La giustizia/IV
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IV.
Davanti al piccolo convento di Silvestra Arca si stendeva un cortiletto cinto da altissimi muri, al di sopra dei quali si scorgeva solo un quadrato di cielo. Occhio umano non penetrava laggiù: durante l’estate solo le rondini riposavano i voli spensierati tra il verde luccichìo dei frammenti di vetro tempestati sulla cresta del muro; e i piccoli occhi rotondi guardavano curiosamente in fondo, le testoline piumate si dondolavano irrequiete; le sottili code s’aprivano a ventaglio, i grigi petti fremevano con metallici splendori; ma le rondini non cantavano, e volavano via con stridi acuti e vibranti che parevano di disapprovazione, proiettando le loro rapide ombre sul selciato del cortile.
Solo i corvi, il cui triangolo nero navigava lentamente nell’aria alta e fumigante, nelle tristi giornate autunnali, guardavano in fondo al piccolo cortile, mentre il loro crà crà prolungato e stridente si fondeva con la grigia e melanconica pace dei silenziosi vapori di novembre.
Nella voce dei corvi era tutta la tristezza di lontane pianure solitarie, e Silvestra, ascoltandola, si credeva rinchiusa in un chiostro perduto nelle vaste e desolate solitudini dell’altipiano sovrastante al paese.
Due volte al giorno la giovane e strana monaca ritirava dalla ruota, comunicante con uno stanzino attiguo al salotto da pranzo degli Arca, la colazione, il desinare, il caffè, la biancheria, e infine tutto ciò che abbisognava. Nessun’altra comunicazione ella aveva con la famiglia; solo in caso estremo di malattia avrebbe suonato un campanello che dava sullo stanzino, e i suoi sarebbero entrati per una porticina rossa praticata a fianco della ruota, che si doveva aprire solo in tali urgenti casi e per lasciar passare il vecchio zio prete, confessore di Silvestra.
Per ottenere da Roma il privilegio di questa strana monacazione, assai comune del resto in certi paesi sardi, gli Arca avevano faticato e speso assai, mettendo in moto molte persone influenti nelle alte sfere religiose.
Silvestra aveva i capelli rasi e indossava un costume monacale, non privo però d’una certa eleganza; e passava le giornate pregando e lavorando per i poveri.
Alle finestre delle quattro scialbe cellette di quel chiostro in miniatura non mancavano le inferriate verso il melanconico cortiletto. Silvestra viveva per lo più al pian terreno, fra la cameretta ove dormiva e lavorava, — arredata di un semplice lettuccio, d’un tavolino, di due sedie e un paniere d’asfodelo; col camino di pietra e il pavimento di mattoni rossi, su cui per qualche ora del mattino l’inferriata gettava gli scacchi del sole, — e la attigua stanzetta accomodata ad uso di cappella.
La vôlta e le pareti di questo strano oratorio erano tinte di granato cupo, vellutato, con ramificazioni di sottilissime palme d’oro che, assumendo l’illusione d’antica e preziosa tappezzeria, davano all’ambiente una fisionomia calma e severa, di salotto e di chiesa.
Occupava tutta la parete di fondo un altarino di marmo sormontato da una nicchia, entro cui si ergeva, immobile e lilialmente diafana, una Madonnina d’alabastro, artistico lavoro del secolo XVII, memoria di famiglia, dalla quale don Piane si era separato piangendo. E sull’elegante vôlta della nicchia sorretta da due colonnine toscane di marmo grigio, la cui oleosa opacità faceva meglio risaltare la trasparenza alabastrina della statuetta, posava un piccolo sarcofago di marmo bianco che pareva un’urna di gesso, e che sosteneva un fiammeggiante cuore di pietra rossa. Giacchè Silvestra si era dedicata al Sacro Cuor di Maria.
Adornavano l’altare due candelabri d’argento con mazzi di pallide rose carnicine; tristi rose di seta diafana, aperte, languide, dai petali rivoltati, che parevano pronti a cadere; e vi era anche una lampada d’argento e di cristallo granato, entro cui la fiammella sempre accesa sembrava un tremolante rubino. Sotto la grave luce dell’alta finestruola semicircolare, dai vetri smerigliati, l’inginocchiatoio di noce, lucido e duro, in una continua immobilità di preghiera e di sogno, sembrava una persona eternamente inginocchiata e resa rigida da profonde suggestioni ascetiche.
In quel chiarore di fuoco mistico che s’accendeva porpureo col sole, e al cader della sera moriva in una prolungata agonia d’ombre silenziose, le ramificazioni delle pareti scintillavano tenuemente, quasi un riflesso di luna smuovesse davvero le palme d’oro; e riposavano le vanescenti figure di antichi quadri ad olio, appesi un po’ bassi con cordoni di seta granata.
Queste tele, dalle cornici nere e rozze, erano pur esse vecchie memorie di famiglia: due erano dipinti chiaro-scuri, appannati da una patina grigiastra e alquanto screpolati; una si diceva copia del Guercino, e rappresentava un Cristo incoronato di spine, al cui volto giovanile, solcato da grosse lagrime sanguigne, la corta e riccioluta barba rossastra dava una grazia nordica assai delicata. Un altro quadro, meglio tenuto, chiaro ancora e luminoso, squisitissima opera d’arte di gran valore, da cui Stefano a sua volta si era separato con grande rimpianto, per tradizione famigliare lo si assicurava un Carpaccio autentico, e, certo, se non al Maestro, apparteneva alla sua scuola; era forse una vaga imitazione del famoso Sogno di Sant’Orsola.
La tela degli Arca, larga un metro e venti ed alta quasi due metri, non aveva titolo e solo una data: Venetia, 1503, e due iniziali: V. C.; ma probabilmente era un’Annunziazione.
Vi s’osservava un dappiedi da letto a baldacchino, lumeggiato da una bifora, sul cui davanzale si ergeva un vasetto di metallo contenente una lunga e rigida pianticella fiorita di rose. Prostrata su un inginocchiatoio gotico, a sinistra, pregava e aspettava, presa da estasi e da arcano timore, una giovinetta il cui peplo oscuro lasciava intravedere forme modellate, snelle ed esili, sì, ma non rigide e diafane come nelle vergini preraffaellite degli altri due antichi quadri.
Una viva luminosità di sole, fulgida e dorata, invadeva tutto il piano sinistro della tela, lumeggiando vivissimamente l’angolo del soffitto di legno, piovendo sui piccoli mobili, che quasi svanivano sullo sfondo della camera e nella irradiazione della luce. Donde veniva lo splendore? Da una finestra invisibile o dall’Angelo che s’avvicinava?
Silvestra restava ore ed ore inginocchiata davanti a questo quadro, e fra lei e la figura dipinta esisteva una vaga rassomiglianza, specialmente nel bianco scorcio del volto e nella tinta castana dei capelli che le crescevano di nuovo a ciocche folte e morbide dalle finissime punte dorate.
Ma nessuna luce, tranne quella del passato, ardente e melanconica come il rosso chiarore del piccolo oratorio, irradiava il viso smorto e i freddi, limpidi occhi verdognoli della giovane monaca di casa. Ella non aspettava nulla, e non aveva estasi, non ardori divini; solo talvolta, per semplice autosuggestione, s’infervorava nella preghiera, e per qualche istante le sembrava di esser sommersa in un’onda di viva luce, vicina a Dio ed alla Grazia; ma più che estasi era questa una sensazione di benessere fisico, nella cui momentanea dolcezza la mente obliava il passato e il cuore perdonava e si sentiva egoisticamente tranquillo per l’avvenire. Infatti provava questi momenti spirituali, non nell’oratorio, davanti alla Vergine del Carpaccio e sotto la porpurea luce del Sacro Cuore, ma quando stava a letto o lavorava quietamente al sole del cortile, nella luce azzurra de’ bei giorni sereni.
