Il Don Carlo di Schiller e il Filippo d'Alfieri
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LETTERATURA
IL DON CARLO DI SCHILLER
E
IL FILIPPO D'ALFIERI
Le sventure dei potenti lasciano profonda impressione di stupore e di pietà nelle moltitudini solite ad ammirare e invidiare come pegno di non dubia felicità quella vana grandezza, e pronte a vedere nella repentina sua caduta l'opera d'un'arcana potenza, che ragguaglia ad una legge commune di debolezza e di dolore gli estremi dell'umana fortuna. Le menti raccolgono avide i luttuosi racconti; cercano spiegarsi il secreto di quelle tremende passioni; le adattano al loro modo d'intendere una vita principesca e pomposa; e nel tramandare ai posteri la commozione onde vennero esse primamente ferite, sfrondano i particolari del fatto, e lo vengono inalzando a ideale sublimità. Per tal modo presso ai popoli di più eletto ingegno, la memoria nel corso del tempo procrea le arti; le quali, nei lamenti di Filottete, o nei simulacri di Niobe e Laocoonte, raccolgono e addensano quanto di più compassionevole hanno gli atti e le voci degli esseri addolorati.
Quando poi l'uomo ha scorto una volta quali condizioni di grandezza e di miseria debbono avere gli avvenimenti per commovere gli animi di gente che vive lontana di tempi e di luoghi, allora va correndo d'ogni parte le istorie e le tradizioni, in cerca d'argomenti coi quali pascere la publica pietà. E nello stesso tempo viene traendo dalla ripetuta esperienza certe norme, che sembrano render più sicura ed agevole l'impresa di trattenere l'attenzione e commovere l'affetto. Nelle quali regole vien ponendo fiducia sempre maggiore, sino a che nello studio delle forme si smarrisce il supremo fine della passione, e l'arte popolare e poderosa traligna in vano artificio. Allora mal pago di sè ritorna sulle prime sue vestigia; rifiuta tutte le regole poco dianzi idolatrate, vuole immergersi nel puro fonte della passione, e ritemprarsi ad una barbara vigorìa. Perlochè nel corso dei tempi debbono venire ondeggiando anche i giudizi che si recano delle opere illustri; e il vulgo, con alterna intemperanza, vilipendere le una quando si è tediato, e le altre quando è satollo d'un incondita agitazione.
Molti fra noi possono rammentare d'aver corso in breve intervallo di tempo questa vicenda d'opinioni; poichè l'adolescenza nostra fu allevata nel culto di regole che poi la nostra gioventù fu ammaestrata a discredere; e ciò che pochi anni addietro aveva autorità d'esemplare quasi sovrumano, poco di poi, al chiarore delle mutate dottrine, apparve traviamento, d'ingegno snervato dalle scuole, e documento quasi di naturale inferiorità. Gli avventurosi che primi poterono abbeverarsi alle novelle letterature, crollarono il capo caritatevole sui ciechi nati che rimanevano a deliziarsi negli insipidi frutti del povero paese. Dalle nuvole della boria nazionale gli studiosi piombarono in una precipitosa abnegazione della patria e dell'arte. Essi volsero sprezzanti il dorso a cinque secoli di gloria letteraria e alle memorie di più antiche età; e per poco non s'augurarono d'essere nati sott'altro cielo e da barbari antenati, per ricominciare colla scorta di più alte e onnipotenti dottrine una vita di pura inspirazione, sciolta dai pregiudizi dell'esempio e dalle stringhe del precetto. Egli è ormai più di vent'anni che le menti si misero a peregrinare pei nuovi campi; epperò dovrebb'essere maturo il tempo di far savia rassegna delle dovizie nostrali e delle straniere, e di considerare se non sia migliore il consiglio d'abbracciarle tutte con più larga e generosa astrazione; poichè l'ingegno ha diritto di raccogliere da ogni parte le opere dell'ingegno, e di trattarle come sue tutte quante, senza divario di lingua, di tempo o di terreno.
Fra le tragiche avventure della vicina età, nessuna è tanto atta a destar terrore e meraviglia quanto la misteriosa e sciagurata fine dell'infante Carlo di Spagna. Figlio del più potente e temuto principe d'Europa, unico erede suo nei dominii dei due mondi, successore riconosciuto con solenne giuramento dalle Cortes in Toledo, promesso consorte prima alla figlia del re di Francia, poi a quella dell'imperatore di Germania, viene, nel fiore dell'età, fra il silenzio della notte, nella quiete della sua stanza e del suo letto, sorpreso fra il sonno e disarmato da uno stuolo di ministri e di guardie, fra cui coperto di corazza e d'elmo vede in faccia il torvo suo padre. Da quell'istante, intercluso dal consorzio de' suoi congiunti e de' suoi fedeli, vigilato a vista da uomini nemici e aborrit, messo al sindacato di tre giudici, che senza vederlo nè udirlo lo condannano per attentato di ribellione e di parricidio, viene da loro con infinita pietà raccomandato alla clemenza del padre. Il quale, rispondendo che il suo cuore ben gli consiglia il perdono, tuttavia, ad onta del paterno amore e dello strazio di così duro sacrificio, dichiara inevitabile la sua morte: e come la maggior prova d'amore che possa dare al figlio suo ed alla nazione spagnola, gli manda invito di prepararsi a morire, e confessarsi per l'eterna salute.
Correvano già sei mesi che il prigioniero stava divorandosi nella disperazione e nelle smanie d'un'anima fiera e indomita, quando due de' suoi giudici, Esponosa e Ruy Gomez, imaginandosi di sodisfare alle vere intenzioni di Filippo, se anticipavano a Carlo l'istante della morte, commisero al regio medico d'Olivares d'illuminarlo, e senza dirgli nulla dello sdegno del re e della sua condanna, persuaderlo a disporsi alla morte, che Dio gl'inviava come termine a' suoi mali. Olivares, argomentando dagli oscuri cenni che gli si dimandava l'esecuzione d'una sentenza di morte, in modo che simigliasse al una morte naturale, purgò il principe, come scrive un contemporaneo, senza buon effetto, ma senz'ordine, nè senza deliberazione; e il male manifestò incontanente segni mortali. I ministri proposero al re di veder suo figlio, e dargli la consolazione di benedirlo. Ma saviamente i confessori del moribondo, Chaves e Suarez, risposero ch'egli era composto e rassegnato, e doveva temersi che non si alterasse alla vista di suo padre. Tuttavia, nella notte del 23 e 24 luglio (1568) inteso che l'infelice era agli estremi aneliti, Filippo si recò nella sua stanza, e stendendo le braccia fra le spalle di Ruy Gomez e d'Antonio Toledo, senza essere visto, gli diede la sua paterna benedizione. Poi si ritirò piangendo.
Annunciò per lettere la morte di Don Carlo, come già la prigionia, a tutti i vescovi, i capitoli, i governatori, i tribunali, alle città ed ai loro corregidori, a molti prìncipi, all'imperatore, al pontefice. Era già stato un conforto al suo cuore, e forse un impulso, la lettera della città di Murcia, la quale "baciandogli mille vole i piedi" per segnalato favore d'informarla della prigionia di Don Carlo, "non poteva pensare senza intenerirsi" d'avere un re tanto giusto e tanto affezionati al bene universale, da anteporlo ad ogni cosa, e dimenticar persino "il tenero affetto che nutriva per suo figlio!"
Qual fosse la colpa per cui la giustizia o la ragione di Stato potessero necessitar Filippo II a infliggere una proditoria morte a suo figlio, insultando ogni rispetto di natura, e votando sè medesimo a esecrazione perpetua, rimane sempre un tetro e tremendo arcano, sul quale l'imaginazione dei posteri ama di sommovere ogni maniera di congetture. Filippo serbò il suo secreto; i suoi nemici dissero tuttociò che poteva far più esoso il suo nome; e l'istoria troppo lentamente dissotterra le testimonianze deposte dal tempo negli archivi, e troppo lentamente inoltra quel finale giudicato, da cui nessuna passata potenza esime il reo.
L'opinione che Carlo perisse vittima dell'Inquisizione spagnola fu ai nostri tempo dissipata da Llorente, il quale nelle carte del Santo Officio non ne trovò vestigio2. Ma egli pose in chiaro che fra i tre giudici di Carlo sedeva primo Espinosa grande inquisitore, non perrò come presidente del Consiglio di Castiglia. E in vero per quanto profano fosse divenuto nella Spagna quel tribunale, massime dopo che il suo capo doveva dal Consiglio di Castiglia ingerirsi in tutti gli avvolgimenti dell'ambizione europea: per quanto nelle mani di Filippo fosse divenuto strumento d'una ferrea volontà; la più commune prudenza non assentiva d'avvezzarlo a por mano alla vita degli eredi del regno, altrimenti che come regio magistrato, libero da qualsiasi straniera influenza. Filippo stesso, pochi anni prima (1555-1557), aveva dovuto lottare coi prelati spagnoli, sollecitati dal Siliceo,: e più ancora col pontefice Paolo IV, il quale suo suddito per nascita (Caraffa di Napoli), l'odiava fieramente, e intraprendeva a dichiararlo decaduto dal regno; perlochè Filippo, giusta il tortuoso suo costume, mentre da una parte si collegava col re di Francia, e avventava contro la città di Roma l'esèrcito del Duca d'Alba, s'inchinava dall'altra a implorar perdono, e accettare l'assoluzione dal Santo Officio.
E Carlo, fino a pochi giorni prima della sua prigionia, e nella maggior tempesta dell'animo erasi così fermamente attenuto ai principii dell'educazione sua, che, avendogli il confessore negata l'assoluzione se non rinunciava a un sanguinoso suo proponimento, egli andolla mendicando presso altri sacerdoti; consultò presso di sè una notte quattordici frati del convento d'Atocha; e infine pretese che il priore Tobar gli porgesse un'ostia non consacrata, perchè non apparisse com'egli non poteva partecipare cogli altri prìncipi della famiglia alle consuetudini solenni. Solo nell'esacerbazione della sua cattività, e forse per sospetto, rifiutò sino all'ultimo di confessarsi. Perlochè l'elemosiniere Suarez, già suo institutore, gli scrisse il dì di Pasqua una lunga e affettuosa lettera, riferita dal Llorente, dicendogli: «Vostra Altezza può ben imaginarsi che faranno e diranno tutti, quando si saprà che non si confessa, e si scopriranno altre cose terribili, sul conto suo; alcune delle quali sono di tanta importanza, che, se riguardàssero tutt'altri che Vostra Altezza, il Santo Officio sarebbe nel caso di domandarle s'ella è cristiano o no... Il solo consiglio che le posso dare si è ch'ella si rivolga a Dio ed a suo padre che lo rappresenta sulla terra».
