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Vi s’osservava un dappiedi da letto a baldacchino, lumeggiato da una bifora, sul cui davanzale si ergeva un vasetto di metallo contenente una lunga e rigida pianticella fiorita di rose. Prostrata su un inginocchiatoio gotico, a sinistra, pregava e aspettava, presa da estasi e da arcano timore, una giovinetta il cui peplo oscuro lasciava intravedere forme modellate, snelle ed esili, sì, ma non rigide e diafane come nelle vergini preraffaellite degli altri due antichi quadri.

Una viva luminosità di sole, fulgida e dorata, invadeva tutto il piano sinistro della tela, lumeggiando vivissimamente l’angolo del soffitto di legno, piovendo sui piccoli mobili, che quasi svanivano sullo sfondo della camera e nella irradiazione della luce. Donde veniva lo splendore? Da una finestra invisibile o dall’Angelo che s’avvicinava?

Silvestra restava ore ed ore inginocchiata davanti a questo quadro, e fra lei e la figura dipinta esisteva una vaga rassomiglianza, specialmente nel bianco scorcio del volto e nella tinta castana dei capelli che le crescevano di nuovo a ciocche folte e morbide dalle finissime punte dorate.

Ma nessuna luce, tranne quella del passato, ardente e melanconica come il rosso chiarore del piccolo oratorio, irradiava il viso smorto e i freddi, limpidi occhi verdognoli della giovane