Il castello di Otranto/Capitolo primo
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IL
CASTELLO DI OTRANTO.
STORIA GOTICA.
CAPITOLO PRIMO.
Manfredi, prencipe di Otranto, aveva un figlio, ed una figlia. Questa nominavasi Matilda, era nella età di anni diciotto, e di maravigliosa bellezza dotata. Il giovine, chiamato Corrado, già pervenuto al quintodecimo anno, dimostrava grossolano ingegno e complessione malsana, ma contuttociò venia parzialmente amato dal padre, il quale non dette mai alcun segno d’affetto a Matilda. Manfredi avea destinata al suo figlio in isposa Isabella, figliuola del marchese di Vicenza, la quale, già rimessa nelle mani del prencipe dai tutori della medesima, ritrovavasi in Otranto, a fine di celebrare le nozze, tostochè la salute cagionevole di Corrado lo concedesse. L’impazienza di Manfredi per far la ceremonia nuziale fu osservata dalla famiglia sua e dai vicini. Quei di casa, a dir vero, temendo la rigida natura di esso, non ardivano manifestar le loro differenti opinioni intorno al voler egli precipitar cotanto gl’indugj. Ippolita, di lui consorte, sopramabile gentildonna, si fece diverse volte animo a rappresentargli il pericolo di ammogliare l’unico figlio in così fresca età, atteso tantopiù il di lui infermiccio stato di salute; ma egli, invece di darle su di ciò analoga risposta, rivolgea destramente il discorso sulla di lei sterilità, per avergli partorito un solo erede. I vassalli ed i sudditi eran meno cauti in ragionare, ed attribuivano la premura di sollecitar questo maritaggio al timore che aveva il prencipe di veder adempita un’antica profezia la qual dicevasi stata fatta, cioè: “che la presente famiglia sarebbe decaduta dalla signoria e castello di Otranto, quando il vero proprietario fosse divenuto talmente grosso da non poter esservi contenuto.” Egli era assai malagevole il distrigare il senso di questa profezia, ed ancor più difficile il capire ciò che avesse da fare col matrimonio di cui trattavasi; contuttociò, malgrado l’oscurità di tale arcano, il popolo vi prestava un’intiera credenza.
Fu stabilito per gli sponsali il giorno natalizio di Corrado, e già adunata era la comitiva nella cappella del castello, ed ogni cosa in pronto per dare incominciamento alla sacra funzione, quando si accorsero che mancava Corrado. Ciò osservato da Manfredi, impaziente d’ogni benchè menomo ritardo, mandò un servo ad avvertire il giovin prencipe che venisse. Questi non erasi trattenuto neppur tanto tempo, quanto era necessario a traversare il cortile del castello per arrivare alle stanze di Corrado, allorchè tornò indietro, correndo ansante, quasi frenetico, cogli occhj stralunati, colle labbra tremanti, nè potendo articolar parola, accennò con mano il cortile, onde gli astanti soprappresi furono da subitaneo terrore e da maraviglia. La prencipessa Ippolita, sebbene ignara dell’accaduto, tocca soltanto da materna sollecitudine, si tramortì, e Manfredi men timoroso che incollerito pel differirsi delle nozze e per la stravaganza del servitore, chiesegli imperiosamente cosa fosse avvenuto, al che egli non rispose, ma seguitò ad additare il cortile; infine, dopo essere stato ripetute volte interrogato, esclamò: “oh un elmo!... che elmo!... l’elmo!”... In questo frattempo alcuni eran discesi nel cortile, da dove sentivasi un lamentoso mormorio, cagionato da sorpresa e da spavento; onde incominciando Manfredi a stare in pena di non vedere il figliuolo, andò ad informarsi in persona di ciò che poteva dar motivo a sì strana confusione. Matilda rimase a prestar soccorso alla madre, come pure Isabella non partissi per la stessa causa, ed affine di non mostrarsi troppo impaziente in riguardo allo sposo per cui, a dir vero, avea essa concepito ben poco amore.
Il primo oggetto presentatosi alla vista di Manfredi, sorprendendolo fortemente, fu buon numero de’ suoi di casa i quali sforzavansi di sollevar da terra qualche cosa che sembravagli una montagna di nere piume, ed in quella affissatosi, dubbioso di ciò che vedea, gridò bruscamente: “che fate là? Dov’è il mio figlio?”. Molte voci in un tratto risposero: “ah signore!... il principe!... il principe!... l’elmo!... l’elmo!”... Commosso dal suon doglioso con cui proferivansi tali accenti, e temendo, senza saper di che, si fece frettolosamente innanzi, ed oh! tragica vista per un padre! rimirò il figlio schiacciato, e quasi sepolto sotto un elmo smisurato cento volte più ampio di alcun altro usato mai da uom vivente, e cui faceva ombra una quantità immensa di piume nere proporzionata alla mole.
L’orrore del funesto spettacolo, il non sapersi da alcuno de’ circostanti in qual guisa fosse tale infortunio accaduto; e più ancora d’ogni altra cosa lo spaventevol fenomeno, tolsero al prencipe la parola; contuttociò stette in silenzio più lungo tempo di quello che fatto avrebbe pel solo dolore. Guardava egli fisamente ciò, desiderando di poterlo credere un sogno, e parea meno afflitto della perdita del proprio figlio, che attento a meditare la mirabil cosa la qual n’era stata cagione. Toccava l’elmo fatale, esaminandolo attento, e la sua vista non potè essere da quel prodigio rimossa, neppur dal vicino oggetto de’ sanguinosi infranti avanzi del giovin prencipe. Tutti coloro cui era ben nota la parzialità sua per Corrado, furono sorpresi per la di lui insensibilità, e rimasero quasi colpiti di fulmine per il portento dell’elmo; quindi, senza riceverne il comando, trasportarono lo sfigurato cadavere nel salone. Di più, non dimostrò Manfredi attenzion veruna alle dame rimaste nella cappella, anzi dimentico intieramente delle due infelici prencipesse, consorte e figlia, le prime parole uscite dopo lo stordimento dalla sua bocca, furon queste: “si prenda cura della prencipessa Isabella.”
I servitori allo strano comando guidati dall’affetto per la loro padrona, lo interpretarono come diretto particolarmente alla medesima, e volando ad assisterla la portaron nella camera semiviva, e nulla curantesi delle prodigiose circostanze le quali udiva narrarsi, eccettuata la morte del diletto figliuolo. Matilda, che amavala teneramente, soffogò in petto il cordoglio, ad altro non pensando, se non ad assistere e consolare l’afflitta genitrice. Isabella la quale era stata sempre trattata come figlia da Ippolita, e la riamava con grata egual tenerezza, era anch’ella assidua in prestarle soccorso, procurando nel tempo stesso di confortar Matilda cui legavala sviscerato affetto, per alleviar l’affanno qual vedea bene voler essa celare. D’altronde, sebbene non risentisse in cuore per la morte di Corrado altro moto in fuor della compassione, tuttavia non poteva a men di riflettere al proprio stato; ma non era, a dir vero, scontenta d’essere sciolta da un nodo maritale, da cui niuna felicità erasi ripromessa, sia per parte dello sposo, sia a cagione della severità di Manfredi il quale, benchè avesse lei sempre affettuosamente trattata, pure aveala non poco atterrita col suo ingiusto dimostrato rigore verso prencipesse cotanto amabili, quanto lo erano Ippolita e Matilda.