Codeste cose terribili, dacchè non potevano aver radice in quelle opinioni religiose che Don Carlo certamente serbava ancora all'istante della sua prigionia, altro non potevano essere che le secrete sue relazioni coi signori fiamminghi. Costoro, avvezzi da secoli al godimento d'un'armata feudalità, anzi per l'estinzione dell'antica casa di Borgogna, liberi di sovraneggiare un paese che solo di nome apparteneva all'imperio, sòliti a vendere la loro protezione a quelle communità di mercanti e d'artèfici che fra le paludi della Neerlanda avevano ricoverato le loro industrie e accumulate un'ingente opulenza, vedevano fremendo i nuovi eserciti stanziali, le inusitate imposte, l'autorità concentrata e assorbente, che prevaleva ogni giorno più, adeguando baroni e communi a servile obedienza. Quindi, per antico privilegio luogotenenti del re nelle loro province, contrariavano d'ogni maniera i ministri regii, i quali non potevano peranco dominare i popoli se non per mezzo loro. Affetavano fedeltà e fervorosa affezione alla persona del re, per soggiacere tanto meno agli effetti della sua potenza e ai giornalieri comandi d' suoi ministri; lo pressavano a confidare nei popoli, e toglier dalle Fiandre l'umiliante e odiata presenza delle soldatesche spagnole; e infine, prevedendo che presto o tardi Filippo sarebbe venuto alla forza, fomentavano tutte quelle opinioni che potevano essere fondamento di resistenza; sommovevano da un lato i cavalieri alla conservazione dell'ineguaglianza feudale, e dall'altro proteggevano nei predicatori calvinisti i rappresentanti dell'eguaglianza puritana. Capo di tutti per altezza di pensieri e potenza di Stati era il prìncipe d'Orange, Guglielmo il Taciturno, il quale, nato di famiglia che aveva dato un imperatore alla Germania, non solo possedeva vaste signorìe in Germani, in Olanda, in Brabante, in Borgogna, in Provenza, ma luogotenente del re in Olanda e Zelanda, aveva in diretta sua fede quasi tutte le città marittime dei Paesi Bassi. Filippo s'era bene accorto del sublime ambizioso, che doveva un giorno tòglierli la più doviziosa e poderosa parte di quel florido regno; aveva intravisto nell'opposizione dei signori la mano càuta e coperta che li dirigeva; e una volta che Orange gli allegò un desiderio degli Stati, gli aveva detto sul viso: non sono gli Stati, ma voi, voi, voi - Nos lo estados, ma vos, vos, vos. - Però se Filippo intendeva Orange, anche Orange in tempo s'accorse, che, quando Filippo voleva nei Paesi Bassi sostituire agli antichi tribunali ecclesiastici un nuovo ed unico Santo Officio, giusta il tremendo uso di Spagna, preparava da lontano il finale esterminio di tutte quelle famiglie feudatarie colle quali era costretto a divìdere stentatamente il potere. Quindi Orange col nome della nuova inquisizione spagnola agitò protestanti e catòlici, feudatari e communieri. E mentre disponeva i popoli a tumultuare a tempo e luogo, assoldava in Germania squadre di mercenarii, volendo esser presto a opporre ferro a ferro; e intanto con solenni deputazioni tardava i passi del re; e gli esterceva la promessa di lasciare ai soli vescovi la difesa dell'avita fede. Anzi, conoscitore della Corte spagnola, ov'era egli medesimo cresciuto, vi comperava squisite controspìe, leggeva le più secrete lèttere di Filippo e de' suoi satelliti, e stendeva nella famiglia stessa del despota ,e reti della ribellione. E coll'opera dei deputati della Signoria belgica, Berghe e Montigny, annodava secrete pratiche coll'irrequieto e violento Don Carlo, il quale, negletto e vessato da Filippo e offeso dal duca d'Alba, abbracciò impetuosamente la speranza di ricevere dai Belgi libero vivere, certa vendetta e pronto regno.
Ma il tempo incalzava. In primavera del 1567 Filippo, risolto di troncare il nodo colla scure del carnefice, inviava verso i Paesi Bassi con un esercito di veterani il feroce Toledo duca d'Alba. All'annuncio di quell'arrivo le forze degli oppositori rapidamente cadèvano; centomila e più persone fuggivano, e con esse il circospetto Orange. Ma il conte d'Egmonte, che confidando nelle battaglie da lui vinte per Filippo, continuava a venire in Corte e in consiglio, fu coll'ammiraglio Hoorne improvisamente arrestato (9 settembre). La principessa reggente, ch'era una illegìttima sorella di Filippo, moglie già di quel tristo Alessandro de' Medici e poi d'Ottavio Farnese, se ne tenne gravemente offesa, chiese al re di ritirarsi; e partiva infatti (30 dicembre), accompagnata con vana onoranza sino ai confini dal duca d'Alba. Il quale, rimaso degno e solo vicario di Filippo, si pose col nuovo anno alla testa d'un tribunale, che il pòvero popolo fiammingo chiamò poi il Consiglio di sangue (Bloedraedt); poichè in breve tutto il paese fu pieno d'arresti, di torture, di confische e di supplicii.
Dìcesi che il duca d'Alba fra le carte d'Egmonte trovasse un lèttera di Don Carlo. Questi, infatti, già da mesi faceva raccògliere denaro per fuggire in Fiandra, e porsi alla testa dell'opposizione; e intendeva trar seco anche Don Giovanni, fratello illegìttimo di suo padre, e illustre poi per la vittoria navale di Lèpanto. Il 17 gennaio, Don Carlo dimandava otto cavalli al direttor delle poste Raimondo de' Tassi; il quale, insospettito, e per non entrar in impegni, fece prima partire da Madrid tutti i cavalli della posta, poi corse all'Escuriale per darne notizia a Filippo. Vi accorreva nello stesso tempo Don Giovanni, il quale con Don Carlo erasi infinto voglioso di partire seco lui. Quasi allo stesso momento, padre e figlio giungèvano da diversa parte a Madrid. Il prìncipe scoperto e sconcertato differiva la partenza; e nel mattino seguente, venuto ad acerbe parola con Don Giovanni, lo investiva colla spada alla mano, come pochi mesi prima aveva investito il duca d'Alba. Ma quella sera (18) Filippo, entrando con falsa chiave improviso e armato nelle sue stanze, lo arrestava.
Intanto Lodovico di Nassau, fratello d'Orange, penetrava colle sue bande armate nei Paesi Bassi, e sorprendeva le truppe regie. Ma il duca d'Alba fece tosto troncare il capo ai conti d'Egmonte e d'Hoorne; affrontò Lodovico, che gli sfuggiva a pena in una pòvera barca; inalzò coll'òpera d'ingegneri italiani fortezze formidàbili in Anversa, in Flessinga, in Groninga, in Amsterdam; decretò nuove imposte, contrarie alle leggi e al giuramento del re; sequestrò in Anversa le navi inglesi; oppresse con mano di ferro il commercio, il quale dalle città obedienti si rifugiò nei ricòveri dei ribelli, infestando prima di disperati corsari, poi di poderose flotte tutti i mari della Spagna e delle Indie. Le imposte, le confische, le morti dilatàrono l'incendio, e rèsero stàbili le sollevazioni. E cominciò quella lotta implacàbile, che dopo un mezzo secolo di miserie e di prodezze terminò col trionfo dell'oscura Olanda e della Casa di Orange, e coll'irreparabile decadimento della potenza spagnola.
Egmonte e Hoorne salivano al patìbolo nel giugno (1568); Don Carlo moriva di veleno nel luglio; e nel seguente ottobre la giòvane regina Isabella, moglie di Filippo, ma promessa primamente a Don Carlo, moriva in occasione di prematuro parto. E Filippo, vèdovo prima d'una principessa di Portogallo madre di Don Carlo, poi della regina Marìa d'Inghilterra, poi d'una principessa di Francia, passava a quarte nozze colla sua nipote Anna, promessa ella pure pochi mesi prima a Don Carlo. E sopraviveva al figlio ben trent'anni (1598), consumando un lunghissimo regno, in cui la pertinace sua polìtica ebbe agio di preparare la debolezza del suo imperio, l'avvilimento della sua nazione, la nullità ereditaria de' suoi successori, e la gloria e la potenza di tutti i suoi nemici.
La morte d'Isabella, prossima di soli tre mesi a quella di Don Carlo, fece crèdere a tutta Europa che quelle giòvani vite fossero spente dalla stessa mano; e che la vana promessa di nozze, fatta quando il prìncipe aveva quattordici anni e la principessa tredici, avesse inclinato gli ànimi loro a un infelice affetto. Nell'anno seguente la promessa (156=, la giovinetta, invece del figlio, sposava il padre; non vecchio, però, ma di soli 33 anni; e come dice quel buon canònico Llorente, benissimo disposto. Anzi molti dei più autorevoli scrittori dicono3 , che fin dal primo trattato ella fosse promessa a Filippo e non a Carlo. Gregorio Leti, gran persecutore del nome di Filippo, dice che tra le allegrezze nuziali solo mesto apparve Don Carlo. Ma il Llorente, poco esperto d'amori, non vuole ammettere alcun simile affetto nella virtuosa Isabella. E non contento di dire che non ne abbiamo veruna prova, prende a sostenere che era impossibile in lei un affetto qualsiasi per Don Carlo, perchè non poteva sapere d'essergli stata promessa; perchè il prìncipe poco prima era stato infermo di febre, e quindi le comparve inanzi dèbole e smunto; perchè trascurato nell'educazione non sapeva nemanco il latino; perchè davasi ad un vivere disordinato, perchè infine aveva un insopportabile orgoglio, ed era iracondo coi famigliari, e più ancora coi ministri di suo padre, tanto che aveva insultato e assalito coll'arme in pugno il duca d'Albam ch'egli mortalmente odiava. Ma in vero non pare che la pallidezza del viso, e l'ignoranza del latino, e il vivere sventato, e l'indole altera e impetuosa siano grandi colpe agli occhi delle amorose giovinette; nè che i secreti dei congressi possano essere così impenetrabili alle figlie delle quali si agita il destino, là dove le madri governano i regni.
