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172 il secolo che muore


finita dei sorrisi, o tutti agri, o tutti dolci, ovvero agrodolci e la non meno infinita famiglia degli sguardi quale foggiato a punto interrogativo e quale ad esclamativo; insomma di quanto ci aveva da essere non ci mancava nulla. Allo aspetto di tanta giocondità avresti giurato che Venere ci avesse portato non già il suo cinto, bensi sovvenuta dalle tre Grazie, una balla dei suoi suoi doni, ed ora ognuna di esse preso il pellicino ce lo scotesse fino all’ultimo vezzo. Delizie, venustà, lusinghe, allettamenti, carezze turbinavano insieme confusi, come gli atomi traverso i raggi del sole.

Tra gli spettatori primeggia il cav. Faina, messo di tutto punto; abito nero, guanti periati, panciotto bianco come la sua coscienza e cappello nuovo di zecca: ogni cosa a credenza, e così gli stivali inverniciati, e le calze, e la camicia altresì: costui coccoveggiava allungandosi, ripiegandosi, facendo lazzi, saltetti e smorfie a modo di civetta quando chiama le lodole sul vergone: questo appellava per nome, quell’altro stringeva pel braccio, a tutti dava del tu, usava ed abusava della pazienza altrui ostentando una familiarità alla quale egli non aveva certamente diritto, sfacciato come.... un giornalista sfacciato (che più in là non si può ire). Nello apogeo della sua gloria, ecco, pari allo spettro della maga di Endor al Ee Saulle, sorgergli davanti improvviso Omobono, il quale aveva potuto giungere inos-