Il secolo che muore/Capitolo V

Capitolo V

../Capitolo IV ../Capitolo VI IncludiIntestazione 17 giugno 2022 75% Da definire

Capitolo IV Capitolo VI

[p. 145 modifica]

Capitolo V.

IL SUOCERO.

 Grande
L'ombra è del trono per coprir delitti

dice Aristodemo, che fu re, ed ebbe il cuore peloso1 e tuttavia l’ombra della ricchezza cuopre anco di più, e non importa che la sia vera; basta ancora supposta. Però gli uomini blandiscono la ricchezza, ed all’opposto detestano il ricco e lo insidiano. La ricchezza sta col ricco come la autorità col principe: tenta il banchiere schiantare il banchiere, ma impiccherebbe chiunque toglie la riputazione alle banche; un principe s’ingegna rapire all’altro principe comando, quattrini e sbirri; ma per pigliarseli per sè: quindi non intorno al ricco, bensì intorno alla ricchezza stanno i famelici inetti, i quali col [p. 146 modifica] muso in su aspettano che dalla sua mensa caschi qualche briciola, per divorarla a muso in giù: amici della ricchezza, non del ricco, gli sparvierati che gli aliano attorno per arraffargliela di un tratto: men tristi amici (che migliori non si potrebbe dire) sperimenta il ricco coloro che tengono dimestichezza con lui per astiarlo o per denigrarlo, studiosi di godere i vantaggi che ricavano da cotesta frequenza e ad un punto non iscapitarne di reputazione. Di qui la ragione del subito abbandono dei potenti e dei ricchi, traditi dalla fortuna; e siccome i principi e i ricchi lo sanno, così si agguantano più forte che possono ai quattrini ed agli sbirri; molto più che ai tempi che corrono, ricchezza e signoria patiscono di marea, e chi le serba fino al termine della vita può vantarsi di rinnovare il miracolo di Tucria vestale, che portò il vaglio pieno di acqua attinta al Tevere fino al tempio di Vesta2. Se la gente sapesse le ansietà, le abiezioni, i pelaghi e i delitti di questi invidiati potenti; oh! come sentirebbe per loro compassione o ribrezzo, per sè compiacenza della vita onesta e della temperanza civile. [p. 147 modifica]

Entriamo nello studio di Omobono: mirate, due volte la settimana ei passa la notte intera a registrare su certi libri arcani una quantità di note segnate sopra fogli volanti; avvertito che egli cavò questi libri da una cantera praticata sotto la cassetta che serve di serbatoio di legna da ardere, accanto al camminetto ammannito con frasche e legna secche a levare m un attimo un magnifico falò. Ci fu un tempo in cui la penna di Omobono volava scrivendo su cotesti registri, e all’atto dello scrivere assentiva col capo e tutta la persona, mentre stirava la bocca verso le orecchie come borsa che si allarghi per ingollare monete: cotesto allargamento di labbra era il sorriso di Omobono. Adesso poi pare che la gotta gli abbia rattrappito le mani; di tanto in tanto caccia fuori un sospiro da disgradarne il soffio del mantice di un magnano: è inverno, è fréddo, è notte, ma egli suda come di agosto, e le gocce gli cascano giù dalla fronte a quattro a quattro; lì presso, osservate cotesta catinella piena di acqua fredda, ecco egli vi tufia la spugna che poi si mette sul cranio calvo per temperare la vampa del corvello. L’ultima volta che Omobono ebbe a tribolarsi in cotesta disciplina parve rimanerne sgomento più del solito, onde, lasciate cadere sul banco ambedue le braccia, ci posò in mezzo il capo e lungamente rimase in cotesto atto; poi lo rialzò scotendolo tre volte o quattro, se lo rinfrescò con la [p. 148 modifica] spugna e scosse forte un cordone levando la faccia in su.