Mentre le dame accompagnavano la sventurata madre, Manfredi rimase nel cortile, sempre rimirando il malaguroso elmo, e senza far attenzione alla moltitudine che lo strano caso aveagli intorno adunata, dimandava solo laconicamente e quasi stupido, se alcuno per avventura sapea di dove là fosse caduto, ma niuno potè dargliene il menomo indizio. Tuttavia, siccome ciò sembrava esser l’unico oggetto della sua curiosità, lo divenne in breve anche degli altri tutti; ma le congetture quali ognuno facea, si consideravano, appena proposte, assurde ed improbabili, come inaudito era l’evento. Mentre perdevansi in vani ragionamenti, un contadinello abitante di un vicino casale, tratto colà dalla sparsa novella, disse, esser l’elmo prodigioso in tutto simile a quello che vedeasi nella chiesa di S. Niccola sul capo della statua di marmo nero rappresentante Alfonso il Buono, uno dei loro antichi sovrani. “Furfante! che di’ tu?” gridò Manfredi, riscuotendosi con furiosa rabbia dal suo sbalordimento, e preso il giovine per la gola: “come ardisci,” gli disse, “pronunziar queste sediziose parole; ben tu me ne pagherai il fio.” Gli spettatori capivano tanto poco la causa dell’ira del prencipe, quanto il fatto dell’elmo, e non sapean cosa pensarne; ma più d’ogni altro rimase stordito il villanello, non intendendo di che mai il prencipe si offendesse; e riflettendo fra se nulla aver fatto di male, si sviluppò dalle mani di Manfredi, benchè ciò facesse in umil atto e gentile; indi con riverenti modi i quali dimostravano timore d’aver mancato, e non ispavento, chiesegli rispettosamente in qual cosa avesse fallato. Manfredi però, in vece di rimettersi in calma al veder la di lui sommissione, divenne anzi furibondo per la fermezza colla quale, sebben decentemente, da lui erasi il giovine liberato, ordinò a’ suoi d’arrestarlo; e se gli amici invitati alle nozze non lo avessero in tal punto trattenuto, avrebbe certamente ferito di pugnale il contadino nelle lor braccia.
Durante tale altercazione, alcuni del volgo, colà presenti, eransene corsi alla chiesa contigua al castello, e tornarono indietro storditi per meraviglia, riferendo, esser l’elmo disparito dalla statua d’Alfonso. Manfredi, in udir tal novella, divenne come forsennato, e quasi cercasse su chi sfogare la rabbia in lui cagionata dal tumulto di tante affollate idee, lanciossi nuovamente sopra il contadino, strillando: “scellerato! mostro! stregone! tu lo hai fatto... sì, tu hai ucciso il mio figlio.” Allora il popolaccio, sempre di grossolana capacità, cui giovava trovare un soggetto proporzionato a’ suoi pregiudizj, sul quale rigettar potesse la cagione delle concepite spaventose idee, unissi al suo signore, ripetendo ad una voce: “sì, sì, è stato lui; costui appunto ha involato l’elmo di sopra al deposito d’Alfonso buono, ed ha con quello stritolato il nostro principino;” ed in ciò dire, non riflettevano nè alla grande sproporzione trall'elmo di marmo solito vedersi nella chiesa, e quello che aveano dinanzi agli occhj, il quale era pur d’acciaio, nè pensavano che sarebbe stato impossibile ad un giovinetto, non ancor giunto al vigesimo anno, il trattare un’armatura di sì enorme peso.
Queste popolari voci dettero da pensare a Manfredi; e foss’egli irritato per l’osservazione fatta dal contadino della somiglianza de’ due elmi, e pel timore ch’ei si ponesse perciò in istato di penetrar più addentro alla cagione del mancar quello in chiesa, o lo facesse per toglier materia a qualunque popolar cicaleccio appoggiato a così pericolosa supposizione, dichiarò con gravità, esser colui senza dubbio un negromante, e voler egli, sintantochè il tribunale ecclesiastico conoscesse della causa, ritenere il mago scoperto prigione sotto quell’elmo stesso, ordinando incontanente ai servitori di ciò eseguire, con espresso comando che nessuno ardisse portargli cibo di cui, soggiungeva egli, avrebbelo potuto l’infernale arte sua provvedere.
Invano rappresentò il giovine l’ingiustizia di tal sentenza, e gli amici di Manfredi tentarono inutilmente distoglierlo da questa barbara e precipitosa risoluzione. I più rimasero sodisfatti della decisione del signor loro la quale, avuto riguardo al timore di essi, sembrava in apparenza giustissima, poichè il mago doveva esser punito collo strumento medesimo di cui servito erasi per malfare; nè punto gli commosse la probabilità che il giovine potesse là sotto morir di fame, mentre per sicuro teneano, poter egli col mezzo della sua diabolica destrezza procacciarsi il necessario alimento.
Manfredi vide eseguir con gioia il dato comando, e postavi una sentinella con assoluta proibizione di recare al prigioniero alcuna sorta di vitto, licenziò gli amici e gli astanti, e dopo aver serrate a chiave le porte del castello, dove non volle che restasse alcuno, eccettuata la propria gente, ritirossi alle sue stanze.
Intanto, per le attente cure delle giovani prencipesse rinvenne Ippolita, e quantunque oppressa da tanto affanno, chiedeva frequenti nuove del suo consorte, ed avrebbe voluto privarsi di chi le stava intorno per mandare in di lui assistenza: ingiunse finalmente a Matilda d‘andar ella a consolare il genitore. Questa, non abbisognando di sprone per fare il proprio dovere, sebben temesse la paterna austerità, obbedì ad Ippolita, e lei teneramente ad Isabella raccomandò. Quindi, interrogati i servi ove fosse il padre, seppe, essersi ritirato nelle sue camere, vietando che a niuno fossene accordato l’ingresso, dal che Matilda inferì, ritrovarsi egli immerso nel dolore per la morte del di lei fratello, e temendo di rinnovargli il pianto colla vista dell’unica figlia, stette in forse di presentarsegli innanzi in un momento di sì grave afflizione; ma infine il filiale affetto, avvalorato dal comando materno, la incoraggì tanto da azzardarsi a contravvenire agli ordini dati dal padre, errore da essa non commesso giammai. Essendo peraltro naturalmente timida, si fermò qualche momento alla porta, e lo sentì passeggiare avanti e indietro nella sua camera con isregolati passi, lo che accrebbe il di lei timore. Era non pertanto sul punto di chieder licenza d’entrare, quando Manfredi, aperta ad un tratto la porta, nè riconoscendola da prima, atteso il barlume della vicina sera, ed il perturbamento dello spirito, domandò incollerito: “chi è là?” Matilda, tutta tremante, rispose: “son’io, mio caro padre, sono la vostra figlia.” Manfredi bruscamente arretrossi alquanto, dicendole: “andate, non vo’ figliuole, non ho bisogno di figliuole;” ed in così dire, rientrò dentro, chiudendo con rabbiosa veemenza la porta in faccia alla spaventata Matilda.
