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capitolo vi. 197


— Quattro.... o sei! — continuava a digrignare fra i denti il Faina — alla prima mi passa da parte a parte... Io non mi batto... non mi voglio battere... Sono un vile.... datemi del poltrone, non me ne importa un accidente....

E qui un profluvio di altre parole turpemente smaniose.

Il Luridi, tuttochè luridissimo fosse, stomacato della abiezione di costui, gli ordinò con mal piglio di tacere, e quindi s’incamminava verso i secondi di Omobono per tentare di mettere uno empiastro qualunque sopra tanta bruttezza. Di vero, chiesta ed impetrata nuova conferenza, propose che i duellanti si toccassero la mano, e così s’intendesse senza altro da entrambe le parti rimessa ogni ingiuria: venne scartato il partito; allora il Lurìdi uscì fuori con un’altra composizione; lasciassero andare il Faina pei fatti suoi, e chi ha avuto ha avuto.

— Che sono tutte queste giammengole? — proruppe il colonnello con una faccia, che parea Longino. — Qui non si fila, nè si tesse; voi sapete il debito vostro, o costringete il vostro primo a battersi, od uno di voi, o, so volete, ambedue, padrini del Faina, disponetevi a battervi con noi altri, padrini di Omobono.... a meno che, come già vi dichiarai, il querelante non sottoscriva senza tanti gingilli la scusa che io vi lessi.

— E non cred’ella, signor marchese, nella sua ge-