Indi in breve fu udito un lieve rumore nel sof fitto; lo avrebbe mosso più forte un topo entrando in dispensa, e poco dopo aperto cheto cheto l’uscio della stanza comparve la lancia spezzata, il cagnotto, l’anima dannata, o come meglio si deva dire, di Omobono; imperciocchè come la cosa avvenga io non lo saprei, ma il fatto sta che le anime male non nascono mai sole nel mondo, bensì si trovino quasi sempre doppie come le mandorle dentro al nocciolo, una più grande, l’altra più piccina; così col carnefice viene al mondo il sotto-boia, e.... ma basta; allo inferno ed alla tristizie umana non si conobbe mai il fondo. Dopo Omobono veniva il suo commesso Gavino Nassoli: costui par di metallo tirato con la lima; se poeta, o pittore l’avessero a descrivere o a dipingere, butterebbero fuori di finestra penna e pennelli: la sua faccia è tutta denti, dai lati della berretta di cuoio gli si drizzano gli orecchi appuntati pari a quelli di un cane da fermo, a cavallo del naso gli stanno le lenti tonde e grandi quanto due scudi, traverso le quali, incavate dentro spessi cristalli di rocca a cagione della molta miopia dell’uomo, ti apparivano i suoi occhi piccini piccini, come lontani un miglio: allorchè costui gli accosta ignudi di occhiali a foglio scritto sembra che piuttosto di leggere i numeri (dacchè egli dai [p. 149 modifica] numeri infuori non legga altro) li voglia brucare a mo’ che le capre costumano le foglie di sulle sipi. Omobono, appena lo vide, gli disse:

— Fatevi in qua, Nassoli; sedetemi accanto; avete chiuso bene l’uscio? Sì, ma non tirato la portiera; andate a tirarla.

Dopo ciò incominciarono un colloquio a voce sommessa: pareva si confessassero; e, come sovente avviene, i confessori peccatori ambedue. Il Nassoli di tanto in tanto poneva il dito su i libri arcani a mo’ che l’anatomista fa col coltello sul cadavere che gli sta davanti; e per certo doveva credere il suo atto di cerusico, perchè, conchiudendo il colloquio, e levando alquanto la voce in suono di miserere, disse:

— Caro mio, il morto è sulla bara: senza rincalzi straordinari non si può reggere. non vede, che sia benedetto! credito mobiliare, transatlantico, banco sete, meridionali, rendita.... tutto fa acqua, e le trombe non bastano.

— Provvederemo — rispose Omobono, chiudendo i libri; tornate a dormire.

Ma non andò mica a dormire Omobono, il quale uscito di casa per mezzo di una porta segreta stette fuori fin verso le cinque del mattino. Dopo circa un mese la cassa del Banco si riempi di enorme quantità di biglietti di varie banche così italiane come estere, di che preso subito fumo il Nassoli, [p. 150 modifica] il quale per malizia avrebbe dato tre punti ad un questore, quando si ridusse in camera a dormire se ne portò un fascio, dove a tutto bell’agio, accese prima due candele, se li fregò lungamentė traverso le palpebre: fatta e rinnovata la prova si condusse con la solita precauzione, nella stanza da letto di Omobono, e quivi susurrò insieme con lui un secondo colloquio; però le voci sommesse non escludevano i gesti risentiti, e per quanto Omobono insistesse, il Nassoli pareva duro a non lasciarsi persuadere; all’ultimo Omobono scappò fuori con queste parole:

— Lo vedo anch’io, la galera bisogna che voghi con altri remi.

— Non ci è che dire — ripetè il Nassoli bisogna che con altri remi voghi la galera.

— Chi è che ha parlato di galera?

— Galera ha detto lei, ed io ho approvato.

Di un tratto cascò e sbalzò Omobono in casa del suo genero a Torino, onestando la sua comparsa con dieci pretesti uno più plausibile dell’altro, e veruno era vero; ci si trattenne due giorni nei quali non rifinì mai di ragionare delle faccende domestiche dei suoi figliuoli, che tanto gli stavano a cuore, e dimostrava loro come dovessero partirsi da Torino per venire a Milano; a Torino non tenerli parenti, nè amicizie vecchie, nè sostanze, nè traffici, nè [p. 151 modifica] affezione di luogo natio: colà gli sarebbe riuscito più destro incamminare i nipotini ormai adulti, il maggiore avrebbe tolto seco, secondo la promessa, per iniziarlo nella banca dove aveva a succedergli.

— Voi lo vedete — proseguiva costui — il patrimonio non basta a dotare le figliuole e a sopperire al comodo sostentamento dei figliuoli; certo voi con diligenza in molte cose li avete fatti educare, ma quello che importa adesso sta nello applicarli ad una professione speciale: consulteremo il genio di ognuno; intanto Omobono fin d’ora è banchiere. Capisco che un di erederanno il mio e basterà per tutti e ce neo potrà avanzare, anzi ce ne avanzerà di corto: però la fortuna muta, ed ancorchè non mutasse, prudenza insegna reggerci sopra le nostre gambe.

E continuava di questo tenore tanto, che a ridire tutte lo sue ragioni si sarebbe spento il lume.