Di nessun momento, ed a ogni modo troppo tardo, sembra il fatto, che, due anni dopo le nozze del padre (1562). Don Carlo «cadendo da una scala, ne ricevesse ferite pressochè mortali al capo e al dorso; per cui il padre accorse a trovarlo, e ordinò pùbliche preci, e gli fece applicare addosso il corpo del beato Diego; dopo di che Don Carlo cominciò a sentirsi meglio, ma restò sempre soggetto a dolori e debolezze di capo che talora scompigliàvano la sua mente, e lo rendevano talora insoffribile». Una passione già accesa non si spegne per disavventura dell'oggetto amato. Non vediamo poi come quel gravissimo scrittore possa dire che Don Carlo er un mostro, e che la sua morte fu la fortuna delle Spagne. Come provare che Don Carlo dovesse riescire più pèrfido e sanguinario di Filippo II, più impròvido e imbecille di Filippo III, di Filippo IV e di Carlo II, in cui quella stirpe si spense? E Llorente stesso narra che «le Spagne il compiansero molto; anche perchè non rimaneva allora al re progenie maschile; narra che quando fu arrestato, la regina Isabella e la principessa Giovanna di Portogallo sorella del re, la quale aveva primamente allevato il prìncipe, piangevano amaramente; che Don Giovanni stesso comparve una sera al palazzo in lutto, e il re dovè dirgli di depor quell'abito; che il papa e altri prìncipi intercessero a favore del prigioniero, e nessuno fece maggiori istanze dell'imperator Massimiliano, il quale lo voleva marito a sua figlia; che il vescovo d'Osma già institutore di Don Carlo, si era così cattivato il suo cuore, che mai non venne meno l'affezione e la confidenza sua, e il prìncipe nelle lettere gli si sottoscriveva: sempre vostro, che farò tutto ciò che mi domanderete; e gli ottenne da Roma la licenza di soggiornar fuori della sede vescovile sei mesi, per fargli compagnia; e non si offese mai della libertà che il dabben uomo si prendeva di pòrgergli ammonizioni. Le quali cose tutte manifestano come l'animo di Don Carlo non fosse chiuso ad ogni lodevol senso, e come non fosse tenuto un mostro, bensì fosse oggetto di benevolenza a non pochi che pure il conoscevano ben dappresso.
Che se aborriva il feroce duca d'Alba; se non poteva soffrirne il fratello, Garzìa Toledo, pòstogli custode dal padre; se proruppe in violenze con quel Don Giovanni che lo aveva secondato e poi trsdito, e con quel Ruy Gomez e quell'inquisitore Espinosa, che fatti suoi giudici si mostrarono poi tali da condannarlo a morte; ciò palesa animo intollerante, e se si vuole, fiero e selvaggio per negletta educazione, ma non corrotto e perverso. E se Espinosa si pigliò gusto di bandire di Madrid l'attore Cisneros, proprio nel momento in cui si recava a rappresentare una comedia nelle stanze di Don Carlo, e pregato dal prìncipe a soprasedere fin dopo la rappresentazione, superbamente si negò, non fa stupore che l'incauto e ineducato giovane lo minacciasse col pugnale alla mano, e prorompesse a dirgli: e chi è codesto pretuccio che osa resistere a me?. E infine, Don Carlo minacciò coll'arme in pugno i suoi nemici; e non li uccise. Ma gli astuti suoi nemici, senza molte minacce, lo colsero al varco: lo condannarono secretamente; lo misero a morte vile e furtiva, dissimulando poi con pompose esequie agli occhi dei pòpoli quel fatto obbrobrioso. Mancavano forse archibugieri o carnèfici, che fosse necessario violare i più intimi nodi della civile fiducia, torcendo a strumento d'assassinio una medicina?
Certamente Don Carlo non era senza amici, o almeno senza partigiani; e molti in Ispagna gli dièdero denaro pe' suoi disegni. E Filippo dovette, per mezzo del Corregidore, distoglier la città di Madrid dall'interporre offici in favor suo; e non gli lasciò avvicinar mai nessuno, fuorchè i suoi carcerieri, invigilati dal supremo fra tutti inesorabile Ruy Gomez prìncipe d'Èboli; e gli tenne l'uscio della stanza chiuso “con lucchetto, notte e giorno”; nè permise che in sei mesi lo visitassero la regina Isabella e la principessa Giovanna sua zia, le quali avevano implorato di fargli una vìsita per consolarlo. E «diffidava talmente, che visse quasi schiavo; interruppe le sue gite al Pardo, all'Escuriale, ad Aranjuez; tènnesi serrato nelle sue stanze, ad ogni minimo rumore accorrendo alla finestra, per timore di tumulti, sospettando dei Fiamminghi e d'altri partigiani.» Tremenda pittura, che fa credere più esoso ai pòpoli il punitore che il punito! - E sìano grazie a Dio, che anco i potenti della terra non possano senza fiere angosce disciogliersi dalle leggi di natura.
Forse un giorno l'istoria scoprirà qualche documento che spanda maggior luce su quei tetri avvenimenti4. Ma intanto fra gli scrittori che credono all'affetto di Carlo e d'Isabella, e quelli che non vi credono, l'opinione popolare penderà sempre verso i primi. E l'imaginazione, stringendo tempi e luoghi in un fascio, dimanderà che il poeta richiami a vita quella famiglia sciagurata che riempì di sangue e di làgrime tante famiglie e tante città; e dal silenzio del sepolcro tragga una volta ancora quelle voci di mortale odio e di funesto amore; e con potenti parole riveli quei secreti che amanti e nemici non dicono talvolta a sè stessi.
Sul cadere del sècolo scorso due poeti esposero sul teatro a due nazioni la trista istoria del re che potè uccidere un figlio senza dirne ai viventi nè ai pòsteri la cagione, Il Filippo di Alfieri fu primamente steso in prosa francese nel 1775, poi due volte in verso italiano nell'anno seguente, poi una terza volta, poi una quarta nel 1781. In settembre del 1782 era pronto alla stampa con trèdici altre tragedie; era stampato nel 1783.
Schiller, giòvane d'anni ventidue non anco compiuti, fuggiva nell'autunno del 1781 da Stutgarda e dall'importuno suo mecenate, per vìvere due anni in una solinga villa di Franconia dove tracciava le prime idèe del suo Don Carlo, e nel 1784 ne pubblicava alcune scene nel primo volume della Talìa. Nell'estate dell'anno seguente (1785) lo conduceva a compimento, ma dopo averlo del tutto rifatto, e dolente d'aver posto nella Talìa quei primi abbozzi. Queste date fanno pensare che la scelta dell'argomento fosse spontanea in ambo i poeti, benchè anteriore di parecchi anni in Alfieri; il quale, già pervenuto a virile età, lo ridusse primamente in iscritto nel 1775, quando Schiller era adolescente di quìndici anni; e rifatta la sua tragedia cinque volte, la pubblicò, quando Schiller tracciava i primi pentimenti della sua.
I sensi medesimi movèvano ambo gli scrittori: l'altiera speranza di levare a più generosi pensieri le loro nazioni, e l'odio del potere arbitrario e violento. Ambedùe, e per giungere a questo fine, e per assecondare le richieste dell'arte, fecero forza al nudo fatto istòrico. Ma come potrebbe mai la tragedia farsi dura legge del fatto, sino al punto di trarci inanzi un infelice a morire d'un purgante avvelenato?
Non è il modo materiale d'una morte, ciò che dopo tante generazioni sollecita ancora le nostre menti. Noi vogliamo, alla luce della poesia, mettere uno sguardo nell'intimo cuore umano, vogliamo vedere come una regina appassionata può essere magnanima e casta, come un padre può aborrire un figlio fino alla morte, come in mezzo ad una sterminata potenza una famiglia possa essere irreparabilmente infelice. La dimanda che ci sta nell'ànimo, è quella che moveva Dante a gridare fra il tùrbine eterno:
O ànime affannate,
Venite a noi parlar .....
I tuoi martiri
A Lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi al tempo dei dolci sospiri,
A che e come concedette amore
Che conosceste i dubiosi desiri?
E il poeta, che deve per lei rispondere alla nostra inchiesta, ben può, immerso nella sua commozione, trascurare luoghi e date, obliare che tra l'arresto di Don Carlo e la sua morte còrsero sei mesi, che tre ne còrsero dalla morte di Carlo a quella della regina. E Schiller, che scrisse pure una bella e severa istoria, la quale ci dipinge il duca d'Alba a spaventare e desolare il Brabante, e versare in quei giorni appunto sul patìbolo il sangue d'Egmonte e di Hoorne, nella tragedia pone il duca d'Alba a Madrid, sia per dipingere in intero tutta quella corte e quell'età, sia per fare più solenne di figure istoriche la scena, sia per aprire intorno a Carlo morente le fonti tutte dell'odio e dell'amore. Presso Alfieri, Filippo non solo arresta di sua mano il figlio, ma lo accusa di tentato parricidio avanti ai suoi ministri; ciò ch'è nella rigida verità istorica. Ma Schiller, che, diversamente da Alfieri, odiava più Torquemada che Tiberio, fa trovar Carlo travestito da fantasma negli appartamenti della regina, e lo fa consegnare dal padre ad un vecchio inquisitore, che da molt'anni vive solitario, e non mette piede in corte. E pure l'istoria dice che il grande inquisitore Espinosa viveva in corte, anzi presiedeva al Consilio di Castilia e al tribunale che condannò il prìncipe. Il fatto, che Don Carlo non perì nelle càrceri dell'inquisizione, fu messo in chiaro da Llorente, solo qualche anno dopo la morte d'Alfieri e di Schiller. Ma come potevano i poeti indovinare ciò che il tempo non aveva peranco palesato? La poesia non può farsi l'ossequioso e minuto daguerròtipo dell'istoria. Ogni frusto di carta, che si venisse scoprendo nelle botteghe dei rigattieri o nelle catacombe delle biblioteche, potrebbe, accusando circostanze ignote, demolir da capo tutto l'edificio; e i pòpoli, per piàngere in teatro con precisione istòrca e ipotecaria sicurezza, dovrebbero aspettare la fine dei sècoli, e la risurrezione dell'istoria universale nella mistica valle.