Ella troppo ben conosceva il furioso naturale del padre per farsi animo ad altro tentativo; onde, calmatasi un poco dopo il terrore di così inaspettata accoglienza, ritornossene dolente indietro, ed asciugò le lagrime per non dare nuova occasione d’affliggersi ad Ippolita la quale, domandandole con ansiosa premura dello stato di salute di Manfredi, e come tollerasse egli la fatal perdita, venne da Matilda accertata, esser lui in buona salute, e sopportar con animo forte la sua sciagura. “Ma non vuol egli,” disse la dolente Ippolita con fioca voce, “permettermi di vederlo, di pianger seco, e di versare il materno affanno in seno del mio consorte e signore? m’ingannate voi forse, o Matilda? so pure quanto ardentemente amasse Manfredi il suo figlio; e non è per lui questo un troppo duro caso a soffrire? non n’è egli rimasto oppresso?... come! voi non mi rispondete?... oimè! temo il peggio... aiutatemi a levarmi; voglio, sì, voglio vederlo; sostenetemi, ed accompagnatemi fino alla sua camera: ah! egli mi è caro anche più de’ miei figlj.” Matilda fe’ segno ad Isabella acciò procurasse distogliere Ippolita da tal proponimento, ed ambedue queste amabili donzelle faceano dolcemente violenza alla prencipessa per trattenerla e calmarla, allorchè comparve un servo il quale annunziò da parte di Manfredi ad Isabella, che il suo padrone volea immediatamente parlarle.
“A me!” esclamò Isabella. “Andate,” le disse Ippolita, sollevata alcun poco dal suo cordoglio nel vedere un messaggero dal suo consorte inviato: “andate; Manfredi non può resistere alla vista della sua addolorata famiglia e vi domanda, credendovi di noi meno alterata; ei teme l’eccesso del mio dolore; deh! consolatelo per me, cara Isabella, e ditegli in nome mio, che mi sforzerò di celare il mio turbamento per non accrescer l’affanno suo.”
Era già notte, ed il servo il quale accompagnava Isabella, portava in mano un torcetto. Manfredi passeggiava agitato nella galleria, dove giunti i suddetti, disse con impaziente rabbia al servitore: “levami davanti quel lume, e vattene.” Quindi, chiusa impetuosamente la porta, si gettò smanioso sopra una panca, e fe’ cenno ad Isabella di sedergli allato; essa tremando obbedì, ed egli in tal guisa incominciò: “Signora, vi ho mandata a cercare”... e senza più dire, rimase cheto in gran confusione. Ella accorgendosene, gli disse: “Signore”... “sì,” l’interruppe egli, “vi ho mandata a cercare per un affar di somma importanza; non piangete, nobil donzella; voi avete perduto uno sposo... ah sì, ed io ho perdute tutte le speranze della mia sventurata famiglia!... ma pure Corrado non era degno della vostra bellezza”... “Come, signore!” replicò Isabella; “non sospettate già di me a quel ch’io penso? il mio dovere, il mio affetto sarebbero stati sempre.”...“Non pensate più a lui,” soggiunse Manfredi; “egli era malsano, ed il cielo me lo ha forse tolto, acciò non fondassi la sussistenza della mia casa sopra un sì fiacco rampollo. La prosapia di Manfredi abbisogna di numerosi sostegni, e la mia sciocca parzialità per quel ragazzo mi accecò e mi rese imprudente... ma, così è meglio: spero d’aver fra pochi anni motivo di rallegrarmi della sua morte.”
Non si può con parole esprimere quanto restasse attonita Isabella. Pensò da prima aver l’affanno tolto il senno a Manfredi; indi suppose che tale strano ragionamento fosse diretto a scoprire il di lei animo, essendosi forse accorto della poca inclinazione ch’essa mostrata avea pel di lui figlio; onde in conseguenza di tale idea, così rispose: “deh! signore, non dubitate della mia tenerezza per il defunto Corrado; nel dargli la mano di sposa, il mio cuore avrebbe accompagnato un tal atto: sì, egli sarebbe stato l’unico oggetto de’ miei pensieri, e comunque di me il fato disponga, la di lui memoria mi sarà sempre cara, e rispetterò al pari de’ miei genitori e Vostra Altezza, e la virtuosa Ippolita.”... “Malvenga ad Ippolita,” gridò Manfredi, “scordatevi di lei in questo momento, siccome io me ne scordo: per dir breve, voi avete perduto uno sposo non proporzionato a’ vostri meriti ai quali, rendendo io più giustizia, invece di quell’infermo ragazzo vi darò un marito di bella età, il quale saprà meglio apprezzare la beltà vostra, e potrà da voi aspettar numerosa progenie.”... “Ah signore!” disse Isabella, “sono talmente sopraffatta dalla recente catastrofe, accaduta nella vostra famiglia, che ora pensar non posso a nuovi legami; se la buona sorte mi rendesse il padre, ed a lui piacesse di ciò comandarmi, mi rassegnerei ubbidiente al suo volere, come appunto feci allorquando promisi la mano al figlio vostro; ma sintantochè egli non torni, permettetemi di rimanere ospite presso di voi, e d’impiegare i miei tristi giorni in consolarvi, ed alleviare le afflizioni di Matilda ed Ippolita.”
