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Una sera, ai primi d’aprile, le fu introdotto sul vassoio del caffè un foglietto del calendario, su cui a lapis rosso, era segnato il giorno sette, Pasqua di resurrezione. Capì che doveva prepararsi per il precetto pasquale, e provò un insolito sentimento di piacere al pensiero di rivedere lo zio prete, che, ad ogni modo, avrebbe portato qualche cosa del di fuori, qualche pallido riflesso della vita esterna. Poi, accorgendosi di questa sensazione profana, si rattristò e cercò di rimediarvi colla mistica gioia della vicina Comunione. Entrò subito nell’oratorio, s’inginocchiò per terra, rivolta all’altare, e prima di cominciare l’esame pregò.
Fuori cadeva la sera, e l’aria era leggermente velata; i vetri, un po’ sbiaditi dalle piogge, lasciavano penetrare una rosea e delicata luce, la lampada oscillava sempre, le smorte rose sembravano languire per stanchezza; e al di sopra della diafana Madonnina, il cuore risplendeva nuovamente, ma d’un fuoco ancora pallido, che gettava tutta la rosea luminosità delle sue fiamme trasparenti di sole rinascente sulla Vergine del Carpaccio.
Per tutta la piccola cappella sembrava salisse la delicata luce di una mistica aurora; ma Silvestra era inenarrabilmente triste, e s’incurvava muovendo le belle labbra scarlatte e battendosi ritmicamente sul petto la palma della mano destra. Si sentiva in peccato. Aveva dato ascolto