Quando il fatto in complesso sia cònsono, non tanto all'istoria, quanto all'attuale idèa che la nazione si è fatta di dati tempo e luoghi e costumi, il poeta ha compiuto il dèbito suo. Basta ch'egli diffonda su tutto il suo lavoro una gran verisimiglianza, giusta le opinioni invalse al suo tempo. Una generazione erudita nelle istorie naturalmente non può non esigere dai poeti una fedeltà sempre maggiore; poichè l'ignoranza o l'incuria offenderebbe le menti, e ad ogni passo raffredderebbe col dubio e colla critica e col disprezzo gli affetti. Ma tutta questa materia istòrica non è per l'arte più che una servile sustanza, destinata a ricevere e sostenere una forma; non è più che un corpo destinato a fodero dello spirito e della vita. Ciò che importa è l'efficace trattazione degli affetti e il profondo commovimenti delle moltitudini adunate. E se il poeta può darci questo, questo solo, gli sìano rimessi pure tutti i suoi peccati.
Alcuni vogliono che l'arte, se non le torna sempre facile o decoroso esporre il nudo fatto, rappresenti almeno con fedeltà i luoghi, i tempi, gli usi e le nazioni. Con questa dottrina converrebbe dar di bianco a tutte le Madonne e tutte le Maddalene che i nostri antichi dipinsero come il nostro pòpolo se le doveva figurare, cioè colla bellezza della sua stirpe e la prospettiva del suo paese; e si dovrebbe inevitabilmente dipingere la sacra famiglia, come, dopo la invasione dell'Algeria, i compositori francesi appresero a disegnare le Giuditte e le Rebecche. E rimarrebbe ancor dubio se Cleopatra o Berenice dovessero ritrarsi col profilo greco dei loro avi, o coi barbari contorni della sfinge egizia. Ma la nuova imagine elaborata dall'arte sopra un modello lontano non corrisponderebbe all'imagine che sta fitta nella mente del pòpolo. Questa pittura e questa poesia nazionaria o etnogràfica, è un altro campo e un'arte nuova; campo vasto ed arte bellissima; la quale però non deve frapporsi non richiesta a turbare co' suoi laboriosi insegnamenti la spontanea vena dei nostri affetti.
E' certo che tra pòpolo e pòpolo, tra generazione e generazione, corre gran divario d'indole e di modi; ma come indicare lucidamente e sicuramente il divario che passa fra l'amore d'una spagnola, e quello d'una persiana o d'una russa? E quand'anche taluno giungesse a trovare queste mezzetinte, come potrebbe poi, senza premettere un commento a sè medesimo, farle notare e apprezzar dalla moltitudine non curante d'erudizioni e avida d'affetti. La maggioranza degli spettatori in ogni paese si è fatta per costume certi suoi generi ideali, a ciascuno dei quali aggrega i personaggi che le si affacciano con nuovo nome. Essa ha il gènere del tiranno, e il gènere dell' amoroso, quello dell'innocente oppresso e quello del ministro maligno; poco le cale delle sottili gradazioni istoriche che dividono Tiberio da Filippo, o Virginio da Guglielmo Tell. In Germania nessuno si mette in capo di scrutiniare se gli spagnoli e le spagnole che il giovane Schiller dipinse come poteva in una villa della Franconia, non sìano per avventura tedeschi e tedesche. E in Italia diremmo ridicolo chi si proponesse di star duro e incommosso ad una scena d'Alfieri, solo perchè i suoi spagnoli, giusta il rito ereditario della nostra tragedia, si danno del tu alla greca e trasteverina, piuttosto che dell'usted o del Vuestra Altesa.
V'ha di più; un poeta scrive pel suo tempo; intinto delle opinioni che fèrvono in quell'istante, non può lasciar trasparire le sue affezioni; e in chi mira a scaldar gli animi, sarebbe malaccorto consiglio non appigliarsi a quei lati da cui le moltitudini sono già prossime a infervorarsi. Quindi la via d'Alfieri e di Schiller era prescritta nella tendenza dell'anime loro verso le calde opinioni del loro tempo; essa era tracciata ad Alfieri dall'impresa di Washington (1775), e a Schiller dal suo trionfo (1783), poichè tutte le menti giovanili in Europa n'erano accese. La via loro seguiva la spinta delle moltitudini, ch'erano in procinto ormai di precipitarsi nella sanguinosa tempesta che rinnovellò la faccia del mondo. Quando Schiller sempre più vicino all'anno memorando del 1789, e più ideale nelle sue speranze, personeggiò nel marchese di Posa quegli audaci desiderii e quelle smisurate aspettazioni, che fremevano allora nel seno dei pòpoli. Ma un siffatto Posa non poteva aver vita due secoli addietro, quando il nome d' umanità sonava in altro senso, e il corso progressivo delle istorie non era intravisto nemmeno dai più veggenti; e ogni nazione stava duramente chiusa nell'amor di sè e di sue cose; e non aveva dato ancora quel tributo d'elette menti che ora da ogni divisa patria convengono nell'amore della patria universale, dell'intelligenza e dell'umanità. Quindi il personaggio di Posa non poteva essere istòrico; ed ei medesimo lo dice:
Immatura è l'età per l'ideale
De' miei pensieri; cittadino io vivo
Fra color che verranno.
E siccome nelle mani di Posa si stringono quasi tutte le fila che mòvono volenti e nolenti gli altri personaggi, l'opera tutta ne prende un aspetto e un coloro che contrasta a quello dei tempi e dell'istoria. Da questa parte il quadro d'Alfieri, rattenuto per forza di rigori teatrali entro più ristretta cornice, si dilungò meno dalla natura istòrica, anco soltanto perchè v'era men campo a divagare in effusioni umanitarie. Diremo inoltre che questi calori dell'intelligenza inaridiscono alquanto le tenerezze della passione; il senso diviso è meno ìntimo e men profondo; e nella vasta contemplazione dei sècoli e dell' umanità, divien poca cosa il destino d'una coppia d'amanti. Laonde chi cerca nelle opere letterarie lo spirito istòrico, ascriva questa tragedia fra i documenti che dimostrano il modo di pensare del decimottavo sècolo piuttosto che quello del decimosesto, poichè tale è l'àura che per entro vi spira.
Ma è questa una colpa in poesia? Avviene forse altrimenti negli altri capolavori di quest'arte sublime? Il poeta vi versa sempre a piene mani le opinioni del suo tempo, i suoi costumi, i suoi timori, le sue speranze. E Dante empie tutti i tre regni di Guelfi e Ghibellini, di Toscani e di Romagnoli, come se altro non vi fosse nell'universo; e turba la pace del paradiso colle fiere invettive del Pescatore, contro
Colui che usurpa in terra il luogo mio,
Il luogo mio, il luogo mio ...
E il Carlomagno dell'Ariosto è forse quello di Sugerio e d'Eginardo? L'opinione che il pòpolo venne creandosi intorno a Carlomagno nel corso di sette secoli, non è istòrica, ma cavalleresca; essa raccoglie tutte le idee che le frapposte generazioni in Francia, in Inghilterra, in Italia, e più ancora in Ispagna, si andàrono dipingendo intorno alla grandezza e al valore dei combattenti, che avèvano fatto argine al torrente musulmano; e forse scaturisce da più vetusta fonte e dalle tradizioni avite degli Armòrici e dei Gallesi. Ma il vero Carlomagno dell'istoria è un indefesso e diligente amministratore, un prìncipe d'indole affatto moderna, anzi il primo esemplare del moderno principato; non è un capo di tornei, cinto di paladini, di donzelle erranti, di maghi e di fate. Egli è un Fiammingo, mezzo soldato e mezzo prete, che in sopràbito di pelliccia siede dettando leggi e capitolari; e viaggia con numerosa gendarmerìa per far battezzare i pastori della Frisia e della Turingia, e costruir chiese e conventi fortificati, e accasarvi abati e vèscovi che mèttano in quelle dure e fiere teste la dottrina cristiana. Tutto questo è vero; e il vero è prezioso; impariamo dunque tuttociò che i bàrbari secoli serbarono del vero Carlomagno. Ma non si disprezzi per ciò l'Ariosto; nè si disdegnino le follie d'Orlando, perchè sìasi scoperto che il vero Rolando dell'istoria non fu altro che il giudice o il fiscale del confine basco.
Fu per questa influenza del modo contemporaneo, che Schiller, benchè fosse per indole, assai più d'Alfieri, propenso ai pensieri religiosi, e nella sua istoria trattasse con profondo senso le ardenti credenze del sècolo XVI, non si curò di chiamare sulla scena quei zelatori di avverse persuasioni, nelle cui tenaci e deliberate coscienze stava allora il principio che sommoveva i pòpoli. Eppure avrebbe giovato assai a svelarci i secreti degli animi e dei tempi, se a fronte d'un impetuoso inquisitore ci avesse dipinto l'austera e pàllida fronte d'un seguace di Calvino. Ma il secolo di Schiller più non intendeva e non curava quelle fiere controversie, anzi le avvolgeva tutte sotto il nome di pregiudizi e di traviamenti. Epperò questa parte dell'altissimo argomento rimane intatta. E così ad ogni volger del sècolo lo stesso argomento può ricevere nuovo lume e nuovo aspetto, facendo specchio alle opinioni e alle speranze dei pòsteri, piuttosto che a quelle del tempo dal quale si prendono i fatti e i nomi.