“Vi ho avvertita un altra volta,” ripetè Manfredi incollerito, “di non preferire il nome di quella donna; da quì avanti dobbiamo ambedue considerarla come una persona a noi del tutto straniera; in somma, per non più tenervi in sospeso, giacchè non posso darvi il mio figlio, vi offro me stesso”... “Giusto cielo! che ascolto!” esclamò Isabella, uscita d’inganno a tale impensata proposta: “voi, signore!... voi!... il mio suocero!... il padre di Corrado!... il consorte della virtuosa e tenera Ippolita!”... “Vi ho pur detto,” interruppe Manfredi con voce autorevole, “che Ippolita non è più mia moglie, e la ripudio sin da questo momento: ella mi ha reso abbastanza infelice colla sua sterilità; il mio destino dipende dall’aver figliuoli, e mi propongo di dar principio in questa stessa notte alle mie novelle speranze;” così dicendo, strinse la fredda mano d’Isabella, rimasta semiviva per lo spavento e l’orrore. Essa diè un grido, sprigionò la mano e si slontanò. Manfredi alzossi precipitosamente per trattenerla; ma la luna che risplendeva dall’opposta finestra presentogli alla vista l’elmo fatale che si elevava fino a’ balconi, le di cui piume, scosse da ignota cagione, fluttuavano cigolando in cupo suono. Isabella, preso coraggio dalla circostanza, e niun’altra cosa maggiormente temendo, quanto l’essere da Manfredi inseguita, gridò: “fermatevi, signore...vedete! il cielo stesso si dichiara contro le empie vostre intenzioni:” “Nè il cielo, nè l’inferno avran forza d’opporsi a’ miei disegni,” disse ferocemente Manfredi, avanzandosi per afferrarla. Nel momento medesimo il ritratto del di lui avo, il quale stava appeso alla parete al di sopra della panca dove erano stati assisi, gettò un profondo affannoso sospiro e riprese fiato. Isabella, avendo le spalle voltate al quadro, non vide il movimento della persona dipinta, nè seppe figurarsi donde venisse quel gemito; ma si riscosse, dicendo a Manfredi: “avete sentito? che gemito è stato quello?” e così dicendo, aprì velocemente la porta e fuggì. Egli, incerto tral voler inseguire Isabella ormai giunta alla scala, e ’l non potere staccar gli occhj dal quadro di sopra cui vedea già muoversi l’effigie, pure avea già fatto qualche passo per raggiungerla, rivolto però sempre verso il ritratto, allorchè l’osservò distaccarsi dalla tela, e discender sul pavimento in aria melanconica e grave. “Sogno o son desto!” esclamò allora Manfredi, tornando indietro, “o congiurano i demonj stessi contro di me! parla, ombra infernale, o se pur tu sei l’avo mio, perchè mai cospiri tu ancora contro il tuo sciagurato nipote il quale a troppo caro prezzo paga”... Prima ch’ei potesse più dire, lo spettro sospirò nuovamente, e gli fe’ cenno di seguitarlo. “Guidami pure, guidami dove vuoi,” gridò Manfredi, “io verrò teco anche alla voragin d’averno.” Camminò il fantasma posatamente, ma alquanto abbattuto sino alla fine della galleria; indi entrò in una camera a man dritta. Manfredi gli teneva dietro a piccola distanza, pieno d’intera agitazione e di orrore, quantunque in suo cuor risoluto; ma nel momento in cui voleva anch’esso entrar nella stanza gli fu da mano invisibile chiusa violentemente in faccia la porta. La rabbia di non poter veder terminare quella scena, destogli in seno un furibondo coraggio, e tentò di fare in pezzi la porta co’ calci, ma trovolla resistente ad ogni sforzo; onde “giacchè l’inferno,” diss’egli, “nega di sodisfar la mia curiosità, voglio almeno usare ogni possibil mezzo affine di preservar la mia stirpe, ed Isabella non fuggirà per certo dalle mie mani.
Isabella, quantunque aver potesse bastante fermezza da opporsi a Manfredi, non ostante vinta dal terrore, corse frettolosamente per lo scalone fino a terreno, e quivi si fermò, non sapendo nè ove dirigere i passi, nè come salvarsi dalla furia del prencipe, tantopiù, non ignorando, esser chiuse le porte del castello, e trovarsi custodito da sentinelle il cortile. Suggerivale il cuore di dovere andare ad Ippolita, e prepararla al barbaro destino da cui era minacciata, ma le venne eziandio in mente che Manfredi avrebbela senza dubbio colà cercata, raddoppiando le meditate ingiurie con nuovo forsennato sdegno, senza pur lasciar campo ad ambe loro di sottrarsi al di lui pazzo furore. Pensava d’altronde, che s’ella avesse almeno per quella notte deluso l’odioso proponimento del medesimo, nata sarebbe forse una qualche favorevole circostanza, o avrebbe egli potuto anche riflettere sul reo concepito disegno. Ma dove nascondersi? come schivar le di lui perquisizioni per tutto quanto il castello! Mentre così rapidamente aggiravasi d’uno in un altro pensiero, si risovvenne, esservi un andito il quale per via sotterranea conduceva nella chiesa di S. Niccola, dove, se fosse arrivata prima di lasciarsi sopraggiugnere dal violento Manfredi, sperava bene ch’egli non avrebbe osato di profanare il santuario; e non presentandosele altro migliore spediente, risolvette d’andare a ritirarsi fralle sacre vergini in un convento contiguo alla cattedrale. Determinatasi a ciò fare, prese il lume il quale ardeva appiè della scala, ed inviossi frettolosamente per quel cammino.
I sotterranei del castello eran distribuiti in diverse stanze a volta irregolarmente disposte, perlochè rendeasi difficile ad una persona di animo turbato, qual’era Isabella, il rinvenire quella appunto per cui passar doveva. Regnava in quest’orrido luogo uno spaventoso silenzio, interrotto solo dal vento da cui erano di quando in quando sbattute le imposte degli uscj per dove era passata, ed il cigolio degli arrugginiti cardini echeggiava per quel lungo tenebroso laberinto. Ogni più lieve rumore l’atterriva ancor davvantaggio, ascoltando fin di laggiù Manfredi affrettar con rabbiosa voce i servi in traccia di lei. Camminava ella perciò in punta di piede, tanto piano quanto la fretta di porsi in salvo gliel permetteva, anzi soffermavasi spesso per ascoltare se alcun l’inseguiva. Mentre così prestava attente le orecchie, intese istantaneamente un sospiro per il che tremò tutta da capo a piedi, e si ritirò indietro qualche passo. Quindi le parve udire un calpestio, e tenendo per fermo, esser quegli Manfredi, se le agghiacciò il sangue nelle vene, e ravvolse in mente tutte le tetre idee che può dipinger l’orrore. Rimproverava a se stessa la sua fuga imprudente la quale esponevala alla di lui rabbia, in un luogo, dove le strida non le avrebbero verosimilmente procacciato alcun soccorso, peraltro non le parve d’aver udito quel rumore dietro di se, poichè essa era ancora in una delle stanze, e ’l calpestio sentivasi tanto bene da non poterlo credere proveniente dalla parte dond’era venuta. Riconfortata pertanto alcun poco da tal riflessione, e sperando di ritrovar pietà in chiunque, purchè non fosse il prencipe, proseguiva il suo cammino, quando vide a sinistra aprirsi pian piano un uscio che era socchiuso, ma la persona da cui fu aperto, veduto il lume, ritirossi in fretta, senza darle tempo di distinguer chi fosse.
