dei piaceri, cuochi, musici, ballerini, buffoni, e perfino cantanti e poeti. Schedad faceva poco caso di questi ultimi, ma ciò che più apprezzava era un’eletta e numerosa schiera di fanciulle, di cui aveva popolato il palazzo ed i giardini, tutte belle come le celesti Huri, forse men pure, ma molto più vivaci e spiritose.
«Quando tutto fu pronto per l’esecuzione del suo disegno, Schedad affrettossi a pubblicare questo strano editto, facendolo affiggere alla porta di tutti i templi:
««Schedad, Dio dello Yemen, ai nostri fedeli adoratori
salute e beatitudine.
««Essendoci proposti di superare in liberalità tutti gli altri Dei, i quali non promettono la felicità se non dopo la morte, vi facciamo noto che abbiamo creato, nella pianura d’Iram, un paradiso in cui godrete di tutte le delizie della vita presente. Noi vi ammetteremo a suo tempo quelli che, trascurando ogni superflua virtù, avranno creduto sinceramente in noi, e si saranno docilmente sottoposti alla nostra divina volontà. Vi ammettiamo, fin d’ora, e senza prove ulteriori, i nostri fortunati servi, i cui nomi sono compresi nella qui annessa lista. O popoli dell’Yemen! animatevi a seguire l’esempio ch’essi vi lasciano, e meritatevi la corona che hanno ottenuta.»»
«Questi fortunati servitori di Schedad, se si vuol saperlo, erano i più impudenti fra i suoi adulatori, i ministri delle sue violenze e lascivie, le spregevoli donne che avevano ceduto ai suoi desiderii, o quelle che, più artificiose, promettevano soltanto di cedervi; codeste, anzi, erano meglio trattate nelle promozioni. Del resto, appena questa lista fu pubblicata, Schedad mantenne la parola ai nuovi santi, e li condusse solennemente al palazzo dell’Iram, dove li lasciò, invitandoli a godere in pace della felicità per loro preparata, e che le sue frequenti visite avrebbero resa ancor più perfetta. Egli stesso chiuse, uscendo, la porta del sacro recinto, dando ordine ai soldati che la custodivano all’esterno, d’immolare appiè del muro ogni profano che tentasse avvicinarvisi.
«Intanto, i beati si abbandonavano senza ritegno alle delizie in cui avevali immersi la sola vista di quel luogo ameno. Per la prima volta nella loro vita, essi ammirarono ed amarono quasi il tiranno; e credettero perfino, com’egli vi si era aspettato, che l’autore di tante delizie non potesse essere che un Dio: ma la fede non durò più a lungo della loro beatitudine, che fu cortissima. Piaceri svariati in apparenza, ma sempre eguali, facili, continui, smoderati, divennero in breve insipide occupazioni, odiosi obblighi: a forza di fruirne, non furono più sentiti. S’avvidero, invece, che il dispetto e la noia non rispettavano il paradiso di Schedad, e le infermità ancor meno.
«Ma ciò non fu tutto: i beati eransi conosciuti nel mondo, ma non amati; vedendosi ora più da vicino, si conobbero meglio e si odiarono. Da quel punto, non fu più possibile società, nè conversazione; rinchiusi ne’ singoli appartamenti, o disposti sulle terrazze del palagio, mirano tristemente i sottoposti deliziosi giardini che li circondano, più non iscorgendovi che l’angusto passeggio della loro prigione. La vista loro riposa più volontieri sul mar Rosso e sur una catena di scoscesi monti che scorgesi da lungi. Cosa non darebbero per errare in libertà su quei spaventosi dirupi, o vogare su quell’onde, infaustamente celebri per tanti naufragi!
I beati erano in questo stato, quando il Dio dello Yemen li onorò della sua prima visita; egli veniva ad aggiungere il bene supremo della sua presenza ai piaceri di cui li credeva inebbriati. Si giudichi della sua sorpresa ed indignazione quando vide la tristezza dipinta su tutti i volti, e che, invece di inni e cantici, non udì che pianti e querele! Pure dissimulò, e attenendosi alla meglio, mescè carezze ai rimproveri, ed a furia di sgridare i suoi santi e blandirli, fece loro promettere di cercar d’avvezzarsi al suo paradiso, e prendere in pazienza la loro felicità. Ma questa promessa estorta lo rassicurò debolmente, e contò ben più sull’ordine, che diede alle guardie del muro esterno, di uccidere senza pietà non più i profani, ma i santi stessi che tentassero scavalcarlo per fuggire dal paradiso.
«Malgrado tutte queste precauzioni, Schedad rientrò nella capitale con un’inquietudine vivissima e ben fondata; non si lusingò, e conobbe che il suo paradiso e la sua pretesa divinità stavano per cadere in un discredito dal quale più non sarebbersi rialzati. Per ovviare al colpo fatale, ricorse al solo espediente che gli restava; con un secondo editto, annunziò che, vista l’ingratitudine del suo popolo e la poca di lui premura a meritare il suo paradiso, stava per creare un inferno, di cui gl’increduli e gli empi non avrebbero riso.
«Siccome è più facile tormentare gli uomini che renderli felici, il nuovo progetto sarebbe riuscito forse meglio dell’altro; ma non si lasciò a Schedad il tempo di eseguirlo. Questa crudele stravaganza allarmò il popolo ed i grandi, e mise il colmo alla loro pazienza. Il tiranno fu detronizzato, e si pensò a lungo sul supplizio, che bisognava fargli subire; finalmente, non si trovò di meglio che rinchiuderlo nel giardino d’Iram, coi vili cortigiani onde l’aveva popolato, e di murare le porte di quel paradiso infernale. Lacerato dai rimorsi, e colmo d’oltraggi, il dio dello Yemen dovette convincersi esservi un Dio supremo, che confonde i progetti dell’empio, e non riserva la felicità che per la virtù.»
Dopo questo breve racconto, il giorno non permettendo a Scheherazade di cominciarne un altro, essa annunciò per la notte vegnente una novella che doveva nello stesso tempo interessare e divertire assai il consorte.
NOTTE DLXIII
La sultana cominciò la storia premessa nel modo seguente:
Note
- ↑ L’Arabia Felice.