Il furor delle sette disceso nella rozza plebe aveva sparso di ruine le Fiandre, prima che vi giungesse ci' suoi feroci il duca d'Alba. Da sette anni il paese era sgombro di milizie spagnole, quando come narra altrove lo stesso Schiller, «una furibonda turba di paesani, di marini e d'operai, mescolati con ladri, mendicanti e prostitute ... armati di mazze, di scuri, di martelli, di scale e di funi, e alcuni di moschetti e di stili ... rùppero le porte delle chiese e dei conventi, attràrono gli altari, spezzarono e calpestarono le imagini ... Questo furore in pochi giorni accese tutte le Fiandre ... E in Anversa ... si ùnsero le scarpe coll'olio santo; e sconvolti i sepolcri ne tràssero i cadaveri, e li conculcàrono ... Nello spazio di quattro o cinque giorni, in Brabante e in Fiandra soltanto, furono guaste quattrocento chiese»5. Perlochè Egmonte, Orange e gli altri capi dell'opposizione, ch'erano luogotenenti del re nelle provincie, avevano essi medesimi colle armi e coi patiboli represso quei furibondi; e due signori belgi, Launoi e Megeu, ne avevano sotto Anversa sterminato un migliaio col loro condottiere Tholouze. Quella rabbia era bensì effetto dei roghi così pertinacmente accesi e riaccesi da Carlo Quinto e da Filippo; ma le ruine non erano peranco l'opera di mani spagnole. Anzi il perfido duca d'Alba aveva cercato sulle prime d'assopire quel terrore stesso che il grido del suo arrivo aveva diffuso; e quando al suo ingresso gli venne incontro «lo splendido corteggio della più eletta signorìa del paese», egli non si mostrò tra le tetre facce dei soldati spagnoli, ma non senz'arte, trascelse a fargli scorta in Brusselle le dieci compagnìe dei Milanesi. E per tali modi inspirò sicurezza piena al credùlo e infelice Egmonte, «valendosi a ciò de' suoi figli Ferdinando e Federico Toledo, la cui giovinezza e amabilità meglio si confacevano all'indole fiamminga. Ed Egmonte si compiaceva d'entrare e uscire con ilarità dal palazzo del duca, e accoglieva quei giovanetti in casa, e si rallegrava dei loro inviti». E così dopo pochi mesi era tratto al patìbolo. Ma quando il poeta dipinge alla moltitudine le calamità di tempo lontani, debb'egli allacciarsi in minuziose date? Quando ha bisogno di raccogliere in un quadro tutto lo sforzo della luce e delle ombre, debb'egli, piuttosto che smòvere una data, smarrire volontariamente l'effetto? Se le date sono la croce degli scrittori, come pensava il sagace Foscolo, facciamo un privilegio a favor della passione e della poesia; lasciamo pure che Schiller antìcipi di qualche anno le vaste ruine onde le armi spagnole affissero pur troppo i Paesi Bassi; lasciamo pure che antìcipi l'età sessagenaria di Filippo, appena uscente allora di gioventù, se queste antidate sono un sussidio d'arte scènica, che aggiunge potenza alla sua pittura. Lasciamo pure che supponga vivo e minaccioso Solimano, morto già da due anni (1566); lasciamo che precipiti di vent'anni l'esterminio delle settanta navi ingoitate dal mare nell'assalto dell'Inghilterra (1588). Ma si vorrebbe che a queste differenze tra Schiller tragico e Schiller istòrico ponessero mente quesgli studiosi che, non so dove, hanno preso il concetto d'una tragedia senz'ale, che cammini al tutto cogli stivali dell'istoria, e hanno sognato una siffatta differenza tra l'arte di Schiller e quella d'Alfieri.
Diremo lo stesso delle pastorali dolcezze a cui si abbandona la regina nel giardino d'Aranjuez, in quei bellissimi versi:
Nel mio regno qui sono.
Qui de' miei giovanili anni l'amica,
La campestre natura, il suo saluto
M'invìa; qui trovo i sèmplici trastulli
Della mia fanciullezza, e l'àure io sento
Spirar della mia Francia.
Ah! pongo
In oblìo dove sono!
Eppure l'anno medesimo che Isabella lasciava l'àere della sua Francia, venivano appiccati alle mura d'Amboise i prigionieri protestanti e il cadavere del loro capitano Dubarry; si diroccàvano le case ove i protestanti compìevano il loro culto; piena la Francia d'uccisioni, di tradimenti, ci càrceri, di confische. La plebe ergeva altarini nelle strade, e ponevasi in agguato, e se alcuna oltrepassava senza inchinarsi, lo batteva, lo arrestava, anche lo uccideva. Una lega secreta e potente scriveva a Filippo II, offrendo a quel nemico inesorabile della Francia la difesa della fede, ch'è quanto dire il regno. Il barone Des Adrets precipitava dalle torri di Mornes duecento catòlici che avevano pur patteggiato salva la vita, e mozzava le mani a quelli che per salvarsi s'aggrappavano alle finestre; e questa era pur troppo vendetta de' suoi compagni, precipitati o appesi per le gambe alle mura d'Orange. Il duca di Guisa, il re Enrico III, il re Enrico IV uccisi a tradimento; i loro uccisori squartati poi fra il tripudio dei pòpoli; Andelot e la regina di Navarra periti per veleno; avvelenato da sua moglie Enrico di Condè. Nel tempo stesso che Don Carlo periva, e Isabella invocava l'àere di Francia, si ordiva colà quella spaventosa trama che, quattro anni dopo (1572), finì nella notte di san Bartolomeo, coll'assassinio di trentamila inermi. E il cadavere dell'ammiraglio Colignì fu impiccato per le gambe, e il suo teschio imbalsamato e spedito a una corte straniera; e in Lione si vide vèndere alla libra il grasso umano6. E il re Carlo IX, fratello d'Isabella, si sollazzava a bersagliare col suo archibugio gli sciagurati che in barca o a nuoto cercavano salvarsi oltre la Senna; gli abominii di quella notte furono tali, ch'egli poi non seppe più règgere alle paure dell'ombra notturna (nocturni horrores post casum Sambartholomaeum plerumque interrum- pebant; De Thou). E tra quei che avevano meditato da anni quel gigantesco assassinio era la madre appunto d'Isabella, nata pur troppo dalla colpevole stirpe de' Mèdici; e la sfacciata osava scèndere dal suo palazzo nelle strade allagate di sangue, a mirare con impudica fronte i cadaveri nudi e straziati, e farne col suo corteggio oscena facezia (Regina cum suorum pedissequorum numeroso comitatu inspicit, non sine magno et effuso risu; De Serres). Nove volte si giurò la pace, nove volte s'infranse il giuramento. Parigi abbarricata e assediata vide morir di fame dodicimila infelici; e dopo aver divorato le cuoia, i cani, le ossa dei morti, i bambini ... imperversava tuttavia, e offriva la corona di Francia a Filippo di Spagna.
Quando adunque Schiller dietro alle cupe e tristi verdure di Aranjuez colora un lontano sereno, e fa sospirare Isabella all'àere nativo, egli vuole essere poeta; e infonde l'ànima sua dolce e contemplativa nel cadàvere d'un secolo inumano. E questa perpetua e meditata infedeltà ben dimostra ch'egli, per principio letterario, riputava la tragedia non doversi fondar tanto sull'intima verità del costume quanto sulle opinioni invalse. E così nella sua romita villa, in un tempo in cui la Germania pensava al tutto col pensiero francese, egli non poteva dipìngere la ispida e tetra Francia dei Guisa e degli Ugonotti, ma quella mansueta e gentile che aveva produtto il Telèmaco e la Novella Eloisa, poichè i suoi contemporanei non l'avrebbero altrimenti raffigurata. Laonde se alcuno crede che possa lavorarsi una tragedia veramente e rigidamente istòrica, non alleghi l'autorità di Schiller meglio che quella d'Alfieri; e se si mette per questa nuova via, si faccia arditamente guida a sè stesso.
Noi godiamo di ravvicinare i noemi dei due illustri poeti, appunto perchè altri si studiò troppo d'allontanarli e contraporli. Ed è ben vero che a primo aspetto immensa appare la differenza tra l'affollato e ubertoso fregio di Schiller e il parco e meditato gruppo d'Alfieri. Un atto di Schiller conta un migliaio di versi, ed eguaglia quasi di mole tutta la tragedia italiana. Questa è una dissimiglianza materiale, che dipende o dalle diverse abitudini dell'uditorio presso le due nazioni, o dall'essere l'uno dei lavori destinato più specialmente alla rècita, e l'altro piuttosto alla lettura. Ma l'ampio corteggio del Don Carlo per sè non offre molt'esca a quella profonda commozione, nella quale l'animo dello spettatore agogna a rinserrarsi. Nè quel codazzo d'èsseri più o meno indifferenti lascia d'arrecare una qualche distrazione; e la fatica di riconoscerli e raffigurarli ad ogni ritorno sulla scena, non va senza qualche molestia; e se pur nulla toglie, certo poco aggiunge all'intimo effetto. Si dirà che quella numerosa mascherata di cortigiani è una più fedele imitazione del vero, perchè i prìncipi sono condannati ad operar sempre tra una folla di cerimoniosi osservatori; ma il vero che noi cerchiamo nella tragedia, è il foco delle passioni, non il gelo dell'etichetta. E il numero dei personaggi parlandi rende sempre più difficile la rappresentazione, màssime nelle minori città; poichè i valenti attori non sono molti, e la misura dei fiacchi guasta l'òpera commune. E tra le cose che quei tanti personaggi dicono e fanno, le più importanti all'effetto potrebbero farsi dire e farsi fare da minor brigata; e officio dell'arte è appunto di sgombrare e agevolare il campo all'inspirazione. Forse basterebbe contornare l'austera solitudine alfieriana con un corteggio collettivo e semimuto, che senza la pretesa di molte e disùtili individuità, rammentasse in certo modo il coro della tragedia greca. E forse è meglio conchiudere dicendo, che codesta infine è piuttosto questione di cornici che di pittura.
E infatti sommamente minore si fa la differenza delle due tragedia, se raccogliamo il paragone sui personaggi capitali, o per meglio dire sui personaggi appassionati e interessanti. Ambo gli scrittori abbracciarono la poetica supposizione dell'affetto di Carlo e d'Isabella; ambidùe lo abbellirono di riserbo e d'innocenza; ambidùe pòsero poco inanzi alla morte la prima dichiarazione; in ambedùe la regina assume in faccia all'amante e allo sposo i diritti di un'altera virtù, che sente il sacrificio, ma lo consuma generosamente. Ambidùe donarono a Don Carlo quell'altezza di volere e d'intelletto, che gli venne negata dagli istòrici; e prefersero alla semplice verità l'interesse degli spettatori, il quale non poteva correr dietro a un giovinastro inculto e superstizioso. Ambedùe dipingono in Filippo il dèspota e il fanatico, la gelosia senza l'amore, il Tiberio accanto a Sejano; ammbidùe pòngono a lato all'oppresso la cara idea dell'amistà fedele sino alla morte.
