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«Silvestra, Silvestra Arca, è mai possibile che tu dorma, che tu riposi? Che mistero è nell’anima tua, se non ti scuote la mia voce incarnata nella violenta sonorità dei venti? È il mistero felino della tua razza? È la superbia di tuo fratello, è la sciocca crudeltà di tuo padre che mi perseguitano perchè osai amarti?»
E così dicendo gemeva larghi singulti sonori il vento marino, che veniva dalla costa portando seco tutto il gelo delle nevi azzurrognole di Monte Bardia e di Monte Pizzinnu; e il vento di tramontana, che gettava sull’altipiano nevoso la livida desolazione di Monte Albo, piangeva con sibili acuti che svanivano lentamente nella notte; e tutte le voci, i gridi, i gemiti e le sonore melodie selvaggie dei venti raccontavano ognuna qualche cosa, implorando, ricordando e insistendo.
Silvestra ascoltava e sentiva, sì, ma nel tepore del piccolo letto bianco, nel benessere del dormiveglia la sua anima non rispondeva alle rumorose voci della notte: solo, e raramente, pregava per la pace dello spirito errante il cui grido veniva col soffio dei venti marini e col sibilo dei venti del nord.
Nel caminetto di pietra ardeva una sottile lingua violetta orlata di alluminio, e le brage si velavano di pallidi merletti cenerini; la lampada granata dell’oratorio oscillava silenziosa-