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— Così mi metteranno entro la bara, e questa mia carne sparirà, e resterà solo questo mio scheletro, questo stesso che ora io sento, che è qui dentro di me. Ogni giorno che passa mi avvicina alla morte; fra venti, fra cinquant’anni io non sarò più qui, nè in alcun posto del mondo. Si dirà — forse —: Qui visse Silvestra Arca, ma passeranno indifferenti, continuando a rodersi in passioni vane, senza pensare che anch’essi spariranno come sono scomparsa io. Stolti!

Il pensiero della morte l’accompagnava continuamente, ed ella non ne provava terrore, ma neppure la triste consolazione dei disperati. Era la certezza d’un giorno che doveva venire, giorno non di gioia, nè di dolore, ma aspettato con la rassegnata attesa delle cose inevitabili, che vuotava la vita e gettava sopra ogni cosa la desolazione del nulla. L’uniformità dell’esistenza, dell’abitudine, del ristretto ambiente solitario contribuiva ad aggravare l’arcano sogno funereo; ma bastò un piccolo segno del mondo esteriore perchè la naturale legge della realtà, per quanto fugace, riprendesse il suo impero.

Un bel mattino, agli ultimi di aprile, — c’era nell’aria un più denso profumo di fiori, d’erbe già alte, e tra i frammenti vitrei del muro che sprizzavano scintille di gemme verdi e violette, una irrequieta, lunga fila di rondini si dondolava, cantando, con gli occhietti fissi al