Ma Posa non è, come Perez, l'incarnazione della pura amicizia; egli è per soprapiù un capo di setta, fuori della corte; e in corte è un audace venturiero, che in poco d'ora, e quasi senza posar il vestimento di viaggio, riesce ad avvolgere amici e nemici in un improviso labirinto, in mezzo al quale, com'ei medesimo confessa, un buio gli acceca l'intelletto, sicchè smarrisce il filo, e vi perde gli altri a sè. La figura che non ha riscontro in Alfieri, e averlo non poteva, è quella della Èboli; vana, volùbile, venale, ingrata; vile col padre, sfrontata col figlio; rizzata solo a qualche dignità da' suoi disperati rimorsi. Ma questa figura ignota all'istoria, mentre rende men tetro e quasi effeminato il personaggio di Filippo, e indegnamente vili quelli di Domingo e d'Alba, nulla giova a scaldare e raccogliere l'affetto; e troppo importunamente frappone le immonde sue leggerezze fra quelle tremende passioni che si spèngono solamente nel sangue. Infine i raggiri di Domingo, della Èboli e di Posa, le chiavi, le scale, i portafogli, gli scrigni, le lèttere, i ritratti, le dame, i mèdici, i paggi, fanno sul fondo del quadro un rimescolamento e un intreccio di natura del tutto còmica, il quale mentre stende la tragedia a faticosa prolissità, ne infrasca l'andamento, ammorza il chiaroscuro, sciupa l'unità dell'effetto e quella che il buon Torti chiama l' unità del core, e dà troppo agio alle làcrime d'inaridire. È un'arte contro l'arte.
In nessun luogo il Don Carlo di Schiller è più tenero e caro che in quella espansione d'amicizia.
Io più non sono
Quel Carlo tuo! ...
Ah ch'io versi, ch'io versi,
Unico amico mio, queste cocenti
Làgrime nel tuo seno! A me non vive
Sulla terra infinita una pietosa
Ànima, una pietosa ànima sola!
Per gl'immensi dominii, ovunque tocchi
Lo scettro di mio padre, ovunque afferri
La prora ispana, un àngolo non trovo,
Fuor di questo tuo seno, ove piangendo
Sollevar le mie pene...
Io non conosco
Filiali dolcezze, io sventuraro
Figlio d'un re.
Poco monta invero se il Don Carlo dell'istoria fu per avventura un giòvine rozzo e brutale, quando sotto il suo nome SChiller ci dona questa dolce poesìa, che rivela ignote e inaspettate miserie là dove il vulgo sogna perpetue felicità:
A me non vive
Sulla terra infinita una pietosa
Ánima, una pietosa ànima sola!...
Io non conosco
Filiali dolcezze, io sventurato
Figlio d'un re.
Se nonchè, e quasi senza èsserve richiesto, Carlo pròdiga a Posa il secreto dell'amor suo, che inoltre è già contaminato fin nella prima scena dal curioso Domingo:
Un terribile arcano è qui sepolto
Come fiamma racchiusa....
Raccapriccia, ma taci. - Amo mia madre. -
.....................................................
Questa via mi conduce alla demenza ...
Al patìbolo forse. È senza speme
L'amor mio - scellerato, - un'agonìa
Più crudel della morte; io tutto veggo,
Ma pure io l'amo! ...
Oh Rodrigo, un istante, un breve istantr
Solo con lei!
Se bramate ottener dalla regina
Un colloquio segreto, in questo loco
Può soltanto avvenir ....
Purchè un raggio che sperar vi faccia,
E la pieghi ad udirvi, e mi riesca
D'allontanar le dame sue ....
E Carlo aveva già precorso l'intèrprete officioso nell'onorato negozio:
Cortesi
Le più mi sono. Guadagnai fra tutte
La Mondecar coll'òpra d'un mio paggio
Figlio di lei.
La verità dei fatti e delle parole, anche nei più eminenti luoghi di questa bassa valle, potrà forse esser questa. Ma chi non sente che dalla sublimità della tragedia, destinata a interrompere con ardui esempi le trivialità e le corruttele della vita, qui siamo caduti fra le ironie del Casti? E tosto eccoci nel giardino, ove Posa coll'equìvoco suo messaggio s'insinua nel cortèo, e si fa inanzi con una novelletta, i cui graziosi versi ci rammentano troppo:
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse.
Ben altrimenti in Alfieri, la scena di confidenza coll'amico succede al colloquio colla regina. Carlo, quasi fuori di sè, s'avviene in Perez, che lo dimanda della cagione di tanto suo turbamento. Il prìncipe nulla risponde; e questo silenzio, in ànimo agitato e bisognoso d'espandersi, è gran delicatezza. PErez insiste, ma Carlo nulla gli apre dell'amore; si lagna bensì dell'odio del padre, e delle arti de' suoi ministri. Perez, vero amico, cerca di placarlo, e gli mostra Filippo ingannato dagli adulatori:
Non sa il vero il re.
E si offre a sventare presso Filippo quelle calunnie:
Io primo,
Io gliel dirò per te.
Ma Carlo ha mirato più profondamente nel cuor di Filippo:
Più che non credi
Il re sa il ver!
Chiuso inaccessibil core
Di ferro egli ha ....
E perciò ricusa le difese dell'amico, pur mostrandogli ànimo riconoscente:
La mia difesa lascia
All'innocenza.
Intercessor, s'io fossi reo, te solo
Non sdegnerei. Qual d'amistade prova
Darti maggior poss'io?
Allora Perez prende animo, e si spinge innanzi:
Del tuo destino,
E sia qual vuolsi, deh! fammia a parte;
Avrai compagno
Inseparabil me d'ogni tuo pianto.
Duol che a morir mi mena in cuor rinserro,
Alto dolor, che pur m'è caro. Ahi lasso!
Che non te 'l posso io dire?
Ah no, non cerco,
Ne v'ha di te più generoso amico;
E darti pur d'amistà vera un pegno,
Coll'aprirti il mio cuore, oh ciel! non posso.
E si volge a parlar d'altro, della corte, dei cortigiani. E Perez, gentile amico, e vero e severo Spagnolo, rispetta il secreto, e tuttavia gli offre il sacrificio della vita:
Tu dentro al petto
Mortal dolor, che non puoi dirmi, ascondi?
- Saper nol vo'. - Ma s'io ti chieggio e bramo
Che a morir teco il tuo dolor mi tragga,
Duramente negàrmelo potresti?
Carlom custode vittorioso del secreto, accetta il sacrificio, e consolato gli porge la mano:
Infausto
Pegno a te dono d'amistade infàusta.
Te compiango, ma omai del mio destino
Più non mi dolgo, e non del ciel, che largo
M'è di sì raro amico.
E Perez nella tragedia d'Alfieri non ricompare più se non a sciògliere la sua parola, e difendere Don Carlo nel consiglio del re, ove l'amicizia infiammata dal pericolo lo fa trascorrere oltre ogni usato riserbo. Filippo s'accorge di lui, dello Spagnolo di tempra antica, di quella tempra cavalleresca ch'egli e i predecessori suoi tanto fecero per ròmpere e avvilire, e di cui Cervantes raccoglieva nel mesto suo riso la smarrita forma:
Quai sensi!
Quale orgoglio bollente! - Alma sì fatta
Nasce ov'io regno?
E senz'altro mezzo, la prima e l'ùltima novella che abbiamo di Perez è questa:
Perez trafitto more.
E così l'amicizia fa il sacrificio della vita, senza riscòtere il prezzo del secreto; e il nom ed'Isabella non si confida nemmeno alla pietra sepolcrale di Perez. Questa bella e nobil figura, degna di Dante, ci viene inanzi solo per dare il suo cuore e la sua vita. È il vero ideale del cavaliero, come si concepiva in Ispagna, e se si vuole, come si concepiva in quell'altro paese, dove Antonio Foscarini soffriva la tortura, e saliva al patìbolo, piuttosto che palesare il nome d'una donna. Noi sentiamo profondamente il dolce affetto onde ribòccano i versi di Schiller nei bellissimi versi del suo interprete; siamo grati a chi dona alle nostre lèttere questo nuovo tesoro; ma per verità in questo paragone sentiamo l'orgoglio d'essere concittadini d'Alfieri! Sono figure le sue di più nobil metallo. E lasciamo pure che Schlegel, accecato dal suo rancore, non discerna gli evidentissimi e nobilissimi tratti del costume locale, che il viaggiatore Alfieri aveva potuto studiare dal vero, e per maggiore conformità di natura poteva intendere meglio di lui7.
E il Domingo, turpe figura in cui si anticipa di vent'anni la scienza babilònica dell'infame Molina, troppo presto e fin dalla prima scena, osa gettare insidiosi e inverecondi motti a Don Carlo intorno alla regine; e dirgli che il suo dolore cagiona làgrime non poche alla sua madre,
La più leggiadra
Delle donne scettrate, anzi di quante
Han tìtolo di belle ... e a voi già sposa.
E osa rammentargli, come all'annuncio ch'egli fosse ferito nel torneo, la regina si lasciò sfuggire in pùblico un grido di spavento:
Pallida, e quasi dal veron si getta;
e che quando le si disse che il ferito era soltanto il re suo marito:
La sbigottita .... respirò.
Nè codesto primo aspetto, in cui si palesa la regina, ci reca a riverirla e amarla, e temere per lei; nè Domingo mostra prudenza e misura di cortigiano; nè Don Carlo dovrìa tolleràrselo inanzi; e il cacciarlo sarà men basso che scèndere a dirgli:
Tali
Riferitori di parole, e spie
D'atti e di sguardi, ammòrbano la terra.
E tuttavia Domingo persiste a dirglisi vero amico e il più fedele de' servi suoi, e si offre a confessarlo; e rifiutato, come satèllite del re e violatore del sigillo sacramentale, placidamente rinega:
CAR. Ditelo al re che vi mandò.
DOM. Mandato
Io dal re?
Il tradimento
Mi circuisce, e cento occhi venali
Vègliano su' miei passi. Il re Filippo
Vende al più vile de' creati suoi
Il proprio unico figlio.
E chiude la scena dilettandosi dell' ira onde suo padre fremerà nel sapere l'arcano di cui lo divora curiosa febre. Ma, poniamo pure che Don Carlo potesse obliare ogni dover di figlio; poteva egli, in delicatezza d'amante e di cavaliere e di spagnolo, esultar nell'idea che Filippo penetrasse l' arcano? Nella scena d'Alfieri che corrisponde a questa (III dell'atto terzo), Gomez chiede con cortigiana umiltà, che il prìncipe lo lasci
Entrar ... a parte
Della giusta letizia, onde lo colma
La riacquistata alfin grazia del padre.
E gli vanta i servigi che gli ha prestato e che vorrebbe prestargli. E Carlo non lo chiama nè spia, nè traditore, nè sacrìlego, nè venduto, nè vile. Ma, senz'altro dire, gli volge le spalle. - E questo è atto da prìncipe e da uomo leale e sdegnoso. E Gomez medesimo lo spiega in poche parole:
Superbo molto ... Ma più incauto assài!