Isabella, facile in tal circostanza ad atterrirsi di tutto, rimase un momento dubbiosa se dovesse, o no, procedere innanzi; ma il timore di cader nelle mani di Manfredi, s’ella tornava indietro, vinse qualunque altra considerazione; anzi prese viepiù coraggio dal vedersi sfuggire da quella sconosciuta persona, e figuratasi, esser quegli un servo di casa, argumentò seco stessa che, siccome avea sempre usati cortesi tratti con ciascheduno, e sapea d’essere una innocente in pericolo, poteva così lusingarsi, dovere i servi del prencipe favorire, o almeno non impedir la sua fuga, se pure non fossero da lui a bella posta mandati per ricercarla. Ripreso cuore per tal fidanza, e credendosi vicina al disegnato luogo, s’accostò alla porta che avea veduta aprire, ma sul limitare un vento improvviso le spense il lume, lasciandola nell’orrore di quelle tenebre.
Impossibile riuscirebbe il voler esprimere con parole da qual tremore rimanesse compresa la prencipessa. Tutta sola in quello spaventoso luogo; coll’anima intimorita per gli eventi terribili accaduti nella precedente giornata; senza speranza di poter fuggire; aspettandosi ogni momento Manfredi alle spalle; e niente consolata di ritrovarsi in balía di persona sconosciuta la quale sembravale, dover esser colà nascosta per qualche cagione, se le raggiravano in mente mille torbide idee, ed era quasi sul punto di perdersi totalmente di coraggio. In tale orribil situazione, rimasta scoraggita e palpitante, si rivolse in atto supplichevole ad implorar l’assistenza di tutti i santi del cielo, e quindi, muovendosi pian piano, cercò a tentone la porta, ed avendola ritrovata, entrò tremante in quella stanza, di dove le pareva d’aver sentito il sospiro ed il calpestio. Ciò che le dette una qualche momentanea gioia, si fu il veder risplendere, quasi improvvisamente, un debol raggio di luna adombrata dalle nuvole, proveniente da un’apertura che sembrava stata fatta nella volta con un violento colpo dato al di sopra, potendo essa chiaramente osservarne i rottami, un pezzo de’ quali sembrava che stesse tuttor per cadere; ed affrettatasi verso quella parte, osservò una forma umana accosto al muro.
Ella fece uno strido, credendola lo spirito del suo promesso sposo Corrado, ma quella figura, fattasele avanti, le disse in voce sommossa: “non v’impaurite signora; io non son per farvi alcun male.” Isabella, racconsolata dalle parole e dal placido cortese tuono di voce dell’incognito, credendo tantopiù, dover essere quello stesso da cui era già stata aperta la porta, si fe’ cuore a rispondergli: “Signore, chiunque voi vi siate, prendavi pietà d’una infelice prencipessa vicina a perire; deh! aiutatemi ad allontanarmi da questo castello per me fatale, altrimenti diverrò in breve sventurata per sempre.” “Oimè!” le rispose l’incognito: “che far poss’io per assistervi? Mi esibisco di morire in vostra difesa, ma non son pratico nè di questo luogo, nè del palazzo, ed ho anch’io bisogno”... “Ah!” soggiunse Isabella: “aiutatemi soltanto a trovare la ribalta d’una botola che deve esser quì oltre, e ciò sarà il più grande ed anzi l’unico favore quale far mi possiate, perchè non ho un istante da perdere.” Nel dir queste parole, chinossi a terra, tastando quà e là colla mano il pavimento, e pregando l’incognito di cercare in simil modo una lamina d’ottone incastrata in una pietra, palesandogli, esser quella una serratura che si apriva per mezzo di una molla di cui sapeva ella bene il segreto: “se ci riesce di trovarla,” continuava ella, “posso fuggire; altrimenti, oimè! cortese incognito, temo d’avervi involto nelle mie disgrazie, poichè Manfredi vi crederà complice della mia fuga e cadrete senza dubbio vittima del suo sdegno.”... “Io non fo conto alcuno della mia vita,” riprese quegli, “e risentirò nel perderla qualche conforto, avendo procurato di sottrarvi alla sua feroce tirannia.” “Giovane generoso,” replicò Isabella, “e come potrò mai ricompensare”... Nel proferire tai parole, un nuovo raggio di luna, risplendè fortunatamente sopra la lamina di cui cercavano. “Oh giubbilo!” esclamò Isabella, “ecco la botola;” e cavatasi di tasca una chiave, toccò una molla la quale scattò da una parte, discoprendo un anello di ferro; “alzate quì,” disse Isabella, e l’incognito avendo obbedito, apparve una scaletta che conduceva in un altro sotterraneo totalmente oscuro. “Bisogna scender giù,” continuò Isabella; “venite pur meco; sebbene il cammino sia orrido e buio, non potremo sbagliarlo; egli guida direttamente alla chiesa di S. Niccola... “ma forse,” soggiunse modestamente, “voi avrete de’ motivi per non partirviFonte/commento: Pagina:Walpole - Il castello di Otranto, 1795.djvu/267 da questo castello, nè ho più oltre di voi bisogno, perciocchè fra pochi momenti sarò in salvo dal furor di Manfredi; ditemi solamente a chi devo esser di tanto obbligata”... “Io non voglio per certo abbandonarvi,” rispose allora l’incognito, “sinchè non vi abbia posta in sicuro; nè mi crediate già, o principessa, più generoso di quel che sono in effetto: quantunque voi siate ora il mio primo pensiero”... Quì fu interrotto da un improvviso mormorio di voci le quali parevano avvicinarsi a quella parte, e di là a poco inteser distintamente queste parole: “non mi parlate di magie, vi dico; ella dev’essere nel castello, e saprò trovarla ad onta degl’incantesimi”... “Cielo!” gridò Isabella, “questa è la voce di Manfredi! fate presto, altrimenti siamo perduti; andiamo, e quando sarete sceso, richiudete la ribalta.” Così dicendo, ella precipitosamente discese, e l’incognito che aveva tenuta sospesa la ribalta, volendo affrettarsi a seguitarla, questa gli sfuggì di mano, e nel cadere si richiuse la molla. Tentò egli di riaprirla, ma invano, non avendo