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capitolo vi. | 177 |
dolo, forte lo abbranca pel petto, e con impeto irresistibile
lo scaraventa contro la parete: il cavaliere
pubblicista fu visto, dimenando le braccia a
guisa di ale, correre presto presto sulle calcagna
allo indietro, finchè perduto lo equilibrio stramazzò
supino al pavimento, dove scivolando sul dorso non
si ristette se prima non ebbe battuto una sconcia
capata nel muro, con danno irrimediabile del cappello
preso a credenza, il quale gli si rincalzò fino
al mento.
Comecchè sbalordito dallo inopinato accidente, tuttavia aiutandosi con le braccia si mise subito a sedere, tentando rabbiosamente tirarsi su il cappello, ma o sia che lo facesse senza discrezione, o fosse debole la stoffa, la tesa gli si strappò nelle mani e il cilindro gli rimase sempre ficcato nel capo, e di più ardua estrazione. Fra i tanti che sghignazzavano si trovò un pietoso il quale, desiderando che cotesto strazio cessasse, si mise a cavalcione sul capo del Faina, e preso con due mani il cilindro s’industriò a cavarlo fuori; in cotesto atto ei presentava la figura del servo il quale, stretta fra le cosce la bottiglia, si sforza ad estrarne il turacciolo; sicchè quando il Faina, rimosso il cappello, tornava a rivedere le stelle, ovvero i lumi, udì dintorno queste voci di scherno commiste alle risa universali: — Non lo sturare, che altro che veleno non ne può uscire....