Nel mangiare, nel dormire, nel vestire, e infine in tutta la sua esistenza materiale, ella non s’imponeva nè sacrifizio nè penitenza convinta che per guadagnarsi il cielo bastasse la volontaria solitudine, la continua preghiera ed il lavoro per i poveri.
Durante l’inverno l’indifferenza e il suo distacco dal mondo parvero aumentare; anche la luce melanconica dei ricordi svaniva nel biancore fosco e continuo dell’aria gelata.
Nel cortiletto s’ammucchiava la neve cristallizzata dal gelo; in alto incombeva un quadrato di cielo basso e bianco, e a quel freddo riflesso nivale anche l’aria e la luce dell’oratorio impallidivano freddamente.
L’anima di Silvestra gelò e parve cristallizzarsi come la neve; eppure nella cella, ove il caminetto restava acceso notte e giorno, spirava un tepore intimo e grato; nessun rumore giungeva, e solo le voci sonore dei venti raccontavano nella notte strane storie, e avevano gridi lontani e richiami misteriosi.
Diceva il vento:
«Silvestra, Silvestra, è possibile mai che tu dimentichi, che l’anima tua dorma, che dorma il tuo pensiero, che dorma il tuo cuore e dormano i tuoi occhi?
«L’altipiano è tutto coperto di neve: spuntano appena gli olivastri, i cespugli, le siepi dei muri; e il cielo è grigio e bianco e su questo smorto sfondo dilagano nuvole e vapori fumosi che vanno, che vanno, che vanno, come vado io. Sai tu chi sono io? Non ti ricordi di me? Io mi ricordo di te attraversando la bianca desolazione dell’alta pianura; e al vento che mi schiaffeggia violentemente e mi toglie il respiro e rende violette le labbra che t’hanno baciato, al vento gitto la mia voce. E nel vento è la mia voce che ti parla. È dunque possibile che tu mi dimentichi nella serenità del tuo piccolo chiostro, se io ti ricordo fra i pericoli e le minaccie del tempo, degli uomini e della natura?
«Silvestra, Silvestra Arca, è mai possibile che tu dorma, che tu riposi? Che mistero è nell’anima tua, se non ti scuote la mia voce incarnata nella violenta sonorità dei venti? È il mistero felino della tua razza? È la superbia di tuo fratello, è la sciocca crudeltà di tuo padre che mi perseguitano perchè osai amarti?»
E così dicendo gemeva larghi singulti sonori il vento marino, che veniva dalla costa portando seco tutto il gelo delle nevi azzurrognole di Monte Bardia e di Monte Pizzinnu; e il vento di tramontana, che gettava sull’altipiano nevoso la livida desolazione di Monte Albo, piangeva con sibili acuti che svanivano lentamente nella notte; e tutte le voci, i gridi, i gemiti e le sonore melodie selvaggie dei venti raccontavano ognuna qualche cosa, implorando, ricordando e insistendo.
Silvestra ascoltava e sentiva, sì, ma nel tepore del piccolo letto bianco, nel benessere del dormiveglia la sua anima non rispondeva alle rumorose voci della notte: solo, e raramente, pregava per la pace dello spirito errante il cui grido veniva col soffio dei venti marini e col sibilo dei venti del nord.
Nel caminetto di pietra ardeva una sottile lingua violetta orlata di alluminio, e le brage si velavano di pallidi merletti cenerini; la lampada granata dell’oratorio oscillava silenziosamente, e la luminosità irradiante la Vergine del Carpaccio si colorava di sprazzi scarlatti, quasi al riflesso d’un freddo ma rosso tramonto autunnale.
In alto, nel cinereo pallore della nicchia, la Madonnina svaporava assumendo una trasparenza incorporea; più in alto, sul sarcofago di neve opaca, il cuore non aveva più raggi d’amore e di carità, e le fiammelle si restringevano spegnendosi. Il pensiero s’elevava a Dio, ringraziando per l’indifferenza e l’oblio sonnolento che l’inverno stendeva sulle cose e sulle anime; e il cuore dimenticava e taceva.
Ma venne la primavera. Sul cielo ancora freddo, ma alto e nitidissimo, riapparve qualche rapido volo di rondine e il sole scese nel cortiletto, indugiandosi negli angoli umidi, verdognoli di musco, ove era rimasto qualche rimasuglio di neve ghiacciata; sulle creste dei muri luccicarono verdi e lavati i frantumi di vetro; i davanzali di granito resi bruni dall’umido riprendevano la prima tinta chiara; e sulle grigie cime del noce dell’orto attiguo gli estremi rami sottili si squarciarono per lasciar uscire le gemme.
Di mattina, all’aurora, la brezza ancora fredda portava sottili fragranze di mandorli fioriti, di siepi rinverdite lungo i margini del fiume, di sambuchi galleggianti sulle acque, e di grani nascenti; nei tiepidi meriggi giungevano timidi gorgheggi di cingallegre, lontane grida di bimbi in cerca di nidi; nella notte i venti non parlavano più, ma nell’indicibile silenzio dei cieli cristallini le stelle doppie oscillavano con rapidi splendori d’acqua marina e viola iridata, di giallo-oro e di perla turchina; la luna calava in nitide spiagge d’argento fuso, e le cose dormienti, ma rinate alla vita, parlavano in sogno e la loro voce silenziosa si imponeva più dei sonori gridi del vento.
Silvestra non dormiva più tanto profondamente; i silenzi delle notti di marzo le narravano cose sottili e arcane, filtrandosi nel sangue come spille di cristallo; l’aurora nitidamente violacea batteva sui vetri, svegliandola, con improvvisi riflessi di nuova luce; e lungo le tiepide giornate, quando i soffusi e lattei ondeggiamenti delle prime nuvole primaverili passando sul cielo come immense gregge attraverso cerulee pianure, proiettavano la dolcezza della stagione rinascente, ella provava un’inquietudine, un non confessato desiderio d’aria e di vita. E indistinte le tornavano alla mente le memorie dei paterni ovili, le brevi residenze primaverili nelle case coloniche delle tancas dagli alti pascoli aromatici, le feste pastorali, le selvagge canzoni antiche dei pastori, che, tosando le pecore legate e stese sui paleggi fioriti, inneggiavano al verde ’eranu1 sardo.
Una sera, ai primi d’aprile, le fu introdotto sul vassoio del caffè un foglietto del calendario, su cui a lapis rosso, era segnato il giorno sette, Pasqua di resurrezione. Capì che doveva prepararsi per il precetto pasquale, e provò un insolito sentimento di piacere al pensiero di rivedere lo zio prete, che, ad ogni modo, avrebbe portato qualche cosa del di fuori, qualche pallido riflesso della vita esterna. Poi, accorgendosi di questa sensazione profana, si rattristò e cercò di rimediarvi colla mistica gioia della vicina Comunione. Entrò subito nell’oratorio, s’inginocchiò per terra, rivolta all’altare, e prima di cominciare l’esame pregò.
Fuori cadeva la sera, e l’aria era leggermente velata; i vetri, un po’ sbiaditi dalle piogge, lasciavano penetrare una rosea e delicata luce, la lampada oscillava sempre, le smorte rose sembravano languire per stanchezza; e al di sopra della diafana Madonnina, il cuore risplendeva nuovamente, ma d’un fuoco ancora pallido, che gettava tutta la rosea luminosità delle sue fiamme trasparenti di sole rinascente sulla Vergine del Carpaccio.