Marcello nonostante la ipressa che il suocero gli metteva dintorno, chiese tempo a riflettere; nè ci fu verso di fargli mutare di proposito.

Però, egli è pur forza confessarlo, la raccomandazione iìn articulo mortis dello zio Orazio, di non confidare a verun patto mai i propri figliuoli ad Omobono, se non dileguata del tutto, certo erasi di molto infievolita nell’animo di Marcello. Gli avvertimenti paterni nello spirito dei figli rassomigliano assai alla voce lanciata dentro una grotta; [p. 152 modifica] l’eco ve la. ripete cinque volte e sei, di mano in mano più languida, finche cessi del tutto: di qualunque umano retaggio troviamo essere il meno trasmissibile la esperienza: ogni uomo deve assistere personalmente alle lezioni di lei: costano care, ma, a detta del Franklin, sono le sole che valgano a mettere a partito anco il cervello dei matti.

E poi non quietava un momento da serpentarilo la consorte Isabella, dicendole fra le altre cose: nel padre suo entrare troppo più dello strano, che del tristo; certo la cupidità di lui immane, ma in fine dei conti a chi avrebbe ella giovato se non ai loro figliuoli? E pur troppo non si poteva negare cresciuta la famiglia oltre il bisogno; e volendo dare dote alle femmine e recapito convenevole ai maschi, educazione splendida a tutti, le forze proprie non bastavano a tanto. Dio guardi che ella avesse a seguire lo esempio dello imperatore Vespasiano, che, messa sotto al naso di Tito la moneta cavata dalla tassa sui pisciatoi gli domandò se di malo odore putisse: ma caso mai non tutti lodevoli fossero i guadagni paterni, eglino redandone la sostanze avrebbero potuto a luogo e tempo riparare il danno agli offesi, e restituire ad un punto la buona fama al parente.

Pende incerto se sia più mordente lima la ragione in mano alla donna, o se la donna in mano alla ragione: fatto sta che quando si legano insieme [p. 153 modifica] nessuho riparo ci può fare la gente. Che se volessimo addentrarci di più nel cuore d’Isabella avremmo a dire che il suo cuore, come quello delle altre creature umane era un laberinto; nè per ogni laberinto si trova un’Arianna, la quale porga il filo per uscirne a salvamento: forse in lei spirò un fiato di orgoglio, che alla casa sua, più che a quella del marito, i figliuoli dovessero il signorile stato; forse il presagio di accomodare in alto loco le figlie, e la speranza di udire benedetti i figli pel buon uso della eredata opulenza l’abbarbagliarono: donna ella era e madre, e noi sappiamo che il diavolo quando vuole tentare i santi piglia faccia di angiolo. Insomma Marcello, sgombrata finalmente Torino, portava i suoi penati a Milano.

Il giovane Omobono di subito accomodato nel Banco dell’avo, da prima compite le sue faccende si riduceva nella casa patema; indi a breve ci tornò più di rado, ora trattenuto a pranzo dal nonno, ed ora pei cresciuti negozi, sicchè terminò col porre stanza ferma presso il banchiere Omobono. Quivi il giovane trovò non solo agio, bensì ancora lusso ed eleganza, e se ne compiacque; servi a lui solo destinati; e di presente l’avo gli assegnò lire mille al mese, avvisandolo che se di più gliene fossero occorse non mancasse di farglielo sapere. Di subito parve l’avo gli mettesse addosso uno amore sviscerato

se ne dimostrava arcicontento; con chiunque [p. 154 modifica]

ne parlasse (e ne parlava con moltissimi) non rifiniva mai di levarlo alle stelle; e a dire il vero non senza ragione, chè il giovane si mostrava stupenda mente perito nell’arte dei numeri, come quello, che con amore pari al profitto aveva studiato nella Reale Accademia di Torino. Ogni azione del giovane pareva tirata a filo di sinopia; esatto, accurato, non si stancava mai; il lavoro gli serviva di alimento.