osservato come Isabella l’avesse toccata, ed oramai mancavagli il tempo da far nuove sperienze. Il rumore della caduta ribalta fu sentito da Manfredi il quale subito corse là, accompagnato da’ servidori con torce in mano, e prima d’entrar nella stanza gridò: “questa dev’essere Isabella che se ne fugge; non può essere però molto avanti.” Ma qual fu lo stupore del prencipe, allorchè, invece d’Isabella, si vide innanzi al chiaror delle torce il giovine contadino, fatto da esso imprigionare sotto l’elmo incantato. “Traditore!” gli disse, “come mai sei quì venuto? Io ti credevo tuttora su nel cortile!” Il giovine francamente rispose: “non sono un traditore, benchè non possa impedirvi di credermi tale”... “Villano insolente!” gridò Manfredi, “ed anche ardisci d’incitarmi allo sdegno! Rispondimi tosto: come sei di là sopra fuggito? Tu hai per certo corrotte le sentinelle, ed esse mi pagheran la tua fuga colla lor vita.” “La mia povertà,” riprese il contadino tranquillamente, “potrà discolparle abbastanza; quantunque ministre dell’ira d’un tiranno, vi son tuttavolta fedeli, ed anche troppo obbedienti in eseguire gli ordini da voi dati ingiustamente.” “Come!” disse il prencipe, “e sei tu così temerario da provocare la mia vendetta! ma i tormenti che ti farò provare ti sforzeranno a non celarmi la verità: parla; io voglio sapere quali sono i tuoi complici.” “Ecco là il mio complice;” riprese il giovine sorridendo, ed accennò col dito l’apertura della volta. Manfredi ordinò a’ suoi d’alzar le torce, ed osservò, avere un lato dell’elmo sfondato il pavimento del cortile, probabilmente allorchè i servitori, sollevatolo per porvi sotto il contadino, lo avean lasciato ricadere; ed argumentando che fosse da quella parte venuto, gli disse: “di là sei sceso?” “Di là appunto,” rispose il giovine. “Ma qual rumore è stato quello,” soggiunse il prencipe, “che ho ascoltato entrando nel sotterraneo?” “D’una porta,” rispose il contadino. “Ciò l’ho inteso anch’io,” disse con impazienza Manfredi, “ma qual porta è stata?” “Io non son pratico del vostro palazzo;” replicò il giovanetto, “poichè questa è la prima volta che ci vengo, e questa è la sola interna parte di esso, ove io sia mai entrato, eccetto oggi, quando mi avete veduto nel cortile.” “Ma io ti replico,” dissegli Manfredi, volendo sapere se il giovine avea scoperto il passaggio per la botola, “che il rumore è venuto da quà, ed i miei servi parimente lo hanno sentito”... “Altezza sì,” interruppe uno di loro, secondandolo, “è stata sicuramente la botola; di lì costui voleva fuggire.” “Chetati scimunito,” riprese il prencipe in collera,” s’egli voleva fuggire, come pensar puoi, che dovesse venir di quì? Voglio intendere dalla sua propria bocca qual rumore è stato quello;” e rivoltosi al villanello: “dimmi,” soggiunse, “la verità, poichè l’esser sincero è per te l’unico mezzo di salvar la vita.” “La verità mi è della vita più cara,” ripetè quello, “nè vorrei comprarmi l’una in pregiudizio dell’altra.” “Eh non istare a farmi il filosofo,” soggiunse Manfredi con disprezzo, “e parlami piuttosto di quel rumore?” “Dimandatemi ciò che bramate sapere,” replicò il giovane, “e fatemi uccidere se mentisco.” Manfredi, perdendo la pazienza per la di lui costante fermezza e tranquillità, gridò: “ebbene, giacchè ti vanti di non saper mentire, rispondimi; è egli stato quel rumore cagionato dalla botola?” “Altezza sì,” disse il giovine. “Tu di’ la verità,” continovò Manfredi, “ma come hai saputo, esser quivi una botola?” “Ho veduta la lamina d’ottone per mezzo d’un raggio di luna,” rispos’egli. “Ma chi ti ha detto, esser ciò una serratura?” proseguì Manfredi, “e come sei potuto arrivare a scoprire il segreto d’aprirla?” “La Provvidenza la quale aveami procurato la via d’uscir di sotto l’elmo, poteva,” rispos’egli, “dirigermi nel fare scattar la molla d’una serratura.” “Sì,” soggiunse Manfredi, “ma la Provvidenza avrebbe dovuto fare anche di più, cioè, camparti dall’ira mia. Dopo averti essa fatto conoscer come si aprisse la serratura, ti ha abbandonato, vedendoti uno stolto incapace di profittare de’ suoi favori. Ma perchè non hai tu seguitata la strada che ti si mostrava opportuna alla fuga? Perchè hai tu richiuso il passaggio prima di scender la scala?” “Potrei anzi domandare a voi, signore,” disse il contadino, “chi dovea svelare a me, non pratico di questo luogo, che tal cammino conducea fuori di quà? ma per non pigliarmi il vantaggio di schivar le richieste, vi dirò che avrei fors’anco tentato di veder dove questa scala guidasse, giacchè peggiorar non poteva il mio stato, ma la verità si è che la ribalta mi è caduta di mano, mentre stavo per discendervi; vi sentii giungere in quello stesso momento, e poichè mi vidi scoperto, che importava a me d’esser più presto o più tardi raggiunto?” “Tu sei bene un ardito villano per la tua età,” disse Manfredi, “ma parmi, voler tu prenderti giuoco di me: non mi hai ancor detto in qual modo è riuscito d’aprire la serratura.” “Ora vel farò vedere,” disse il contadino, e preso un sasso di quei caduti dalla volta, si chinò in terra, ed incominciò a battere sulla lamina che la copriva; e con ciò era sua intenzione di dar tempo alla principessa di porsi in sicuro. Questa presenza di spirito, unita alla franchezza del giovine, fece titubar Manfredi, e lo dispose eziandio a non infierire contro di lui, non ritrovandolo delinquente. Questo prencipe infatti non era un di quei brutali tiranni i quali, anche senza essere in verun modo provocati, si pascono di crudeltà, ma le sole circostanze della sua mala fortuna aveano inasprito il di lui naturale, pur disposto all’umanità; ed il suo cuore trovavasi pronto sempre a ben fare, allor quando la sua ragione non era dalle passioni offuscata.