Parole profonde, che mostrano e quanto implacabil ira desti il disprezzo, e quant'arte di vivere sia necessaria anche ai potenti. La scena di Schiller, quasi lunga quanto un atto d'Alfieri, non ci manifesta l'intimo degli ànimi e delle cose più che i sei versi, in cui Gomez fa le umili sue congratulazioni e le sue proferte, alle quali il prìncipe risponde colle spalle; e il cortigiano offeso e conscio della secreta sua potenza, soggiunge quella parola tutta pregna di vendetta e di veleno: Incauto!. Ma nè tutti gli scrittori hanno il dono d'abbracciar tanto senso con una parola; ciò che Longino chiama il sublime; nè tutti i lettori hanno tatto d'avvedersene, e di valutare il diverso grado di morale altezza a cui può giungere ne' suoi scrittori una nazione.
Sublime è quella feroce compassione che il malvagio astuto dimostra al superbo incauto, che debb'essere vittima sua. Ma non perciò potrà dirsi coll'acerbo e capriccioso Schlegel, che qui i malvagi d'Alfieri palesino la loro scelleraggine a volto scoperto; il che meglio potria dirsi della Èboli ,e di Doming, e d'Alba, e d'altri pur troppo dei personaggi di Schiller.
La voltata di spalle simiglia a quella con cui Didone risponde alle misere discolpe dello straniero traditore nell'Inferno di Virgilio. Virgilio, sì poco e sì grossamente inteso dalla critica novella, fu primo a dare dignitoso costume alla donna; perchè potè studiare nelle matronie di Roma quella signorile imàgine che Omero non potè incontrare lungo le fontante, ove attingevano aqua e lavavano panni le figlie dei prìncipi achèi. E la poesia, appena risurta in Italia, rese tosto gli aviti onori alla virtù femminile, e cantò col cavalier ghibellino:
Ella sen va sentendosi laudare
Umilemente d'onestà vestuta,
E par che sia una cosa venuta
Di cielo in terra.
E Alfieri si attenne all'antica tradizione italica, incarnata nelle altiere fronti delle donne di Raffaello, e fece Isabella gelosa del suo secreto perfino all'amante:
Di Filippo il figlio
Oso amar, io? ...
Ah! perchè tal ti fero
Natura e il cielo? ... Oimè! che dico? imprendo
Così a strapparmi la sua dolce imago
Dal cor profondo? Oh! se palese mai
Fosse tal fiamma ad uom vivente! Oh! s'egli
Ne sospettasse!...
Ah! no 'l sapess'io, come
Altri nol sa!
Ma perchè comincia Schiller la tragedia col sottoporre il secreto della regina alle luride facezie di Domingò? PErchè quella folla d'intercessori che assediano del pari la Èboli e la regina, e tra cui vediamo in vituperoso mazzo l'umanitario Posa e l'inumano duca d'Alba? Il primo moto di Don Carlo non è quello d'un profondo amatore spagnolo, ma quello d'un aperto e frìvolo damerino del tempo della Sévigné.
Sei giunta
Ora gran tempo sospirata! Io posso
Baciarla alfin questa mano diletta!
Il primo moto della regina è quello d'una cameriera pizzicata:
Prìncipe, quale ardir! Qual temeraria
Colpevòle sorpresa! Il mio corteggio
Non è discosto...
Ebro! delirio!
A quale audacia il mio favor vi spinge?
Vi sfuggì dal pensier che gl' impudenti
Vostri detti son vòlti alla regina?
Alla madre son vòlti? e che potrei
Farvi caro costar dal re Filippo ...
Ma il primo incontro degli amanti d'Alfieri è nobilitato dal dolore:
Sfuggi tu pure nu infelice oppresso?
E Isabella:
Il sai qual vita io tragga
In queste soglie...
So le tue pene, e i non mertati oltraggi
Che tu sopporti.
Ah! tu non sai
Qual padre io m'abbia ....
Filippo è quei che m'odia; egli dà norma
Alla servil sua turba.
Io d'esser figlio
Un dì potessi, ed allentare il freno
Ai repressi lamenti; ei non mi udrebbe
Doler, no mai, nè dei rapiti onori,
Nè della offesa fama, e non del suo
Snaturato, inaudito odio paterno;
D'altro maggior mio danno io mi dirrèi ...
- Tutto ei mi ha tolto il dì che te mi tolse.
E Carlo non potesta di star genuflesso in eterno anche con perìcolo manifesto della regina; ma si rassegna a quel tènero e casto addio d'Isabella:
Teco i miei pensieri,
Teco il mio core, e l'alma mia ...
Ma de' passi miei
Perdi la traccia. fa ch'io più non t'da,
Mai più!
È ben vero che a questra tràgicaa dignità s'inalza tratto, ma troppo raramente, anche la regina di Schiller:
Il mio dover lo vieta.
Mìsero! che vi giova una infelice
Indàgine del fato a cui n'è forza
Sopporne entrambi ed obedir?
E seco lei s'inalza anche Don Carlo:
Perduta io v'ho! perduta
Eternamente! Il fatal dado è tratto.
Senza speranza io v'ho perduta! In questo
Sentimento è l'inferno.
Ma noi amiamo di sentire da Isabella una dimanda come questa:
Chi dice
A voi che degna di pietà mi sia
Al fianco di Filippo?
Se più gradito
Il muto affetto di Filippo, il suo
Rispettoso linguaggio a me tornasse,
Che l'audace contegno e la favella
Del suo vano figliuol? se la pacata
Ossevanza d'un vecchio...
E colla dimanda cade assai basso anche la risposta di Carlo:
Altro è ben questo!
Allora ... allor perdono! - Io non sapèa
Che voi l'amaste; no 'l sapèa! ... Perdono!
Ma chi precìpita più profondo di tutti è Filippo, il più sospettoso e vigilante dei re, divenuto il più presbite dei mariti, che non s'accorge delle sue disgrazie se non quando le sa tutto il pòpolo:
Dunque l'ùltimo io son ne' miei dominii,
L'ùltimo che lo sappia?
Il pòpolo
Bisbiglia di me?
E nell'idea della imprevista sua disgrazia l'insensibile Filippo vaneggia tosto, come un re Lear:
Lerma, t'appressa! ....
Son io tradito? ....
Hai moglie tu? sei padre?
Sei marito, e ti cimenti
Di vegliar una notte il tuo Signore?
È già bianco il tuo capo, e non arrossi
Pensando all'onestà della tua donna?
Ritorna alle tue case, e nelle inceste
Braccia materne troverai tuo figlio.
...........................................................
Stupisci? Il tuo maligno occhio m'indaga?
Si potrà dire che nell'interno delle corti tutto può farsi e dirsi colla stessa semplicità come nel tugurio d'un fabro. Così sarà fatto; ma la moltitudine si dipinge le cose ben altrimenti. E appunto perciò le nazioni invòlgono di tanta poma i regnanti, appunto per celare a sè medesime quella misera communanza delle umane sorti, e crearsi un'idea di grandezza, avanti a cui poter essere ossequiose e riverenti Quindi codesta trivialità di costume, se fosse anche vera, sarebbe inverosimile alla moltotudine, e riescirebbe men poetica della opinione vulgare, la quale imagina grande e decoroso tutto ciò che ha potenza e vive nell'istoria.
Al contrario in Alfieri, Filippo è il primo a concepire un sospetto; anzi il sospetto suo sembra aver precorso anche il colloquio degli amanti. Egli è il primo a farne cenno al fido e secretissimo Gomez; ma qual cenno?
Vien la regina
Qui fra momenti, e favellare a lungo
Mi ùdrai con essa; ogni più piccol moto
Nel di lei volto osserva.
E dopochè in più scene ha tenuto a indiretta tortura i secreti d'Isabella e di Carlo, e crede averne tratto un bastèvole barlume, egli, il famoso dissimulatore, non ancora chiama le cose col loro nome, ma si ristringe a dire a Gomez:
Udisti? Vedesti?
Fuor del mio aspetto
Nuovo consiglio or si raduni ...
Sol si ascolti il vero. -
..... Sentenziate.
E al cominciar dell'altro atto, il re, da tante spade preceduto, arresta il figlio, senza che il secreto di famiglia sia traspirato in altri che in Gomez; il quale astutamente se ne vale per precipitare con perfida pietà Isabella nella prigione di Carlo, e perderla con lui. La forza d'ànimo di Filippo è spaventevole; egli vede, egli delibera, egli intraprende, e tutto fa col più profondo secreto; e si mostra ben colui che per quaranta e più anni volle esser l'unica volontà d'un vasto imperio, e a cotesto tetro sogno immolò le intere nazioni, la sua potenza e il suo sangue.
Giustizia vuol però, che si dica che il Filippo di Schiller manda egli pure di tempo in tempo qualche formidabile ruggito:
Che mostri odio l'Infante
Sopra i miei consultori a me non duole,
Duolmi il saper che li disprezzi.
E altrove:
Tutti i miei Grandi aunerò, sedente
Io medesimo a giudizio; e là v'aspetto.
Se l'ànimo vi basti, a dirla re,
La Regine morrà. Senza riscatto
Ella morrà col figlio mio. Ma quando
A scolparsi giungesse .....
...... Morrete voi.
La memoria
Della mia debolezza ardir v'inspira.
Pare che Schiller, per dar contrasto alla luce, abbia voluto esagerare l'età di Filippo, e porre in evidenza la sua canizie e l'esàuste forze; e quindi tratto quel re di quarant'anni pare un Saulle curvo e cadente e tormentato dall'imagine del suo successore.
Il trono mio
Règgesi ancor? Di questa terra ispana
Più non sono il monarca?
A lui piegate
Le ginocchia! prostràtevi al fiorente,
Al più giovìne Re! Filippo io fui,
Ora un vecchiardo senza possa.
Delle regie insegne
Vestìtelo! guidàtelo in trionfo
Sulla morta mia spoglia ...
E qui sviene. E questa è troppa molllezza nel più duro e dissimulato degli uomini, che aveva pocanzi condannato una làcrima fuggita a suo figlio:
Tu piangi? Oh vista abominiosa! Lungi
Da me! Ritorna dalle mie battaglie
Col rossor d'una rotta, e le mie braccia
T'accoglieran; ma vile io ti respingo.
Per che modo
Qui fra le umane creature è giunto
Costùi che non palesa ìndole umana?
Ha secco il ciglio -
Non gli è madre una donna!