Per tutta la piccola cappella sembrava salisse la delicata luce di una mistica aurora; ma Silvestra era inenarrabilmente triste, e s’incurvava muovendo le belle labbra scarlatte e battendosi ritmicamente sul petto la palma della mano destra. Si sentiva in peccato. Aveva dato ascolto alle voci della natura, che le parlava con gli astri e le notturne fragranze. Aveva desiderato notizie del mondo. Aveva trascurato la preghiera ed il lavoro.
Si era forse pentita dei suoi voti?
— Questo no! — gridò fra sè, sollevando la testa. Ma aveva sentito rancore per coloro che indirettamente l’avevano costretta a pronunziare il voto. E coloro erano i suoi parenti. Aveva rimpianto vagamente la sua vita passata. Aveva segretamente pianto la morte della sua vita. Desiderava dunque il passato?
— No; ma non posso certe volte allontanarne i ricordi. La tentazione è più forte di me, la tentazione mi vince. Aiutatemi voi, o sacro Cuore di Maria, ridonatemi la pace, illuminatemi....
Reclinò la testa e chiuse gli occhi. Quando cessò di pregare e d’esaminarsi era quasi buio; s’alzò e, sentendosi stanca, s’appoggiò un momento all’inginocchiatoio. E nella nuova posizione, fra l’oscurità crescente, provò un gelido e calmo senso di sollievo. L’ultimo roseo raggio del sacro Cuore, trasfondendosi nell’oscillante luce della lampada, le parlò:
— Che credi tu di ritrovare nel triste mondo ove desideri ritornare? Non c’è nulla per te: il tuo amore è morto, la tua casa è triste: ti aspetta il dolore e il barbaro lutto sardo per la vicina morte di tuo padre; t’aspetta l’ ferenza, forse l’odio di tuo fratello, che non desidera rivederti, t’aspetta la derisione del prossimo. La vita è breve, e il mondo che desideri è più indicibilmente triste di come lo lasciasti.
E si trovò nuovamente forte contro la tentazione e la stoltezza dei profani desiderî, e una gran serenità la invase. Fece alcuni passi e, curvatasi dietro l’altare, prese una fiala, del cui limpido olio giallo rifornì la lampada.
Alla luce della fiammella, che tosto si ravvivò, il suo viso spiccava illuminato sul fondo già oscuro della parete. Era un volto infantile, dalle guance brevi e piene, con la bocca rossa sporgente e le sopracciglia e le ciglia lunghe e bionde. La persona piuttosto piccola, ma sottile, dal collo lungo, il busto svelto e i fianchi eleganti, apparve alta nella lunga veste nera e nel rossastro chiaroscuro dell’oratorio.
Rimessa la fiala, Silvestra uscì, inchinandosi prima di chiuder la porta.
Dalla ruota saliva un leggero vapore odoroso di selvaggina, accomodata con aceto e rosmarino.
— Stefano è stato a caccia! — pensò.
Nell’altro piatto era una piccola e sottile torta di pasta e formaggio fresco ingiallito con lo zafferano.
— Hanno già fatto i dolci per Pasqua, — osservò, e il pensiero tornò con insidiosa dolcezza ai ricordi.
Dopo cena andò a chiuder la porticina che dava sul cortile, e sporse la testa al di fuori: l’aria era così tiepida e fragrante, che l’invitò ad uscire. Si sedette sul davanzale esterno della finestra, e appoggiando la testa all’inferriata, volle pregare: ma se le belle labbra scarlatte pronunziavano mistiche parole, il pensiero tornava nella dolce via delle domande insidiose.
Che accadeva al di là degli alti muri, che, sotto la bianca luce degli astri, lievemente velati da chiare nebulosità, apparivano di una incerta tinta pallidi e vanescenti? Erano rifiorite le selvatiche aiuole dell’orto paterno, così vicino e tanto lontano? E la fragranza della notte era forse il profumo dell’acqua della vasca, dei salici rinascenti, delle prime foglie chiare e lucide del noce?
Che accadeva là dietro? Come forse andava in rovina la casa, sotto il pernicioso regime delle serve avide e infedeli? Pensava Stefano ad ammogliarsi? Lasciava don Piane le sue strane idee? Svanivano dal suo cuore, assieme al calore della vita, le passioni, i puntigli, le crudeltà, e inconsapevoli e volute? Si ricordavano della reclusa?
A questa domanda ella abbandonò la testa sull’inferriata e sentì la gola un po’ stretta; la riprese il senso di tristezza profonda da cui la preghiera l’aveva liberata, e chiuse gli occhi per sfuggire anche la bianca e velata luce degli astri, tremolanti dietro i fini vapori notturni.
Il pensiero continuò le domande.
Erano sopiti i rancori e gli odî? Aveva trionfato l’innocenza o la persecuzione e gli spergiuri pagati? Che ne era di lui?
Formulata appena quest’ultima richiesta, le mani di Silvestra cominciarono a tremare, poi il tremito salì fino agli omeri, fino al delicato collo, che si gonfiò lievemente, fino al mento, che si aggruppò, fino alle palpebre, che si sollevarono e si richiusero, facendo palpitare le ciglia.
E fra le ciglia filtrarono ardenti lacrime, che scesero lungo le guance, e diedero alle labbra tutto il gusto acre ed ineffabile d’una voluttà immensamente dolce e indicibilmente dolorosa.
In quel momento di debolezza tutte le sue sensazioni si sollevarono ribelli per abbandonarsi senza freno ai ricordi, ai rimpianti ed anche ai desiderî; il raggio oscillante degli astri le scese sul volto con una pioggia di baci ardenti, tanto più avidi quanto più sino allora obliati; e la fragranza delle erbe, dei fiori e delle foglie olezzanti nella notte le recò la visione d’un luogo indimenticabile, della marcita selvatica, tra il cui fieno era avvenuto l’ultimo doloroso colloquio.
Allora ritornò nitido anche il ricordo di quanto i venti dicevano nelle notti invernali, e il cuore ripetè a se stesso: — No, non è possibile dimenticare!
Ma dopo questo grido, ella balzò in piedi, spaventata di ciò che aveva osato ricordare e desiderare; e continuando a piangere, ma di pentimento e d’orrore contro se stessa, rientrò nell’oratorio, s’inginocchiò, si prostrò sul pavimento freddo, battendosi la fronte e le labbra, piangendo in alto con gemiti acuti e selvaggi, percuotendosi il petto con le mani e poi stringendo i pugni fino a sentir lo strazio delle unghie conficcate nelle palme.
Ella si pentiva, ella chiedeva perdono, aiuto e misericordia; ma sentiva la sua speranza e la sua fede scosse violentemente, e aveva paura di se stessa.
Andò a letto sfinita, con le palpebre ardenti, e vegliò a lungo; l’indomani mattina mise sulla ruota un biglietto per lo zio prete, pregandolo d’anticipare la sua visita spirituale, e passò tutto il giorno in orazioni, esami e lagrime sincere di pentimento.
Fuori, le diafane nuvole della sera prima s’erano addensate; spirava un venticello frizzante, e quel cielo d’un lilla carico e smorto, quel freddo improvviso ridonavano all’oratorio il gelato riflesso invernale.
Silvestra sentiva freddo e si meravigliava della debolezza avuta, della violenta sopraffazione usatale dal demonio.
L’indomani mattina la porticina verniciata di scarlatto s’aprì lentamente e apparve l’alta figura curva, il collo rosso e il volto vaiuolato di don Arca, che s’inchinò per entrare.
Silvestra, che aspettava ritta e con le mani sullo schienale d’una seggiola, arrossì e provò una sensazione di spavento; negli otto mesi della sua clausura il vermiglio volto di prete Arca era il secondo viso umano che vedeva. Il primo era stato il paffuto volto roseo di un monello, apparsole un giorno sull’inferriata che chiudeva il buco per lo scolo delle acque piovane del cortile. Ella si era chinata, udendo un piccolo stridìo, e, visto il monello, gli aveva rudemente gridato: — Cosa fai lì? Il ragazzo era scappato.