Mentre così stava il prencipe in sospeso, si udì pel sotterraneo un bisbiglío di confuse voci lontane le quali, avvicinandosi davvantaggio, conobbe, esser grida de’ servi, da esso quà e là per il palazzo dispersi in traccia d’Isabella, e strillavano: “dove siete, signore?... dove siete, signor principe?” “Son quì,” rispose Manfredi, ed avvicinandosi essi, domandò loro: “avete trovata la principessa?” Il primo che giunse, rispose: “ah signore!.. signore!.. siamo tanto contenti d’aver trovato voi!” “Me!” disse Manfredi; “e la principessa, in somma, l’avete voi trovata?” “Ce lo eravamo creduto, signore,” disse un di loro tutto spaventato... “ma”... “Ma che?” gridò il prencipe; “è ella fuggita?” Un d’essi replicò: “Iacopo ed io”... “Sì signore, io e Diego,” interruppe l’altro il quale si fece avanti anche più intimorito... “Parlate ad un per volta,” esclamò Manfredi; “vi domando dov’è la principessa?” “Non lo sappiamo,” replicarono ambedue in un tratto, “ma siamo morti di paura”... “Così credo anch’io, sciocconi,” disse Manfredi; “e perchè?” “Oh! signore!” disse Iacopo, “Diego ha veduta una cosa!.. Vostr’Altezza non vorrà credere a’ nostri occhj”... “Cosa mi vai tu contando,” gridò Manfredi; “rispondimi a tuono, o giuro al cielo”... “Ebbene se Vostr’Altezza vuol degnarsi d’ascoltarmi, dirò che Diego ed io”... “Sì signore, io ed Iacopo,” disse il compagno... “Ma non vi ho io proibito di parlar tutti e due in una volta,” gridò il prencipe: “Iacopo, rispondimi tu, perchè quest’altro pazzo è più fuori di se: dimmi cos’è stato?” “Ah! mio amatissimo signore!” cominciò Iacopo, “se Vostr’Altezza vuol degnarsi d’ascoltarmi, le dirò che Diego ed io, secondo gli ordini di Vostr’Altezza, siamo andati a cercare la signora principessa, ma con paura d’incontrar lo spirito del nostro padroncino, figliuolo di Vostr’Altezza, Dio abbia in pace l’anima sua! siccome non è stato sotterrato secondo il rito di santa madre chiesa”... “Animalaccio,” gridò infuriato Manfredi, “non hai dunque veduto altro che uno spirito?”... “Oh! peggio, peggio, signore!” esclamò Diego: “avrei voluto veder piuttosto una gerarchia di spiriti che”... “Cielo! dammi pazienza con costoro!” disse Manfredi; “questi scimuniti faranno impazzire anche me! Diego, parti subito di quì; e tu Iacopo, dimmi schiettamente: sei ubriaco? sogni tu? hai pure dello spirito secondo il solito: avrebbe forse quell’animale fatta a se paura ed a te? su via parla; che fantasie ha egli pel capo?” “Dunque, signore,” rispose Iacopo, tremando, “io volevo dire a Vostr’Altezza, che dopo la gran disgrazia del padroncino, Dio abbia in pace l’anima sua! nessuno de’ fedelissimi servi e sudditi di Vostr’Altezza... oh sì! in verità, signore, siamo tali, quantunque povera gente; nessuno, dico, si è arrischiato di girare per il palazzo se non accompagnato con un altro; così Diego ed io, figurandoci che la signora principessa Isabella potesse essere nella galleria, siamo saliti su per cercarla, e dirle che Vostr’Altezza aveva qualche cosa da manifestarle”... “Ah balordi!” gridò allora Manfredi: “e così ella se n’è fuggita, perchè voi altri avete paura degli spiriti; e tu, furfante, non sapevi, avermi ella lasciato nella galleria, di dove appunto venivo, quando vi detti l’ordine di cercarne?” “In somma,” replicò il servo, “ella poteva, e può anch’esservi ritornata; io questo non lo so, ma so bene che mi lascerei portar via dal diavolo piuttosto di andarvela un’altra volta a cercare... povero Diego! credo ch’egli non potrà mai darsene pace... poveraccio!”.. “Darsi pace di che?” soggiunse Manfredi; “nè potrò mai sapere qual cosa ha impaurito questi ribaldi!.. ma quì perdo il mio tempo... seguitemi, vigliacchi, voglio andar da me stesso a vedere s’ella v’è”... “Per l’amor del cielo, caro signor padrone,” esclamò Iacopo, “non vada in galleria; credo, che là nel camerone a man manca vi sia Satanasso.” “Manfredi il quale avea sino allora considerato come timor panico lo spavento de’ servidori, rimase impensierito nell’intender ciò, rammentandosi la scena del ritratto, e l’essergli stata chiusa in faccia la porta di quella camera stessa, e domandò con voce commossa, cosa eravi dentro. “Signore,” disse Iacopo, “quando Diego ed io siamo arrivati nella galleria, egli mi è passato avanti, vantandosi d’aver più coraggio di me... dunque, quando siamo arrivati nella galleria non abbiam trovato nessuno; s’è guardato sotto le panche e sotto gli sgabelli, e parimente non abbiamo trovato alcuno.” “I quadri eran tutti al lor posto?” domandò Manfredi. “Oh sì, signore, ma non si è pensato di guardar dietro a’ quadri,” riprese il servo. “Bene, bene,” disse Manfredi, “seguita pure.” “Quando siamo arrivati alla porta del camerone,” continuò Iacopo, “l’abbiamo trovata chiusa”... “E non l’avete voi potuta aprire,” interruppe Manfredi. “Oh Altezza sì! avesse voluto il cielo che non avessimo potuto; cioè, io non l’ho aperta, è stato Diego... egli ha voluto far il bravo, e andar dentro, benchè io lo consigliassi di no... oh a me non accaderà d’aprir uscj chiusi!” “Da parte le ciarle,” disse Manfredi agitato, “dimmi soltanto, che cosa hai veduto, aprendo la porta del camerone?” “Io! come posso dirvelo, signore! rispose Iacopo... io non ho veduto nulla, perchè ero dietro a Diego, ma per altro ho sentito il fracasso.” “Iacopo,” disse allora Manfredi, con un tuono di voce serio, ma non sdegnoso, “dimmi, te ne scongiuro per le anime di tutti i miei antenati, dimmi cos’hai tu veduto, cos’hai tu ascoltato?” “Ha veduto Diego, signore, e non io,” replicò Iacopo; “io ho solamente sentito: Diego, aperta appena la porta, si è messo a gridare ed è scappato... son fuggito anch’io, domandandogli se era lo spirito del padroncino... no, no, mi ha risposto Diego il quale aveva i capelli ritti, credo che sia un gigante... egli è tutto vestito di ferro da capo a piedi, perchè gli ho visto un piede e mezza una gamba, e di figura tanto gigantesca quanto l’elmo del cortile. Mentre me lo diceva, abbiam sentito un gran movimento, ed un gran fracasso di ferri, come se il gigante si alzasse su, perchè Diego mi ha poi detto, dover essere quella figura a giacere, perchè egli aveva veduto il piede e la gamba distesi per terra. Prima di arrivare al fine della galleria, è stata chiusa la porta del camerone, ma non abbiamo avuto coraggio di voltarci indietro, per vedere se il gigante c’inseguiva; non lo credo però, perchè si sarebbe sentito... ah! per l’amor del cielo, signor padrone, mandate a chiamare il cappellano e fate scongiurare il palazzo, perchè è incantato di certo!”... “Sì per carità, Altezza,” gridaron tutti in un tratto i servitori, “fatelo scongiurare, o altrimenti ci licenzieremo dal servizio di Vostr’Altezza.” “Acquietatevi, rimbambiti,” disse Manfredi, “e venite meco; voglio ad ogni costo veder cos’è.” “Noi, signore! noi!” gridaron tutti ad una voce; “noi non andremmo su in galleria per tutte l’entrate di Vostr’Altezza.” Il giovine contadino il quale fin allora erasi dimorato in silenzio, disse al prencipe: “se Vostr’Altezza vuol permettermelo, ci anderò io; la mia vita non preme ad alcuno, e non ho timor degli spiriti maligni, perchè non ho mai offesi i benefici.” “Il tuo procedere dimostra, te esser da più di quel che sembri a prima vista,” gli rispose Manfredi, riguardandolo con sorpresa ed ammirazione; “da quì avanti voglio prevalermi del tuo coraggio, ma ora,” continovò sospirando, “mi ritrovo in circostanze tali da non fidarmi se non de’ proprj occhj miei; tuttavia ti permetto di venirci con me: sieguimi.