Oltre queste doti, altre e più pregevoli di mente e di cuore possedeva il giovane, di cui lo zio cortese disegnò fare capitale: ritraendo non poco dalla sorella Eponina si poteva dire bello, però alquanto più pallido e più pensoso di lei; di rado lo guance e i labbri gli allietavano una sfumatura di vermiglio e di riso: poco parlante, di voce soave, modesto e servizievole quanto altri mai: accadeva con lui cóme sovente succede con le persone simpatiche, voglio dire che, quantunque ci si parino la prima volta davanti, pure le ti paiono conoscenze vecchie. Aggiungi modi gentileschi, un zinzino contegnosi co’ superiori, ma affabilissimi cogli inferiori. Presentato in parecchi ritrovi, ben presto strinse amicizia coi giovani più eleganti della città: dai babbi accolto volentieri, dalle mamme anco più; per lo ragazze non ora venuto anche il tempo: in una parola la sua curva ascendentale pel cielo della buona società procedeva pari a quella della luna pel [p. 155 modifica] mamento, nelle belle notti di maggio, placida o serena; le nuvole vorranno più tardi.

A mantenerlo in questo apogeo di gloria valsero alcune avventure, che mi occorre raccontare nella guisa che mi riuscirà meglio succinta. Certa sera al ritrovo, che con parola inglese chiamano i, sebbene ei fosse vago del gioco come il cane delle mazze, pure per non comparire tigna, gittò una magnanima moneta di cento franchi, con la magnanima effigie del magnanimo Carlo Alberto, sopra una carta del Faraone; nò più pensandoci s’imbrancò nella compagnia di piacevoli gentiluomini pigliando diletto dei loro ragionamenti. La carta puntata vinse una, due, tre volte e sempre; ormai la copriva un mucchio d’oro, e i cupidi giocatori, pure stringendosi alla vista della carta fortunata, smaniavano conoscere il giocatore che. improvvido o temerario, non sodisfatto di tanto favore, intendeva sperimentare le ultimo prove. Molti occhi dei seduti intorno alla tavola stavano fitti negli occhi del banchiere, il quale sudava per la pena, dacchè forse, e senza forse, cotesta insistente e nemica guardatura lo impedisse di pigliare ad un tratto la fortuna per gli orecchi e rimetterla in carreggiata a favor suo, ovvero scemare il banco facendo scomparire la moneta di tavola: chiusa allo scampo ogni via: duello al l’americana cotesto: e’ bisognò sbancare. Il banchiere ora tedesco, barone e cavaliere non so nè manco [p. 156 modifica] io di quanti ordini: uso a tenere banco nei ridotti di parecchi famosi Bagni di Europa, o solo o in compagnia di altri baroni quanto lui, o più di lui, non gli era occorsa mai disdetta pari a quella di cotesta sera: vuolsi però aggiungere, che ne manco erasi trovato mai sottoposto a vigilanza come cotesta sera. Forse la fortuna sentendosi libera di fare a modo suo intese vendicare in una volta ben mille offese: breve, il banchiere rimase sbancato: per conforto lo stropicciarono co’ pettini da lino, per viatico gli diedero un bicchier di acqua fresca, e con inestimabile contentezza di tutta la brigata lo accompagnarono a casa più morto che vivo.

— Ma chi ha vinto? Chi è il vincitore? Su via si manifesti per potercene rallegrare con esso. — Così strepitavano da più lati, e tale levarono schiamazzo, che Omobono fu alfine costretto a porgere loro attenzione: udito il caso, placidamente favellò:

— La carta è mia.

E rinvenuto vero, i compagni gli si misero dintorno, astiandolo di sotto al panciotto, e di sopra accarezzandolo a rotta di collo: ma egli a ciò non badando, attese a raccogliere molto diligentemente la moneta, la quale noverata trovò sommare a parecchie migliaia di lire. Allora, senza rimoverla dalla tavola, vòlto ai circostanti con lieto viso li interrogò

[p. 157 modifica]

— Ed ora, che cosa abbiamo a fare di questa moneta?

E gli altri: — E come entriamo noi nei fatti tuoi? Tu l’hai vinta e tu goditela.

— No, non ha da esser così, — riprese Omobono — la farina del diavolo, dicono, che va in crusca; miriamo un po’ se fra tutti noi troviamo maniera da cavarne un pane. Orsù, ognuno di voi dica la sua.

— Per me, — saltò su a parlare il cavaliere Faina, scrittore di un giornale malignamente buffone, noleggiato dagli sguatteri di Corte, e che però si chiamava pubblicista per la medesima ragione per cui le femmine di partito si dicono pubbliche — fonderei o piuttosto sussidierei un giornale, bene intesi del nostro partito.

