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192 | il secolo che muore |
— Come, colonnello, — interrogò Omobono —
dubitereste voi che egli venisse?
— Eh! caro mio, a questi lumi di luna non per nulla si è cavaliere.
Il tempo, di cui il bulimo non si attuta mai, divorato appena il venerdì, si era messo in tavola il sabato, ed a stento un po’ di bruzzo faceva capolino dalla parte di oriento, quando la carrozza, giusta il convenuto, si fermò all’uffizio del Gingillino; salirono in essa il Faina (nonostante ogni dimostrazione degli amici, carico di un fascio di spade e di sciabole avute in presto dalla questura) e i suoi padrini: prima cura del pro’ cavaliere fu abbassare le stole, e ciò fa notato anco dal cocchiere, il quale eoi capo accennò di approvare; chiuso lo sportello, via a corsa. Adesso parve al Faina, che s’ingegnava sbirciare gli oggetti dalle tendine scostate, di essere giunto alla porta, e si apponeva in questo, che ad una porta egli era, sicchè con un gran battere di cuore aspettava la fermata, la intimazione dello arresto et reliqua: pareva a lui cotesto suo tiro magnifico, come quello che lo cavava fuori dallo impiccio anco con onore agli occhi dei suoi testimoni, tenuti al buio di quella tale sua visita al questore.
— Carrozza Sagrati! — gridò il cocchiere passando di tutta corsa sotto la porta.