Allor quando erasi Manfredi determinato a voler raggiugnere Isabella, era dalla galleria direttamente passato nelle camere della sua consorte, immaginandosi, poter essersi colà rifugiata la principessa. Ippolita, riconosciutolo al camminare, erasi levata con tenera sollecitudine per andargli incontro, non avendolo ancor veduto dopo la morte del figlio. Sarebbesi ella, benchè dolente, gettata nelle di lui braccia con effusione di gioia; ma egli rusticamente la rispinse, dicendole: “dov’è Isabella?” “Isabella, signore!” rispose Ippolita stupefatta”... “Sì Isabella,” replicò Manfredi alzando ancor più la voce; “ho bisogno d’Isabella”... “Padre mio,” aggiunse Matilda, accortasi della trista impressione che i di lui aspri modi fatt’aveano sul cuor della madre, “Isabella non è più ritornata, dacchè l’avete mandata a chiamare.” “Ditemi dov’è,” insistè il prencipe, “e non dov’è stata.” “Mio amato consorte e signore,” soggiunse Ippolita, “la vostra figlia vi dice il vero; Isabella è di quì partita per ordin vostro, e non è ancor ritornata... ma deh! consorte amato, ricomponete il vostro agitato spirito; deh! andate a riposarvi: io vedo che questo spaventoso giorno vi ha turbato di troppo; Isabella riceverà i vostri comandi domani per tempo.” “Dunque; voi sapete dov’è,” gridò Manfredi; “ditemelo ora subito, poichè voglio in questo punto vederla;” e rivolto alla consorte con bieco sguardo proseguì: “e voi, o donna, fate ordinare al vostro cappellano di venir tosto da me.” “Suppongo,” disse Ippolita con umil voce, “essersi Isabella ritirata nelle sue camere, mentre non suol vegliare fino ad ora sì tarda... ah! benigno signor mio, palesatemi, ve ne scongiuro, la cagion del vostro disturbo: vi ha forse offeso Isabella?”... “Non mi annoiate colle vostre domande,” risposele sempre corrucciato Manfredi, “ma ditemi soltanto dov’ella è.” “Matilda andrà a cercarla,” riprese la principessa... “sedete, e riprendete l’usata vostra fortezza d’animo.”... “Come! sareste forse gelosa d’Isabella,” soggiunsele, “che desiderate trovarvi presente a’ nostri ragionamenti?” “Dio buono!” replicò Ippolita, “che intendete mai dir con ciò, diletto sposo?” “Lo saprete in breve,” ripigliò allora viepiù inferocito il crudel prencipe, “mandate a chiamare il vostro cappellano, e voi quì attendete i miei ordini.” Così detto, uscì precipitosamente dalla camera per andare in traccia d’Isabella, lasciando piene d’indicibil sorpresa e come colpite di fulmine le due dame, le quali si confondevano in formando vane congetture, e ruminando su ciò ch’egli meditasse di fare.
Manfredi, adunque, quando ritornava da’ sotterranei accompagnato dal contadinello e da’ pochi servi, da lui costretti a forza a seguitarlo, montò senz’arrestarsi le scale; ed incamminandosi a gran passi verso la galleria, trovò sull’ingresso Ippolita ed il cappellano; ed ecco perchè ci erano essi venuti. Allorchè Diego fu scacciato da Manfredi, volò all’appartamento d’Ippolita, e le narrò tutto ciò che avea veduto ed inteso; e sebbene questa virtuosa dama non dubitasse, come neppur Manfredi, della realità della cosa, finse tuttavia voler credere il racconto del servo proveniente da sconvolta fantasia. Desiderosa non per tanto di risparmiare al prencipe nuove cagioni di turbamento, e preparata da una serie d’affannosi eventi ad ogni più crudele sciagura, erasi coraggiosamente determinata di sacrificar se stessa la prima, qualora il fato avesse prefissa quell’epoca appunto alla distruzione di tutta la loro famiglia. Inviata perciò Matilda al riposo, sebben vi andasse contro voglia, e la pregasse istantemente di non allontanarla da lei, aveva Ippolita, in compagnia del cappellano, visitata la galleria ed il camerone, ed in quel momento, venendo incontro al consorte con quella serenità di volto che non avea da più ore indietro mostrata, l’assicurò, esser la gamba gigantesca un mero delirio del servo, e senza dubbio un vano fantasma creato nella di lui immaginazione dal timore e dalla oscurità della notte, soggiungendo, aver ella unitamente al cappellano esaminata la camera, e trovata ogni cosa al suo posto.
Quantunque fosse Manfredi, egualmente che la principessa persuaso, non esser le cose vedutesi un puro effetto dell’immaginazione, tuttavolta, riavutosi un poco dallo sconvolgimento d’animo cagionatogli da tanti strani accidenti, e risentendo eziandio qualche dispiacere del modo inumano usato verso la consorte, la quale sempre corrisposto aveva ad ogni ingiuria con nuovi contrassegni di tenerezza e di obbedienza, ridestossegli in seno alcuna scintilla dell’antico affetto; ma, non sì tosto provando vergogna de’ rimorsi cagionatigli dalla presenza di una persona, contro la quale meditava un più amaro oltraggio, soffogò i moti del cuore, e non vi diè pur luogo alla compassione. Laonde ritornato a’ primieri oltraggiosi sentimenti, ed affidandosi all’inalterabil sommissione d’Ippolita, lusingossi, dover ella non solo aderir con rassegnazione al divorzio, ma obbedire ancora ciecamente alle richieste del medesimo, procurando cioè di persuadere e disporre Isabella a dargli la mano di sposa. Concepita appena tal lusinga, gli venne in mente, non essersi ancor potuta ritrovare Isabella, per il che, riscosso dalle sue profonde cogitazioni, ordinò, doversi diligentemente custodire ogni passo del castello con proibizione a’ servi, sotto pena di morte, di non lasciane uscir veruno. Parlò quindi al contadino in affabil maniera, ordinandogli di rimanere per quella notte in una cameretta presso alla scala in cui era un letticciuolo, vel chiuse dentro, prendendone la chiave, e gli disse che nella vegnente mattina avea bisogno di parlare con esso lui. Finalmente licenziò i servitori, e rivolto ad Ippolita le diè un torvo sguardo, scuotendo la testa, e ritirossi nelle sue stanze.
FINE DEL CAPITOLO PRIMO.