Voi vedete da per voi quali orribili sdruci faccia ogni dì la demagogia nel consorzio civile; ad ogni passo aumenta di forze: vires acquirit eundo, giornali, e giornaletti pullulano su in maggior copia dei ranocchi quando piove in estate. Voi beneficati dalla fortuna avete a perdere più degli altri, legatevi pertanto, e con maggior concerto di quello che abbiate fatto fin qui: la marea monta; o che attendete per ripararvi, che ella vi sia arrivata alla gola? Noi pubblicisti mettiamo veglie, ingegno, opera e pericolo, voi opulenti ponete un po’ del vostro superfluo per salvare il [p. 158 modifica] necessarlo: noi staremo sopra la breccia a combattere fino all’ultimo fiato, ma voi somministrateci le munizioni per durare nella battaglia.

— E i danari per giocare. Quanto hai perduto stasera al Faraone, pubblicista Faina? — si fece sentire una voce, ma prima che costui avesse potuto conoscere da cui si fosse partita, un’altra disse:

— Per me la impiegherei a celebrare tante messe pontificali nell’osteria

— No, marchese, meglio alla campagna, ci si mangia di migliore appetito.

— Accetto l’emenda, conte.

— O che le feste di ballo, hanno ad essere del tutto bandite? Badate allo scomuniche delle figliuole di Eva — osservava un vecchio peccatore, il quale per cagione di certe infermità, che si guariscono poco, e non si dicono punto, calzava scarpe di panno.

— Giovanotti, udite un mio consiglio — levata la destra favellò solennemente un senatore sgranato di fresco — che so di certo tornerà a tutti gradito, io per me destinerei cotesta somma a celebrare in questo anno con magnificenza straordinaria il giorno onomastico di S. M. il Re d’Italia: ed in memoria del fatto porrei una tavola marmorea sopra le pareti di questa sala, e.....

— Come non si hanno a mangiare e bere, per [p. 159 modifica] me sto a rifornire il Club di mobili e di tappeti nuovi — interruppe il devoto di Como.3

— Ed io propongo sovvenire il capocomico dell’Arena, perchè dia al popolo un corso di recite gratis, a patto che le sieno scelte per educarlo nel rispetto della proprietà e di noi altri nobili — disse un cavaliere, spiantato, protettore della prima donna che recitava all’Arena.

— Tutta roba buona, signori miei, tutte pensate d’oro; certo non sarebbe alle vostre proposte che si potrebbe applicare il proverbio dei polli di mercato: tuttavolta, con vostra licenza.... se me lo permetteste, ecco che cosa farei. — Narsete, — chiamò Oniobono (che tale avea nome il custode del ridotto) e gli disse: — da questa somma, che io vi consegno, caverete lire cinquecento, e le verserete alla cassa di risparmio in testa della vostra bambina Lucia, perchè le servano come un principio di dote; domani me ne mostrerete il libretto. Delle rimanenti, mezze porterete all’ufficio della Società [p. 160 modifica] Operaia, e mezze a quello degli Asili infantili a nome del nostro Club come una debole offerta fatta da tutti i gentiluomini che lo compongono, e non se ne parli più. Miei signori, io mi sono accorto, che voi parlavate per provarmi, e poi mi avreste dato la baia; ho letto nei vostri cuori, e pongo pegno avere letto bene. Quanto a lei cavaliere Faina — soggiunse volgendosi al pubblicista — la non si confonda, il modo praticato da me giova meglio di un milione di giornali, che il popolo non sa o non può leggere, a insinuargli il rispetto alle persone ed alle sostanze nostre: chè egli più che non si crede compensa con infinita gratitudine un briciolo di bene ed anco di buon viso che noi gli facciamo: d’altronde io, e se non m’inganno anch’ella, signor cavaliere, appartenendo al popolo, è naturale che nutriamo per lui simili sentimenti, e c’industriamo persuaderli anche agli altri.

— Magnificenza di parole tonde! Ma sa ella, che se non modera l’abbrivo mi diventa di punto in bianco un san Crisostomo, aliter Bocca di oro? — esclamò il pubblicista Faina, allargando la bocca verso le orecchie: voleva ridere e parve lo avessero comunicato con una fetta di limone.