Come dunque in poco d'ora costùi si è fatto un vecchiardo senza possa, e sviene? E se non è i lduca d'Alba, che lascia altrùi la cura di coricarlo, e si assume di ricomporre la città, noi vedremmo il ferreo dominatore sommerso nel momentaneo tumulto di pochi prezzolati. Laonde se il Filippo d'Alfieri e il Tiberio di Tacito ad alcuni pàrvero astrazioni marmoree, spinte oltre l'umana natura, il Filippo di Schiller non raggiunge nemmeno l'imàgine tracciata dalla istoria e colorita dall'odio dei pòpoli.
Carlo, che ad ogni modo tradiva il padre e il re, non poteva più dirgli con sicura fronte:
La tua mano, o padre!
O dolcissimo giorno! .....
Sì lungamente dal tuo cor? Che feci?
Nè poteva, conscio di sè, dimandargli: Che feci? Nè in faccia all'impoetico Filippo poteva stemperarsi con verisimiglianza in quelle tenerezze arcàdiche:
D'un soave
Presagio il cor mi batte. Innmorato
Tutto il ciel co' suoi mille occhi ne guarda.
O quanto è dolce
Qual sentirsi adorati in una bella
Ànima! quel saper che la tua gioia
Le mie guance colori, il tuo timore
Pàlpiti nel mio seno, e le tue pene
Facciano lagrimoso il ciglio mio!
Quanto è bello e divino il roseo calle
Ritèssere degli anni, a man recando
Un amato fanciullo, e il dolce sogno
Risognar della vita un'altra volta!
E sono versi soavissimi, ma di maniera metastasiana; e Filippo non li poteva tampoco intèndere; e Carlo aveva in quell'istante troppi pensieri; e sono i sentimenti del poeta, non quelli dei suoi fieri personaggi. Se non che, tosto riappare la verità e la forza tràgica in quei gravi e profondo rimproveri, e in quelle calde preghiere che Carlo volge al padre:
Tu m'hai del tuo paterno animo escluso,
Non men che dal tuo soglio. E ciò fu pio?
Fu giusto, o padre? Il prìncipe, l'erede
Dell'ispana corona, uno straniero
Fatto in Ispagna? un prigionier ne' regni
Su cui dominerà? Fu pio? fu giusto?
Quante volte, o mio padre, al suo chinài
Vergognando gli sguardi, allor che il labro
D'un estranio legato, o d'un editto
Pùblico il grido, mi narrò le nuove
Di questa corte, in questa corte!....
Omài
Risvegliato mi sento; il regio trono
Qual minaccioso creditor mi scote
Dall'ignavo letargo, e le perdute
Ore nel sonno giovanil mi fanno
Come dèbiti sacri al cor rampogna .....
Accòrdami le schiere!
Màndami in Fiandra! Al dolce ànimo mio
La raccomanda. Il sol mio nome, il nome
Del regio Infante, che le tue bandiere
Preceda, è squillo di vittoria, dove
Di sterminio lo sono e di spavento
I carnèfici d'Alba. - A te lo chieggo
Genuflesso. La mia prima preghiera,
La prima, o padre, che ti muovo, è questa,
Confìdami le Fiandre! ....
No, non vorrai
Con sì dura ripulsa allontanarmi! ...
Necessità potente
È questa mia! L'estrema e dispetata
Mia prova. Io non lo soffro, io non lo posso
Rassegnato soffir che tutto tutto
Rifiutae tu mi debba. Inesaudito,
Deluso nelle mie care speranze
Or da te m'allontani. I tuoi Domingo,
Gl alba tuoi baldanzosi esulteranno
Ove tuo figlio nella polve ha pianto...
Tutti sanno costor che m'assentisti
La solenne udienza. Oh non coprirmi
Di tal vergogna! Non passarmi il core
Di questa mortalissima ferita!
Segno alla bassa irrision non farmi
De' tuoi regi serventi, e non si dica
Che lo stranier s'abbèveri alla tazza
Del tuo favore, e sol digiuno il labbro
Del tuo
Carlo ne sia. - Fa manifesto
Che tu m'onori ......
Accòrdami le Fiandre!
Io non debbo, io non posso in questa terra
Più rimaner. Qui grave è il mio respiro
Come lo soffocasse il manigoldo,
E quest'aere sull'anima mi pesa
Pari al rimorso d'un delitto. Un pronto
Mutar di cielo risanar mi debbe.
Se ti punge un pensier della mia vita,
Màndami nelle Fiandre!
Il paragone che siam venuti abbozzando fra i due illustri tragici delle due nazioni, e che tornerebbe inutile condurre più avanti, mira a cancella quel vano odio e quello stolto disprezzo che Schlegel pur troppo si compiacque tanto di seminare, abusando di disunir le nazioni quelle stesse òpere dell'ingegno che dovrebbero essere il più saldo pegno di vicendevole rispetto. Noi vorremmo che messe una volta in disparte le trite e superficiali controversie d'unità, di mole, di forma e d'intreccio, si apprezzasse nella tragedia sopra tutto il valor morale e intimo delle figure poste in azione. E allora siamo certi che lo spassionato osservatore, dopo aver trovato nell'òpera di Schiller belle d'un òrdine altissimo e tratti che spirano il più delicato affetto, si lagnerebbe che rìescano dispesi a soverchi intervalli, tra un fogliame di freddi accessorii. Riconoscerebbe che la vantata verità del costume locale consiste più nel materiale contorno di dame, e grandi, e paggi inginocchiati, che nell'ìntimo sentimento di dignità che il pòpolo spagnolo serbò sempre nel tempo del suo fiore e nel suo decadimento; e quindi loderebbe piuttosto il fondo del quadro, o direm pure la cornice, che le figure e le movenze. Riconoscerebbe che l'illustre istòrico, al paro d'Alfieri, anzi più assài d'Alfieri, sprezzò nella tragedia il rigor delle date, e le smosse liberamente e le aggruppò, come le smove e aggruppa naturalmente la oscillante memoria e l'impaziante imaginazione dei pòpoli; e, com'è ben giusto, le fece serve alle alte ragioni della poesia e dell'effetto. Riconoscerebbe che Schiller, al paro d'Alfieri, si valse dei uomini d'un'altra età, per incarnare le opinioni e i voti del mondo contemporaneo. Infine non negherebbe che se si scrùtano con severo sindacato le singole figure, la regina talora scende al ragguaglio di donna vulgare; Don Carlo e Posa non hanno la rigorosa idealità del cavaliere spagnolo; e in Filippo e in Alba manca quella fermezza e durezza d'ànimo che infatti èbbero; mentre ed Alba stesso e tutta la corte càdono a più abietta corruttela che non sia loro attribuita nemmeno dai loro nemici. Perlochè in generale l'òpera d'Alfieri, comunque angustiata dallo spazio e dalle rìgide osservanze teatrali, sovrasta per precisione di date istòriche, per verità di sentimento nazionale, per concentrazione di luce e di calore, e soprattutto per continua delicatezza e dignità. Lo squisito mèrito di Schiller risiede sopra tutto in quella spontaneità e sovrabondanza, con cui si effondono le concezioni d'un ingegno ineguale ma liberissimo, e tutto ridondante di giovanile fecondità.
Ma siccome nessuno ci costringe a prender l'una delle tragedie e ricusar l'altra; siccome nessuno ci vieta d'abbracciare con equo e candido giudizio ambo gli illustri poeti; così noi, lasciata ogni cosa a suo luogo, diremo il nostro desiderio che da ogni lato si appòrtino pure le straniere dovizie a fecondare il nostro terreno. Ciò non ne torrà la coscienza della nostra dignità nazionale confidata a troppo glorioso nomi, benchè di tempo in tempo torni necessario l'astèrgerli dalla polvere del tempo e dal fumo delle opinioni estreme. Noi facciamo ànimo al felice ingegno che prestò all'insigne straniero la veste del franco e splendido suo verso, e gli auguriamo costanza di compiere l'ardua impresa. Non siamo tra quelli che, scambiando la forza dello stile colla fortùita asprezza dei suoni, o colla nudità delle articolature etimològiche, vogliono attribuire disegual grado di vigore alle due lingue; e quindi siamo tentati a rìdere di chi per ostentare più profonda dottrina e più squisito senso, affettasse di trovare troppo gracili ed inadeguate forme nella lingua di Dante. Siamo certi, che l'impressione la quale i nostri cittadini possono ricevere dall'originale parola straniera, non potrebbe veramente riescir maggiore di quella che porge nella nativa loro lingua questa egregia traduzione.
Accogliamo pure con ospitale e saggia estimazione gli eccelsi esempli di tutte le antiche e moderne letterature, poichè la moltiplicità dei modelli assicura la libertà degli studi, e prepara da lungi la feconda e varia potenza delle òpere. Se non è lodevole che la gioventù nostra adori le cose straniere, è assai più turpe e dannoso che al tutto le ignori. L'intelletto, a modo del mare, deve ristaurarsi e nutrirsi coi lìberi tributi di tutta la terra.
- ↑ Nota. Questo articolo, scritto in Toscana sulla fine del 1842, quando Andrea Maffei diede alla luce la bella sua versione di Don Carlo, venne inserto nel volume V del Politecnico.
- ↑ V. Llorente, Istoria critica, ec., compendiata da Ticozzi, T.II, cap. XIX.
- ↑ «Le traitè (de Cateau-Cambrèsis 3 avril 1839) portai etc., etc. ... Que pour mieux consolider la paix, le roi d'Espagne épouserait madame Èlisabeth de France fille du roi, à laquelle on assignerat quatre cent mille écus au soleil.» Hist. génér. et raisonné de la Diplomatie française, par M. de Flassan, tomo I, lib. 4.
- ↑ Ne furono infatti scoperti poi da Mignet
- ↑ Schiller, Geschichte des Abfalls der vereinigten Niederlande, lib. IV.
- ↑ Während man in Wälsch-Leiden Menschenfett pfundweise verkauft haben soll. Leo, Univ. Gesch., Vol. III, p. 245.
- ↑ Ecco le false e odiose parole di Schlegel: «Il Filippo e il Don Garzìa.... non presentano nulla che contrasegni un sècolo e un pòpolo in particolare ... Probabilmente le idee ch'egli aveva fatto dello stile tragico s'opponevano a qualunque determinazione precisa del costume locale.» Schlegel, Corso di Letteratura dramatica, traduzione di G. Gherardini, tomo II, pag. 23.