Vedendo sua nipote rosea e forte, prete Arca le fece dei benevoli complimenti.
— Non ti domando come stai neppure. Si vede che stai benone.
— Non tanto! — ella pensò, specialmente in questi ultimi giorni!...
Ma glielo disse soltanto in confessione, dopo che lo zio s’ebbe cinta con ambe le mani una vecchia stola violetta, ricamata di croci di oro falso, che col tempo si era fatto rosso per la vergogna.
Prete Arca pregò un momento davanti all’ altarino, tirando in avanti la sottana per inginocchiarsi. Silvestra gli era venuta dietro silenziosamente, portando una sedia, e quando egli si sollevò e, ancor più vermiglio nella rossa luce dell’oratorio, si guardò attorno curioso, con quella sua parrucca color pelo di volpe, con quella sua lunga sottana verdognola, la nipote arrossì nuovamente, e sentì una soggezione, una vergogna indicibile, ricordando i suoi turbamenti di spirito. Ma il vecchio prete Arca era tutta una personalità stranamente suggestiva; mostrava un gran pessimismo contro le vicende del mondo, e convinceva i suoi confidenti a non pensarci più....
Quando Silvestra gli ebbe rivelato il desiderio avuto di ritornare nel mondo e saper di lui:
— Ma cosa ci faresti tu nel mondo? — esclamò egli, sorridendo amaramente, a capo chino. — Oh, benedetto Iddio, cosa puoi tu ritrovare nel mondo? Derisione soltanto e nessun buon profitto della tua debolezza. O tu torneresti per viver semplicemente con i tuoi, pur seguitando a far la monaca di casa, e non sfuggiresti alle cure, ai fastidi, ai dispiaceri domestici, e il contatto della servitù e d’altre persone a cui non potresti sottrarti t’indurrebbero in tentazione: tentazione di pettegolezzi, d’ire, di vanità, menzogne, giudizi temerari, mormorazioni ecc.; o tu torneresti ad esser donna Silvestra Arca, e peggio che peggio. Desteresti scandalo rompendo i tuoi voti, desteresti derisioni e mormorazioni, ti farebbero cadere nel dolore e nel peccato. E dopo, cosa ti aspetterebbe? Non uno stato famigliare, perchè gli uomini, dopo il tuo voto, avrebbero paura di rifiuto nel domandarti in isposa.
Silvestra ascoltò e volle protestare, ma non osò interrompere lo zio, che proseguiva animandosi d’un sorriso sempre più amaro ed ironico:
— D’altronde? Non c’è alcun partito per te, tu lo sai, son tutti spiantati e nessuno ti converrebbe: c’è soltanto tuo fratello, ricco nobile e potente, e tu non puoi sposare Stefano! E da Nuoro, ora che sanno del tuo voto, chi vuoi che venga? Di lui, poi (Silvestra chinò il volto, e per qualche momento vide solo tre spicchi grigi del mosaico che s’aggiravano come tre raggi su un livido sfondo), è inutile parlarne. La stessa suddetta ragione della poca convenienza, ora, tu lo sai, è impossibile. Calcola per bene questa parola. Se prima il vostro matrimonio era difficile, ora è im-pos-si-bile! Tu, figlia cara, domandi ancora di lui; non domandarne più, perchè, oltre la debolezza di abbandonarti ancora a pensieri mondani, fai male a te stessa creandoti illusioni che turbano la tua pace. Vinci la tentazione, e quando ti viene il pensiero di lui, prega per la sua salute spirituale, e non altro....
Un triste pensiero venne a Silvestra, il cuore le martellò forte, e subito mostrò allo zio di non far gran conto dei suoi consigli perchè gli chiese, col volto sollevato ed intento:
— Lo hanno condannato?
Ma prete Arca era dopo tutto uomo, e uomo che aveva attraversato il mondo (mare di pece ardente, egli lo chiamava), e la sua parrucca rossa sapeva com’egli un tempo aveva molto pensato di combinare il matrimonio sognato dalla nipote.
— Non è condannato, non è arrestato neppure.... — Silvestra sospirò e sentì la nuca sudata per commozione e sollievo; — ma è come se lo fosse. Un uomo solo poteva salvarlo, il Chessa, e il Chessa è morto!
— Morto? — disse Silvestra, e impallidì, e il sudore le si gelò.
— Morto! — ripetè il prete, e il suo volto riprese un’espressione che proibiva le mondane curiosità della confidente.
Ella nascose il volto fra le mani e non domandò altro; don Arca percepì che ella non l’ascoltava, tuttavia proseguì, tirando in alto la sottana in modo che apparvero le fibbie lucenti delle sue lunghissime scarpe:
— Che faresti tu dunque nel mondo, figlia mia? Il mondo è un mare di pece bollente, che si attacca e brucia e macchia coloro che lo attraversano. Beata te che ne sei lontana, beata te che sei stata illuminata a tempo dall’ineffabile grazia di Dio. Nel mondo non c’è che menzogna, viltà, dolore. E tu sai bene le parole di Matteo, riportate anche nell’Imitazione di Cristo: Il nemico dell’uomo è l’uomo stesso, e specialmente quello che gli sembra più amico e più domestico, imperocchè il vero fondo dell’uomo è la menzogna. Non gioie dunque di fanciulla di sposa e di madre ti attendono: tu invecchierai nella sterilità del cuore, e, credi a me, niuno è più indotto in tentazione di quello che lo sia la donna zitella, nè amante, nè riamata. Resta dunque qui, dove il peccato non troverà albergo, perchè quando gli occhi non vedono non peccano, quando la bocca tace non pecca, quando si è soli la tentazione resta lontana (Oh, non è vero! — gemè Silvestra fra sè); — e la tua preghiera sia un continuo inno di ringraziamento al Signore per la grazia che ti accordò. «Signore mio Dio, — tu devi dire (e prete Arca sollevò la testa, gli occhi e le mani aperte), — io Vi ringrazio e Vi lodo ogni momento, imperocchè mi faceste vedere le vanità del mondo e mi toglieste dal dolore e dal peccato! Io vivo con Voi e per Voi, io sollevo gli occhi e Vi scorgo nei cieli, nella profondità degli astri, nello splendore del sole. Voi siete sempre davanti al mio sguardo, ed oh, meraviglia, qual pace, qual purezza, qual gaudio è dentro di me!»
Per qualche istante rimase a mani sollevate ed aperte ad occhi aperti, a bocca aperta, con espressione di sovrana meraviglia su tutto il volto, suggestionando Silvestra più col gesto che colle parole.
Anch’ella sollevò inconsapevolmente il viso, e sentì una pace, una purezza, un gaudio sovrumano scenderle per la gola al cuore, come un liquido filo di miele e d’ambrosia.
Questo gaudio le durò parecchi giorni, non più offuscato da rimorsi od incertezze. Passò una Pasqua adorabile, in digiuni ed intense preghiere, ch’erano proprio un inno di ringraziamento e d’amore al Signore; non era l’amore isterico e morboso delle pulcelle bigotte, ma un puro amore intenso, una diretta relazione intima con Dio, che le inondava i pensieri ed i sensi di grandiosa serenità.
L’oblio e l’indifferenza per il mondo, i propositi monastici le sembravano più forti che durante il passato inverno, nelle cui notti ventose, se non ascoltava, sentiva però la lontana voce di lui: ora nessuna voce poteva più giungerle nè in realtà, nè in sogno; ora udiva soltanto la voce della eternità, che continuamente e nitidamente le faceva percepire la vanità moritura del tempo e delle cose.