A cose nuove uomini nuovi predicano da mezzogiorno a tramontana, e i giornalisti sono novissimi, però mi raccomando spesso a Dio, che la più parte di loro non invecchi: per ordinario tu li sperimenti [p. 161 modifica] leggeri, pedanti e presuntuosi, e ciò per virtù degli scapestrati giudizi che ti spippolano lì per lì a occhio e croce, e per lo ufficio, che si pigliano di fare da aguzzini agli uomini politici, e da amostanti alle nazioni della terra: tuttavia non sarebbe giusto affermare che tutti sieno tristi, e ciò perchè taluni professano di buona fede i principii che sostengono, ed in tali altri, essendo peranche giovani, la natura non fu vinta dal costmne; quelli però che si appellano umoristi, e fanno mestieri di buffoni, tieni addirittura per maligni: i ghiottoni si sono surrogati nella convivenza civile ai giullari di corte, i quali campavano di rilievi e di calci; siccome all’uomo che ride di Vittore Hugo avevano foggiato, per via di terribili cincischi, la faccia a perpetuo riso, così la nequizia deformò lo spirito del giornalista buffone alla rabbia dello scherno. O sia che costui privo d’amore e di sdegno contempli senza commoversi tanto gli eccelsi quanto i brutti fatti, o sia, che invaso da itterizia morale tutto asti e derida, vuoisi reputare sempre sozzo animale. Per me giudico i giornali umoristi addirittura postriboli dovo bordollano le arti divine: della miseria della scrittura non tocco nemmeno, ma vi domando se vedeste mai della nobilissima arte del disegno menare scempio più miserabile di quello che si faccia in coteste carte? Poni per sicuro che il popolo dove più cestisce cotesta mala [p. 162 modifica] pianta od è insanabile affatto nella sua corruzione, o si trova lontanissimo dalla norma del vivere onesto. E se vinto lo schifo tu ti accosterai a considerare i menanti di quelle gazzette, troverai come la più parte di loro sia gente di scarriera, senza arte nè parte; arcatori da disgradarne i Parti di frecciatrice memoria; leccano e sgraffiano: fabbricanti di chiodi più che tutti i chiodaioli di Pistoia.

Adesso vi dirò le generazioni le quali forniscono principalmente le reclute della vituperosa milizia: i medici fuggiti più della moria si convertono in giornalisti buffoni; i cerusichi, che non seppero cavare sangue senza stroppiare un uomo, giornalisti; i curiali, terrore dei clienti e cilizio dei giudici, giornalisti; il padre diviso dalla figlia per sospetto di libidine snaturata, giornalista; il marito cui tolsero la moglie por salvarla da traffico infame, giornalista; spio austriache che impararono dall’aquila, che servivano a divorare da due becchi; repubblicani, che sostennero la dignità del carcere fino col rubare l’olio del pubblico; garibaldini strenui espugnatori della cassa militare, tutti giornalisti buffoni, incliti sostenitori a capriole della monarchia costituzionale. — Uffici di giornali, magazzini di anime a nolo, come di vestiti da maschera. Quante fette vuoi di coscienza? Te le taglieranno sottili da disgradarne ogni fedele salsamentario fiorentino. [p. 163 modifica] che andate cercando fuori di voi le cause del miasmo? Vi avete dentro lo avello.

Corrono ormai anni ben molti che noi flagelliamo queste infamie, e ce ne seppero malgrado anche i nostri amici facili ad accendersi al primo dispetto delle cose, e ci dicevano: essere la stampa l’arca dell’alleanza; chi la tocca muore; e la esaltavano per le virtù, che avrebbe dovuto avere, chiudendo gli occhi al fastidio che la rodeva fino all’osso; e così del pari della milizia, della magistratura, del sacerdozio, presidio un dì, oggi flagello. E certo io non sarei per acconsentire giammai, che mano straniera pigliasse a maneggiarmi la stampa: anco gli sparvieri coprono gli artigli co’ guanti bianchi, anzi oggi principalmente gli sparvieri; ma perchè ella non pensa da se medesima a riformarsi? piuttosto perchè non esercitano i cittadini rigido sindacato non solo sopra i giornalisti, ma altresì su quelli, che si versano nelle faccende politiche? Chi sei? Donde vieni? Quali i tuoi intendimenti? Quale la vita? Le opere quali? Come campi?

