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IV.

Il mattino dopo ci tornarono insieme, perché stavolta era Amelia che doveva posare. — Guai a te, — le disse Amelia, — se mi prendi ancora il posto. Quel lazzarone sa che ti accontenti di gelati, e con la storia che sei vergine approfitta — . Ginia non era piú cosí contenta come prima, e appena sveglia aveva pensato ai suoi ritratti rimasti in mezzo ai nudi di Amelia, e a quel tremendo batticuore che aveva provato. Nutriva un filo di speranza di farsi regalare le sue facce, non tanto per averle quanto perché non restassero esposte, là in mezzo, alla curiosità di chiunque. Non si capacitava che proprio Barbetta, quel vecchio papalotto grasso, avesse disegnato cancellato pasticciato le gambe la schiena il ventre i capezzoli di Amelia. Non osava guardarla in faccia. Quegli occhi grigi e quel lapis l’avevano fissata, misurata e frugata, piú sfacciati di uno specchio, e lei ferma o magari a fare le capriole e discorrere.

— Non vi disturbo stamattina? — le chiese mentre infilavano il portone.

— Senti, — le fece Amelia. — Volevi o non volevi vedermi posare? Un’altra volta starò attenta a non mettermi piú con le figlie di famiglia.

Nello studio tutti i vetri erano spalancati e le tende aperte, e mentre aspettavano Barbetta, sbucò dalla scala la vecchia serva per tenerle d’occhio. Ginia si chiedeva dove si sarebbe messa Amelia per posare, ma Amelia discuteva già con la vecchia e le fece chiudere i vetri perché l’aria del mattino rinfrescava la stanza. La donna non parlava ma borbottava, e aveva una faccia cosí muffita e pelosa che Amelia le rideva sotto il naso.


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