Ogni notte, andando a letto, e coricandosi con le mani piamente incrociate sul seno, diceva:
— Così mi metteranno entro la bara, e questa mia carne sparirà, e resterà solo questo mio scheletro, questo stesso che ora io sento, che è qui dentro di me. Ogni giorno che passa mi avvicina alla morte; fra venti, fra cinquant’anni io non sarò più qui, nè in alcun posto del mondo. Si dirà — forse — : Qui visse Silvestra Arca, ma passeranno indifferenti, continuando a rodersi in passioni vane, senza pensare che anch’essi spariranno come sono scomparsa io. Stolti!
Il pensiero della morte l’accompagnava continuamente, ed ella non ne provava terrore, ma neppure la triste consolazione dei disperati. Era la certezza d’un giorno che doveva venire, giorno non di gioia, nè di dolore, ma aspettato con la rassegnata attesa delle cose inevitabili, che vuotava la vita e gettava sopra ogni cosa la desolazione del nulla. L’uniformità dell’esistenza, dell’abitudine, del ristretto ambiente solitario contribuiva ad aggravare l’arcano sogno funereo; ma bastò un piccolo segno del mondo esteriore perchè la naturale legge della realtà, per quanto fugace, riprendesse il suo impero.
Un bel mattino, agli ultimi di aprile, — c’era nell’aria un più denso profumo di fiori, d’erbe già alte, e tra i frammenti vitrei del muro che sprizzavano scintille di gemme verdi e violette, una irrequieta, lunga fila di rondini si dondolava, cantando, con gli occhietti fissi al cielo turchino, — fu introdotto nella ruota un cartoncino nuziale:
Nob. Stefano Arca
Maria Arthabella Arca
oggi sposi
Sull’altro lato, nel tenue splendore eburneo del cartoncino, sotto una corona d’oro, un M e un S d’oro s’intrecciavano in tenace amplesso d’amore felice.
Silvestra cercò di non meravigliarsi, di non scandolezzarsi e neppure sdegnarsi per l’infrazione dei suoi al desiderio e al voto suo di non aver notizie mondane.
— Forse è stata Maria a metterlo, pensò, e respinse il cartoncino.
Respinse il cartoncino, ma da quel giorno la tentazione la riprese. Erano lunghe fantasticherie fatte al sole dell’aprile, sulla panchina di pietra del cortile; erano i ricordi che tornavano, era la percezione della morte che si allontanava, dissolvendosi nell’aria voluttuosa delle tiepide notti olezzanti, quando la luna batteva sui lunghi ciuffi di erba nati sul muro, e l’usignuolo, dalle verdi cime del noce, gittava le sue argentee sinfonie ai primi ranuncoli dell’orto.
Che accadeva, oh, che accadeva al di là dei muri gialli incoronati di false gemme? Che cadeva nella casa pisana, dai veroni aperti al sole ed all’amore?
Un’altra era là, nelle quiete stanze eleganti, un’altra che, se aveva sofferto, aveva però anche goduto, ed ora rinasceva alla vita con la vita dei fiori, mentr’ella, Silvestra, inaridiva come erba sterile strappata dalle aiuole paterne.
Era giusto ciò?
E, senza volerlo, senza saperlo, cominciò a pensare male di Maria, a scandolezzarsi per il fragile carattere della vedova, che non solo mancava di fede all’amore morto, ma si dava all’antico persecutore dello stesso amore. E, senza volerlo, senza saperlo, cominciò a chiedersi come ciò era avvenuto. Come Stefano si era innamorato della donna prima odiata e vilipesa? Come questa si era piegata? E don Piane? E i parenti di Maria?
Oh, che cosa, che cosa mai accadeva al di là dei muri gialli, che cosa accadeva sotto i noci vigilanti sul villaggio?
Ogni evento dunque mutava; si spegnevano dunque gli odî e i rancori, e sulle inimicizie domestiche spuntavano le rose dell’amore e della felicità, spuntavano pure e roride come quei delicati alabastrini steli che nascono sui terreni immobili, fecondati dalla rugiada? Solo per lei, per l’erba sterile e maledetta, gli eventi non mutavano, nè cangierebbero mai: per lei l’odio era rimasto odio, il rancore rancore, e il fragrante terreno dell’amore aveva germogliato fiori di sventura e di morte.
Era giusto ciò?
— Vergine Santa, sacro Cuor di Maria, salvatemi dalla tentazione, vigilate su di me che sono cosa vostra, che a Voi mi diedi perchè mi salvaste dalle ire e dalle amarezze del mondo — pregava Silvestra, curva sui gradini dell’altare baciando il freddo pavimento e battendosi la mano sul petto. — Salvatemi, perchè se Voi mi abbandonate io sono perduta, perchè l’odio e il rancore crescon a ogni ora in me e la solitudine, ov’io credeva trovare salvezza, non fa che accrescere le mie male passioni.
E piangeva, e in certi momenti le sembrava di riunirsi ancora a Dio e risentir la grazia e riaver la percezione del nulla umano; ma appena lasciato l’oratorio e tornata alla gaudiosa luce del sole, le tentazioni l’assalivano di nuovo. Ogni cosa contribuiva alla facile vittoria della tentazione, e l’aria olezzante di erbe e di fiori, e i vertiginosi voli circolari delle rondini amanti, e il sussurrìo voluttuoso delle prime mosche dalle ali di nero iridato, che venivano a sbattersi contro i vetri della finestra.
Venne il mese di maggio. Silvestra si propose di pregare con più fervore, digiunando e rimanendo fino a tarda notte nell’oratorio, recitando con intensità il rosario, le litanie e le antiche laudi sarde, che avevano un dolce ritornello:
A Tie, Mama de amore,
Costu mese consacramus. 2
Di notte, sfinita dai digiuni e dalle preghiere, andava a letto con una lieve vertigine che le velava i pensieri e le percezioni, e se talvolta aveva un desiderio ben definito, era questo il desiderio della morte.
Agli ultimi di maggio cominciò a piovere dirottamente, e per più d’una settimana Silvestra non vide che un cielo color di lavagna, sul cui triste sfondo passavano grandi nuvole squarciate da linee metalliche e da bagliori fumosi.
Sembravano livide montagne orlate di neve, e immensi piatti d’acciaio colmi di vapori bianchi e grigi. E la pioggia cadeva dirotta, con lunghi filamenti argentini; e fra il suo continuo e monotono fragore s’udiva un disperato coro di uccelli ricoverati sul noce, un concerto di imprecazioni cristalline e di lamenti.
Silvestra sentiva freddo, ma, sebbene conservasse ancora un cesto di legna, non accese il fuoco per penitenza.
Per un’interminabile settimana rimase così, con le mani esangui, gelide, col volto pallido; e il freddo, l’umido dell’oratorio, i digiuni, la sottile febbre che la estenuava, accrebbero la sua mortale tristezza. Il cuore le nuotava in uno stagno d’ignote, indefinite amarezze, e l’intima ribellione cresceva di giorno in giorno, d’ora in ora.
Ai primi di giugno la pioggia cessò, e il cielo apparve alto, altissimo, d’una purezza e d’una turchina profondità infinita; e, subito dopo, il sole cominciò il suo impero, dilagando per l’aria con ardori sfibranti. Ora, non più la fragranza delle erbe e dei ranuncoli, ma il profumo sonnolento dei papaveri campestri, e il largo, caldo e rorido olezzo delle rose in piena fioritura arrivavano con soffi penetranti e avvolgenti.