Nella vita privata non si deve entrare; all’opposto mi preme entrarci e ci entro. Deploro accettate nella società nostra certe regole, le quali affermano persuase dalla onestà ed invece giunsero a cacciarvele dentro i furfanti, necessitosi di avere una cappa comune con la gente dabbene: ogni uomo è galantuomo in abito nero e in guanti bianchi, tanto [p. 164 modifica] ai funerali quanto ai festini; e la gente dabbene si è lasciata fare. Il pensiero ci fa sudare come il piumino sul letto nel mese di luglio; così vero questo che paghiamo i giornalisti onde ogni giorno ci mandino a casa un pensiero bello e fatto, strambo, o no, poco monta, purchè ci ciottoli nel cranio, e ci suoni come il soldo nel bussolo al cieco, tanto, che paia non averlo vuoto. Slegate dunque i fasci delle bacchette, e tirato giù a scamatare di santa ragione deputati, senatori, ministri e sopratutto i giornalisti, finchè dalle loro giubbe esca fino l’ultimo scrupolo di polvere, per esaminare un po’ di che qualità ella sia. Anco a rischio di apparire sazievole, io lo vo’ ridire; tu non puoi essere ribaldo in casa e probo in curia. Senza libera accusa virtù pubblica non prova: accusa non provata puniscasi come calunnia; va bene, ma nei liberi reggimenti sia concesso, anzi sia lodato guardare in faccia un uomo e dire ai cittadini: badate costui è barattiere!

Popolo e patria e’ sono sonaglioli che si attaccano ai muli per richiamare l’attenzione di cui passa; non date retta alla moltiplicità dei partiti, che si dimenano nei Parlamenti: i partiti si ristringono a due; quello che si è aggrappato alla pentola come Aiace Oileo allo scoglio, e l’altro che spasima di supplantarlo, però chi s’impanca guidaiolo non bada a qualità, cerca il numero; onde ti [p. 165 modifica] viene sovente trovarti con maraviglia e con ribrezzo a lato di tale che tu avevi diritto di non patire per collega se non quando per crimini la giustizia ti avesse condannato in galera.

Perano tutte le disuguaglianze fra gli uomini, eccetto quella fra gli onesti e i furfanti.

Ma intanto che questo è di là da venire, perchè sopporti in casa i giornalisti scimmiotti? Perchè siedono alla tua mensa? Perchè gli inviti alle tue veglie?

Tu ti liberi in grazia di polveri insetticide dalla improntitudine delle mosche, dal fastidio delle zanzare, dalle trafitture delle cimici, e liberarti dai giornalisti scimmiotti4 non puoi? — Non puoi, perchè non vuoi; e non vuoi perchè essi dilettano il peggiore dei vizi che guasta la parte femminina di casa tua, vo’ diro la smania di malignare alle spalle altrui, e tu pure ci ridi.

Il giornalista umoristico, giullare in corte, sicario con la penna in piazza, panegirista di bellezze di rado vere e, se fabbricate, anche più, flamine delle foggie del vestire, storico delle pettinature. Mercurio di amori a levante e a ponente, [p. 166 modifica] il giornalista giullare è diventato la trichina5 della società.

Il cavaliere Faina giornalista buffone, deluso nella speranza che parte della vincita fatta da Omofono scendesse, come rugiada al cespite dell’erba inaridita, a rinfrescargli la tasca, e parendogli per giunta essere stato scorbacchiato da lui, non si potè tenere da sfogare il suo maltalento schizzandogli addosso il suo veleno: lì pronto il giornale, e la occasione fa l’uomo ladro; quindi prese a straziarlo di straforo con motteggi quanto perfidi altrettanto calunniosi: menò la frusta in tondo contro il nonno, il padre e la madre, massime contro questa alterando taluno episodio della onestissima avventura del suo matrimonio con Marcello. Omobono, come colui che, eccetto la Gazzetta di Milano, non leggeva giornali, non si dava per inteso di tutto quel tramestio del cavaliere Faina, con inestimabile stizza di questo, che vieppiù giudicavasi disprezzato da Omobono, e con la stizza e la fiducia dell’impunità gli crebbe la insolenza, sicchè ormai passava il segno; eppure non gli bastando la scrittura commise la sua rabbia al disegno.

La litografia che comparve nel giornale rappresentava una di cotesto chiatte, le quali dal servizio che prestano nei porti pigliano nome di cavafanghi: [p. 167 modifica] per esse si cala giù a fittone una cucchiara di ferro dentata, col mezzo di catene, la quale quando è piena di molticcio, per via delle medesime catene dipanate sopra una ruota si riporta a fior d’acqua; parecchi uomini pongono in giro la ruota, camminandoci dentro a modo che si salgono le scale, e ciò in virtù di traverse su le quali mettono i piedi: prepongonsi a questo travaglio i condannati alla galera; ora fra i galeotti a girare si vedevano tratteggiati Omobono nomnno ed Omobono nipote, uno sopra, l’altro sotto, con la leggenda: Rinforzo alla vecchiezza.

