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«Azem non potè dormire pel resto della notte. All’aurora scese dall’albero, e fu allora soltanto che potè giudicare della lunghezza del serpente ucciso. Il mostro viveva ancora, ma i suoi occhi erano chiusi, e gli fu agevole finirlo. Ritrasse la daga dalla testa del serpente, e considerandone la smisurata grandezza, gli venne in pensiero di scorticarlo, e colla pelle formarne funi da sostituire a quelle di cui il mago l’aveva privato, per discendere alle falde della montagna. Si accinse subito al lavoro, e dopo varie prove pervenne alfine, con immensa fatica, appiè del monte, sulla cui vetta credeva di trovar la tomba. Prosternossi col viso a terra onde ringraziare la Provvidenza di questo beneficio e supplicò l’intercessione del Profeta pei pericoli che poteva incorrere; abbandonò quindi quegl’inospiti luoghi, e camminò fino a sera, cibandosi delle frutta che gli offrivano gli alberi delle foreste per le quali passava; in breve riconobbe la strada d’onde era venuto, e la seguì fino al nono giorno.

«Fu allora che vide, all’estremità d’un magnifico viale, il medesimo castello che il Guebro aveva presa tanta cura di evitare. A misura che avvicinavasi, ne esaminava l’imponente architettura; colonne d’oro sostenevano un peristilio di pietra cerulea, ed al disopra degli alberi, fra quali migliaia d’uocelli facevano sentire i loro gorgheggi, scorgeasi torreggiare il tetto d’un immenso e magnifico palagio. Azem esitò un istante se dovesse andar a chiedervi, ospitalità. Bharam avevagli detto ch’era abitato da geni malefici, ma pensando che nulla potevagli accadere di peggio del pericolo già superato, si azzardò ad entrarvi, e traversò una superba corte lastricata di prezioso marmo. Giunto in una sala di stupenda ricchezza, vide due giovani dame che giuocavano agli scacchi. — Ah! sorella,» sclamò una di esse, «ecco