Fin dal primo giorno di sole, quando l’aria profondamente tiepida le portò la fragranza delle rose, Silvestra provò un fatale smarrimento, e un’onda d’indimenticabili ricordi la travolse.
Poi, quando al profumo delle rose che dovevano, al di là dei muri gialli, sfogliarsi, pallide nell’ebbrezza del sole, e spargersi pei viali come larghe gocce di sangue sbiadito, s’unì sottilissimo, ma penetrante, l’odore del fieno, l’ultimo e più struggente dei ricordi, che a quell’odore di fieno si riallacciava potentemente, si impose quale ossessione al pensiero ed al cuore, già ribelli e già vinti.
*
Un anno prima, verso il principio di giugno, Filippo Gonnesa si svegliò una sera tra il fieno d’una marcita naturale, dove sapendosi protetto dai pastori d’un vicino ovile, aveva parecchie ore dormito sotto le carezze profonde del tiepido tramonto.
Riaprendo gli occhi provò un senso di dolce benessere che prolungava la soavità del sonno; e non si mosse, restando con le mani aperte e molli abbandonate sul fieno caldo, non iscorgendo, al di sopra di lui, che il firmamento, di un’infinita dolcezza; il tramonto era là, dietro la tiepida testa di Filippo, nella chiara zona di cielo argenteo, solcata dai lunghi e tremuli raggi d’oro del sole calante.
La diffusa e rosea luminosità dell’occidente allagava la marcita: i verdi cespugli filamentosi, gli asfodeli che fiorivano ancora agli ultimi soffi primaverili, gli alti giunchi cosparsi di fiori rossastri, le lucide filigrane dell’erba sardònica e i lunghi, diafani steli del fieno gettavano sottili ombre, che s’allungavano visibilmente di minuto in minuto.
Filippo non vedeva attorno a sè che la distesa del fieno folto morbido, biondo alla base, sfumato in cima da un verde rossastro, che cangiava la marcita in un campo di vegetazione rosea e luminosa.
Egli fissava sempre le cime rosse dell’elce: un nuovo soffio di brezza, più forte e fresco, gli battè la nuca, dandogli non più raccapriccio, ma una sensazione piacevole e indefinita come quella d’un profumo. Sentì sopravvenire qualche cosa d’ignoto, ma non d’inquietante. Che cosa era? Forse la sensazione della realtà dopo il lento risveglio dal sonno; forse la frescura della sera; forse la sera stessa che veniva e lo invitava a sorgere, a incamminarsi, a riprender la sua via fatale? No; perchè era una sensazione piacevole, un’indistinta percezione dei sensi e dello spirito, che lo tenne fermo, lo rassicurò, gli fece chinare gli occhi. Sentì l’ombra delle brune e fini ciglia allungarglisi sulle guance, e gli sembrò che quell’ombra calasse, calasse, allargandosi, oscurandogli una lunga striscia del fieno su cui posava: rialzando le palpebre vide infatti un’ombra sottile, e, senza voltarsi, riconobbe la persona che il suo cuore aveva sentito venire.
— Silvestra! — disse dolcemente.
Una mano gli si posò sul capo; egli alzò la destra, afferrò quella mano tremante, la strinse tenacemente, poi appoggiò la sinistra sul fieno e si sollevò.
Per un momento i due giovani si guardarono intensamente, quasi meravigliati di trovarsi tanto vicini: egli appariva più alto e più robusto nel suo costume; ella, volgendo il viso al sole morente, era tutta rosea, e una dolce fiamma pensosa le brillava negli occhi, che al chiarore del tramonto sembravano di madreperla.
— Ti ringrazio. Ma come sei venuta? — domandò egli, ansando leggermente. E prima le strinse le mani, poi la prese fra le braccia senza baciarla: l’elce guardava, e le sue cime sempre più rosee ora tremavano, come ondulate da un sorriso appassionato.
Silvestra fu la prima a sciogliersi dal doloroso amplesso: Filippo la fece sedere sul fieno, e stettero così, nascosti come due uccellini fra l’erba fiorita.
— Come sei potuta venire?
— Come? Come meglio ho potuto, giacchè l’hai voluto assolutamente. Ma forse ho fatto male.
Ella parlava risentita e paurosa; ma in quel momento egli non ricordava più alcun pericolo; avrebbero potuto venire, circondarlo, legarlo come un agnello, ed egli non avrebbe inteso nulla, non si sarebbe neppur mosso.
— Come, male? Perchè male? — domandò sorridendo. — Come hai fatto?
— Come? Quando ho ricevuto la tua lettera, che diceva di volermi assolutamente rivedere un’ultima volta qui, dove ci siamo conosciuti la prima volta, qui, in questo giorno e in quest’ora, non sapevo proprio come fare, se non che lasciarti dire....
— Questo non l’hai pensato neppure, — interruppe egli dolcemente.
— Oh, se l’ho pensato! Tu sai il rischio....
— Lo so, e ti ringrazio....
— Basta. Dissi al babbo: Babbo, prima di rinchiudermi voglio riveder un’ultima volta.... le nostre campagne. Andiamo alla casa colonica del Latte dolce. Egli si mise a piangere come un bambino, ma acconsentì. E siamo da ieri nella tanca. Ieri sera, per non dar sospetti, andai verso il tramonto alla chiesetta di Nostra Signora del Latte dolce e vi rimasi fino all’imbrunire: oggi son venuta qui, mentre mi credono di là. Ma forse ho fatto male, ho fatto male. Perchè hai voluto che io venissi?...
Ella parlava sempre con pauroso risentimento; ma egli non sentiva che la sua voce, non provava che la grande e dolorosa felicità di vederla vicino a sè.
— Perchè hai voluto ch’io venissi? — ella ripetè quasi rudemente, strappando una manata di fieno.
— Silvestra! — diss’egli, e voleva rimproverarla, ma non potè; e di nuovo rimasero stretti nella dolorosa catena che li avvinceva, sentendo scambievolmente le pulsazioni dei loro cuori e vedendosi riflessi l’uno negli occhi dell’altro.
— Perchè ti ho voluto? Come puoi domandarmelo dunque? Ti ho voluto per vederti un’ultima volta, per dirti a voce ciò che tu sai: ch’io sono innocente, ch’io sono perseguitato perchè t’amo; che soffro immensamente, non per me, non per la calunnia che i tuoi m’hanno sguinzagliato dietro come un cane arrabbiato, non per i pericoli che, sia o no fatta giustizia, mi attendono, non per i danni civili e morali che io ed i miei subiamo e subiremo, non per nulla infine che mi riguardi... ma per te, per te, Silvestra cara, per quello che fanno soffrire a te, per quello che ti costringono a fare.... e che io, io, io non posso impedire.... Ecco perchè ho voluto che tu venissi, Silvestra, ecco perchè.... perchè non so se ci rivedremo più mai in questa vita.... perchè avevo bisogno di rivederti ancora una volta onde farmi coraggio, onde non odiare chi tu ami, onde non esser tratto a quel delitto che mi si vuole addossare....
Ella gli chinò il volto sulla spalla e si mise a piangere disperatamente. Allora egli sentì davvero tutta la forza che invocava dalla presenza di lei; le sollevò il volto, volle che i grandi occhi di madreperla si fissassero ne’ suoi, ed ebbe il triste coraggio di sorridere.
— Ma dunque! Non piangere, non voglio! Dopo tutto, il cuore mi dice che non dobbiamo completamente disperarci. Io sarò assolto, questo è certo. Basta che piglino Saturnino Chessa e che egli dica la verità: allora io mi costituirò e vedrai che sarà nulla: non disperarti, via! Tu sai quante prove io ho e sai che non ho paura di nulla. Non ho voluto che tu venissi per vederti piangere! E poi a che servono le lagrime?
