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l’abbandono e la stanchezza della sua triste giovinezza, e Silvestra chiuse gli occhi per non piangere. E per un momento i due spiriti amanti rivissero nel passato, nel giorno lontano in cui, — trovandosi le due famiglie, allora amiche, a festeggiare la Madonna campestre del Latte dolce, — essi ancor adolescenti e ignari dei pregiudizi di classe, s’erano spinti sino alla fontana della marcita e fra i giunchi odorosi e i fieni imperlati di fiori, ridendo s’erano detto d’amarsi.

In quel giorno non avevano pensato che gli Arca possedevano quindici tancas: fra queste quella che confinava ai terreni della chiesa del Latte dolce conteneva una ricca casa colonica e cento vacche nere macchiate in fronte da una stella gialla, e cento torelli color di latte con la schiena e la coda fulve; mentre Filippo Gonnesa aveva interrotto i suoi studi per mancanza di mezzi e non possedeva che poche giovenche sarde, rosse e scarne, e un puledro grigio dall’antica sella di velluto viola.

Ma il bell’adolescente dalle lunghe ciglia brune caracollava così diritto e fiero sul puledro cenerino, che quando Silvestra Arca lo vedeva passar nella sua via aveva la visione d’un giovane cavaliere, il più ricco e nobile del Logudoro.

— O Pippo, disse riaprendo gli occhi alla realtà, — non pensare a me; anch’io non