Dobbiamo confessarlo a lode del vero, di quanti videro a Milano la infame litografìa non ci fu alcuno che non la vituperasse, e non ne rimanesse altamente indignato. Gli amici del giovane Omobono si ristrinsero insieme per concertarsi su quello che si avesse a fare; intanto di comune accordo bandirono il cav. Faina dal Club; poi a Ludovico Anafesti, il quale fra gli altri giovani pareva che prediligesse, commisero di tastare un po’ l’amico intorno le disposizioni dell’animo suo. Di fatti era così; appena Omobono e Ludovico si erano conosciuti, uno s’innamorò dell’altro, secondo il comune della gioventù, che subito accende e subito spegne amicizie e fiammiferi: però talune durano, e questa pareva volere essere di quelle. Pertanto, senza porre tempo fra mezzo, che in queste materie lo indugio [p. 168 modifica] piglia vizio, Ludovico si reca da Omobono, cui, avendo trovato affatto inconscio della persecuzione del giullare giornalista, cerziorò per filo e per segno, mettendogli per ultimo sott’occhio la litografia, che chiamano caricatura. Omobono lesse e considerò i giornali; un lieve pallore passò come ombra sopra le sue guancie, poi piegati con pacatezza i giornali, Ludovico annuente, se li ripose in tasca.

— Ed ora che pesci abbiamo a pigliare con cotesto mascalzone?

— Ma.... lascio deciderlo a te; — rispose Ludovico — intanto sappi che i tuoi amici hanno fatto il debito loro, cacciando via dal Club cotesto cattivo soggetto.

— Sarebbe stato meglio non ammetterlo mai. Adesso che lo abbiamo accolto, e sopportato in nostra compagnia, sarebbe mestieri trattarlo da gentiluomo dabbene, e a questo modo operando non lavo lui e mi insudicio io.... e questo vedi, non è il più grave dei malanni, che ci porti la usanza dei ribaldi. Basta ci penserò: ci rivedremo stasera al teatro.

— Bada, stasera vado alla Scala; ci è opera nuova; ne dicono mirabilia; puoi figurarti che piena!

— E ci è caso incontrarci il cavaliere Faina.

— Anzi di sicuro, perchè egli scrive la cronaca teatrale in parecchi giornali, e mi hanno assicurato, che talvolta nel medesimo giorno ha levato a cielo [p. 169 modifica] messo allo inferno la medesima cantante, secondo che lo pagavano i suoi protettori o i suoi malevoli.

— Me ne dispiace, perchè io sono uomo di pace, e non vorrei che nascessero scandali — disse Omobono con taccia e voce mansuete.

— Oh! quanto a questo sta di buon’animo, che io ed i tuoi amici ci troveremo lì, e provvederemo al bisogno.

I due amici si strinsero le mani, e si dissero addio. Ma le ultime parole di Omobono erano rimaste come mia lisca in gola a Ludovico, molto più che per le nequizie del Faina non lo aveva veduto andare nei mazzi come pure si aspettava; sicchè un pensiero molesto prese a trottargli per la testa: sarebbe vile Omobono?




Note

  1. Plin., Ist. mundi, I, II e 70.
  2. Valerio Mas., l. 8, 1, 5., Santo Agostino, Civ. Dei, nega il miracolo: non gli date retta; ei lo fa per gelosia di mestiere. O che voleva egli che i soli santi della Chiesa cattolica apostolica romana fossero capaci ad operare miracoli? Arrogi che la casa Crivelli tolse per arme gentilizia il vaglio di Tucria, affermandosi scesa dal figlio che la vestale, mercè il miracolo dell’acqua nel vaglio, provò di non avere partorito!
  3. Como, nella religione precedente alla nostra, era il dio dei desinari. Se si fosse trattato della nostra santa religione cattolica apostolica romana, avrei creduto fare ingiuria al devoto lettore, se ricordando vin santo lo avessi avvertito delle sue giurisdizioni e prerogative, così nominato san Gaetano, non avrei detto, che egli era il padre della divina frovvidenza; san Niccola, protettore dei ladri; sant’Ivone, degli avvocati; san Pasquale Baylon, dei cuochi e via discorrendo; ma trattandosi di una religione smessa, non ho creduto far cosa inutile avvisando che intendeva parlare di un dio, non di una città.
  4. Uno sciniiotto assai sudicio e brutto
    Imitatore delle azioni umane,
    Della bruttezza sua cogliendo il frutto,
    Fece il buffon per guadagnarsi il pane.
     Pignotti.

  5. Insetto delle carni di porco, che s’insinua nelle viscere dell’uomo e le corrode.