Silvestra, intuendo la delicatezza di lui, che, per confortarla, fingeva un coraggio e una sicurezza maggiore di quella che sentiva, volle imitarlo, e sorrise fra le lagrime.
— Parliamo ora di te: quando dunque ti rinchiudi, bella monaca? — domandò egli, e sembrava scherzare.
— Fra poco: appena sarà tutto all’ordine....
Il sorriso morì ad entrambi sulle labbra: ella strappò un altro ciuffo di fieno, ed egli seguì con gli occhi la mano di lei.
— E dimmi, chiese dopo breve silenzio, — s’io tornassi ad esser libero e.... come prima; s’io mi presentassi a te, o cioè ti facessi sapere d’esser in grado di sposarti, e tu, compiuta l’età legale, fossi padrona di te.... potresti sciogliere il tuo voto? Vorresti?
— Sì! — rispose Silvestra, appunto perchè sentiva che quel giorno non sarebbe giunto mai.
Egli le strinse le mani con amore e riconoscenza.
— Grazie, disse, e una gran tristezza gli passava su gli occhi. — Perchè non posso renderti felice da oggi? Perchè, mentre vorrei renderti la più felice fra le donne, non ti ho sempre recato altro che dolore?
— Ed io? ed io? Cosa ho fatto io?
Per non farla nuovamente piangere, Filippo sviò ancora il discorso:
— Dove sei passata venendo? Come ti sei ricordata precisamente del luogo?
— Mi ricordavo di quei rovi là: son venuta direttamente, passando davanti la chiesetta; poi c’è la piccola salita ed ecco i rovi: ho costeggiato la marcita, ho seguito la linea di sentiero che porta alla fontana, e di là, vedendo una traccia nel fieno, ho pensato: deve esser passato qui! e camminai, ma non vedendoti cominciavo a disperarmi quando son capitata proprio qui, senza avvedermene. E tu dormivi.
— No, ti aspettavo, — diss’egli con piccola menzogna, e siccome Silvestra tendeva ancora la mano, movendola in giro per indicare la via percorsa, le prese il polso, lo baciò e se lo portò sul petto.
— Sei coraggiosa! — le disse con ammirazione. — Come mi duole il cuore nel renderti tanto infelice, Silvestra mia! Chi l’avrebbe creduto, la prima volta che c’incontrammo qui; te ne ricordi?
Le appoggiò la fronte sulla spalla, con tutto l’abbandono e la stanchezza della sua triste giovinezza, e Silvestra chiuse gli occhi per non piangere. E per un momento i due spiriti amanti rivissero nel passato, nel giorno lontano in cui, — trovandosi le due famiglie, allora amiche, a festeggiare la Madonna campestre del Latte dolce, — essi ancor adolescenti e ignari dei pregiudizi di classe, s’erano spinti sino alla fontana della marcita e fra i giunchi odorosi e i fieni imperlati di fiori, ridendo s’erano detto d’amarsi.
In quel giorno non avevano pensato che gli Arca possedevano quindici tancas: fra queste quella che confinava ai terreni della chiesa del Latte dolce conteneva una ricca casa colonica e cento vacche nere macchiate in fronte da una stella gialla, e cento torelli color di latte con la schiena e la coda fulve; mentre Filippo Gonnesa aveva interrotto i suoi studi per mancanza di mezzi e non possedeva che poche giovenche sarde, rosse e scarne, e un puledro grigio dall’antica sella di velluto viola.
Ma il bell’adolescente dalle lunghe ciglia brune caracollava così diritto e fiero sul puledro cenerino, che quando Silvestra Arca lo vedeva passar nella sua via aveva la visione d’un giovane cavaliere, il più ricco e nobile del Logudoro.
— O Pippo, disse riaprendo gli occhi alla realtà, — non pensare a me; anch’io non soffro per me, e ti ho tanto amato (diceva già ti ho tanto amato!), — che sono felice del piccolo sacrifizio che compio per amor tuo. E se ritornassimo indietro e vedessi tutto nell’avvenire, ricomincierei lo stesso, ti amerei lo stesso, però guardandomi dal farti incontrare le disgrazie che per amor mio hai incontrato.
Egli rialzò la fronte e parve calmo: fissò gli occhi e il doloroso colloquio proseguì sommessamente.
Il sole tramontò rapido e pallido: la zona argentea dell’occidente prese allora una tinta luminosa sfumata in delicato rosa, che andò mano mano smorzandosi in glauco. Un glauco liquido e trasparente che con un ampio semicircolo invase quasi tutto l’orizzonte. Solo l’oriente restò cerulo, opaco; sembrava una lontana spiaggia deserta. Ogni ombra dileguò dalla marcita, cessò la brezza, e nella prima gialla luminosità diffusa dal vespero una profonda pace addormentò i cespugli, gli steli, il fieno e i fiori. L’odore dei giunchi si rese più distinto, e la voce sommessa dei due innamorati si perdè tra il fieno come un leggero soffio.
— Tu hai freddo, disse alla fine il giovine, accostandosi alle labbra le dita di Silvestra e soffiandovi lievemente. — Hai freddo? Bisogna che te ne vada. È tardi....
— È tardi, — ripetè lei. Ma non si mossero, e tacquero.
Egli la guardava con disperazione; le consigliava d’andarsene e la tratteneva; avrebbe voluto gridare tutto il dolore che lo straziava e si sforzava a sorridere per non addolorarla. Ma ella sentiva bene tutto ciò, e, a sua volta, non piangeva per non accrescere l’angoscia di lui. Una triste domanda fremeva sulle labbra d’entrambi: «Ci rivedremo mai?» ma non fu pronunziata.
— Fa davvero fresco! Forse mi cercano e temono che qualche bandito m’abbia rapita! — disse Silvestra sorridendo; e sentendo un brivido alle tempie si tirò sul capo il fazzoletto di seta nera che aveva lasciato scivolare sulle spalle. Egli glielo legò sotto il mento, poi la baciò mestamente, e ripresero a parlar di cose indifferenti, ma con voce stanca e triste che invano celava lo scambievole sforzo di non addolorarsi a vicenda, tacendo ciò che pensavano.
L’ombra cresceva, e s’addensava nei cespugli resi grigi dal crepuscolo, sul cielo e sulle due anime amanti che tacitamente si dicevano addio.
— Andiamo? — domandò Silvestra, e tremò tutta improvvisamente, come corda spezzata.
Egli sentì in quel brivido tutta la grande angoscia che li urgeva, e avrebbe voluto scattare, gridare con voce ribelle:
— No, non andiamo. Rimaniamo insieme, che ne abbiamo il diritto!.
Ma non fece che trattenerla tutta tremante vicina a lui e dirle:
— No, aspetta ancora un po’, aspetta.... non andartene ancora....
Ella aveva paura, pensava all’inquietudine di suo padre, ma non si mosse. E rimasero ancora, silenziosi, inquieti, vigilanti nel melanconico silenzio che li circondava.
Con l’addensarsi dell’ombra anche la lontana spiaggia dell’oriente assunse un bagliore prima bianco, poi tenuemente giallo e lucido: era l’alba della luna.
Qualche vago rumore s’udiva in lontananza; prolungati e tremuli stridii di grilli, smorti latrati di cani e tintinnii di pecore sbandate. La luna non tardò a sorgere; apparve prima come una gialla scintilla sulla nera e frastagliata linea dei rovi che sembravano lontanissimi, e crebbe, crebbe, radiosa e tremula, finchè sorse tutta, immenso disco d’oro d’una indicibile purezza. Tutto il cristallino cielo si schiarò, e gli astri, qua e là già apparsi, tremarono più chiari e limpidi, simili a diamanti: il fieno, i cespugli, gli alti steli si cangiarono in misteriosa vegetazione d’argento brunito; s’incrociarono di nuovo, ma verso occidente, i filamenti delle ombre sottili, e le lame dei giunchi e degli asfodeli luccicarono come spade d’acciaio.
Ritornò la brezza freschissima, quasi pungente, e Silvestra rabbrividendo disse:
— Ora me ne vado davvero.
Egli non cercò più di trattenerla, anzi la aiutò ad alzarsi, e quando furono ritti se la strinse ancora al petto; e siccome ella taceva le volse il viso verso la luna, per vederla meglio forse per l’ultima volta. Al riflesso lunare una scintilla d’oro arse nei grandi occhi chiari e la fronte ebbe splendore d’avorio.
— Addio, Silvestra. Quando potremo rivederci?
— Lo sa Dio! — diss’ella, ed anche i suoi denti brillarono alla luna.
Era così bella, così delicata e fine, che Filippo sentì più che mai acuta l’angoscia di doverla lasciar andar sola allora e per il resto della vita.
— Se Dio è giusto ci rivedremo! — affermò, e la baciò disperatamente, pensando tutto il contrario di quanto diceva.
Poi, ad onta d’ogni pericolo per entrambi, volle accompagnarla un tratto: brancicando sul fieno già freddo raccolse il fucile e la berretta, strinse Silvestra quasi sollevandola dal suolo, e così se ne andarono silenziosi fra gli alti steli argentei, seguiti dalle loro lunghe ombre oblique.
*
Silvestra pianse, dopo aver rievocati in tutti i suoi minimi particolari questa estrema rimembranza.
— Se Dio è giusto ci rivedremo! — aveva ripetuto Filippo, baciandola un’ultima volta davanti alla chiesetta sulla cui spianata le rose selvatiche olezzavano alla luna.
E non s’erano riveduti, e non si rivedrebbero mai più, e non dovevano rivedersi neppure in sogno.
— Perdonatemi, Vergine Santa, inaridite queste labbra che bestemmiano, infrangete questo mio cuore....
Ma mentre l’io superficiale così pregava, l’io interno e profondo gridava ancora la ribelle bestemmia.
La fragranza delle rose riportava la visione della spianata della chiesetta, ove le rose selvatiche avevano assistito agli ultimi addii: e le stelle limpide guardando dagli altissimi cieli parevano pianger lagrime di perla.
Silvestra rientrò nell’oratorio e provò ancora a prostrarsi, a baciare il suolo e battersi il petto; ma la Grazia non tornava più; e nella porpurea irradiazione della lampada, la percezione velata dalla febbre vide passare una lunga fila di puledri grigi dalla sella di velluto violetto, montati da adolescenti che avevano gli occhi e le lunghe ciglia neri. Sui vasi dell’altare crescevano folti roveti selvatici coperti di rose sbiadite, e le colonnine di marmo grigio sorgevano come fusti di pioppi solitari sopra un fondo di cielo lunare; la Madonnina d’alabastro cangiavasi nella Vergine di legno smaltato, dal manto di broccato verde, che dal silenzio della chiesetta campestre aveva vigilato sul triste idillio.
Gli adolescenti caracollanti sui puledri dalla sella violetta sfilavano sempre e svanivano dietro l’altare, fra i roseti fioriti, ove si trasformavano in alti, eleganti paesani dal fucile rilucente.
La Madonnina guardava, con infinita pietà entro i lunghi occhi socchiusi, e dall’alto scendeva un ineffabile splendore d’aurora.
Tutto il latte dolce, tutta l’ambrosia della divina pietà del suo cuore, rosso come brage eppur candido come latte appena munto, inondava il manto, la tunica, i piedi della Madonna; era una marea di pietà, di misericordia, di sovrana dolcezza, che invadeva le rose, l’altare, l’aria, la vôlta e il pavimento dell’oratorio, penetrando fino al cuore di Silvestra. Era il lontano plenilunio a cui Filippo aveva gettato il suo grido:
— Se Dio è giusto ci rivedremo!
E Silvestra, coi gomiti sull’inginocchiatoio e il volto fra le mani, sentiva tacere in sè ogni ribellione, ogni angoscia; e s’abbandonava alla inenarrabile dolcezza dei ricordi, dell’amore rinato, della vita trionfante.
Il suo pensiero rispondeva finalmente ai quesiti prima sì tormentosi ed oscuri.
La luce rossa piovente dall’alto era luce d’amore, di carità e perdono.
Al di là degli alti muri gialli fiorivano le rose, e gli uomini amavano.
La Vergine del Carpaccio attendeva l’amor suo lontano, forse contrastato, che combatteva e anelava per giungere a lei; e la luce che le irradiava la fronte sognante era la speranza.
Anche Silvestra sentì in sè questa luce misteriosa, splendida come il vermiglio bagliore dell’Amor divino, bianca e dolce come il latte della divina Misericordia; e nei vaneggiamenti della strana febbre che le faceva confondere il Cielo col Mondo, il suo cuore provò un vago sentimento d’attesa. Egli Sarebbe tornato, egli veniva!
Come e quando si sarebbero riveduti ella non giungeva a immaginarlo, per quanti sforzi la mente facesse; ma il cuore sentiva che ciò doveva accadere, e presto.
Nella profonda dolcezza di questa speranza i pensieri si lenirono soavemente, si raddolcì la tensione dei nervi; le braccia si piegarono sull’inginocchiatoio, e priva di sostegno la testa si reclinò. Confuse visioni le attraversaron la mente; dai roseti dell’altare che parevano chiudere un misterioso orizzonte, cominciò a fumare una tenue nebbia bianca, ed erano le rose che si sfogliavano, ma invece di cadere, i petali salivano, salivano. A poco a poco l’impalpabile vapore coprì ogni cosa; la sua faccia cadde sulle braccia e il pensiero s’addormentò.
Nel silenzio alto della notte s’udì un grillo che strideva al di sopra del muro; poco dopo un rumore insolito, come di scalpello sulla pietra, risuonò timidamente al di sotto del muro, intorno all’inferriata che chiudeva il buco per lo scolo delle acque piovane nel cortile; spaventato, il grillo tacque sul suo rifugio.
Le grandi stelle bianche di giugno scendevano verso l’Ovest, e una sola, d’un azzurro di opale, stava come acuto occhio celeste, ferma al di sopra della torretta nera del piccolo monastero.
La fragranza dell’orto saliva più fresca e rorida, come se tutte le rose si fossero sfogliate sulla vasca e l’acqua svaporasse olezzando.
Il rumore timido e lento continuava, e cambiando vibrazione pareva il raschiare d’un piccone sul muro aspro. L’inferriata vibrava con lunghi tremiti metallici, ma così tenui che solo il grillo li udiva. Un momento tutto tacque, e il grillo riprese a cantare una nota acuta e tremolante che pareva fondersi con l’oscillazione azzurra ed iridata dell’astro opalino fermo sulla torretta nera.
Ma il misterioso rumore seguitò ancora e l’inferriata vibrò più scossa e più tremula: il grillo tacque di nuovo, e di nuovo non s’udì, sotto il bianco corso degli astri e tra la liquida fragranza delle rose, che lo sgretolarsi aspro del muro e la vibrazione dell’inferriata.
Poi, ad un tratto, la vibrazione cessò; si udì un colpo secco e duro.
Poi profondo silenzio.
Ma il grillo attese a lungo prima di riprendere la sua sottile sinfonia tremolante, e quando dopo alcuni timidi accordi la riprese per non più tacersi, le grandi stelle bianche erano vicine all’Ovest, ed anche l’astro dalle perlate vibrazioni azzurre era sparito dall’alto della torretta nera.