Feroniade/I
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CANTO PRIMO
Contenuto: Il poeta vuol cantare di Feronia, e a ciò invoca la Musa, che derivi al canto di lui un po’ della dolcezza omerica (1-32): e prende a narrare come presso Terracina vivesse una bellissima ninfa di nome Feronia, tutta intenta alla coltivazione di fiori e piante d’ogni maniera, e, fra le altre, dell’umile salice piangente, che oggi deve coprire della sua ombra cortese il sepolcro di Giulio Perticari (33-284), e del cedro, cui anche Circe amò (285-372). Cosí viveva Feronia, disprezzando quanti la richiesero d’amore: ma non Giove, che, vistala, prese forma d’imberbe fanciullo e poté farla sua (373-403). In compenso di ciò e delle sventure che la dovevano colpire, la fece immortale: e fu adorata come dea da’ popoli ove abitava (404-461), le campagne de’ quali, col favore di lei, prosperarono, ed anche le città, che divennero rigogliose, ricche e felici (462-510). Spesso Giove scendeva a lei: ma Giunone, accortasi dell’infedeltà dello sposo, presa da gelosia, venne dal cielo alla ninfa e con minacce ed onte la cacciò dal luogo (511-608). Poi corse alle fonti dell’Ufente, dell’Astura, del Ninfeo e d’altri fiumi della regione, pregandoli di vendicarla: ed essi irruppero, aiutati da un fragoroso nembo, a mutare in palude il bel regno di Feronia e a distruggerne gli altari (609-764). Molti degli abitanti fuggirono: molti perirono, fra’ quali gli amanti Timbro e Larina (765-810). — Questo poema, al quale mancano pochi versi di chiusa che al poeta non riusci mai di fare (Cfr. Resn. Ep., p. 436 e Cantú, p. 295), e ch’«ebbe (come si legge nell’avvertimento preposto alla prima edizione milanese) la sua origine dall’essersi il M., in occasione delle cacce che il principe Luigi Braschi-Onesti dava nei contorni di Terracina, avvenuto nella fonte di Feronia, rammentata da Orazio, ed avervi, come quell’antico poeta e la sua compagnia, lavato ora manusque. (Sat. I, v, 24)»; questo poema, dico, fu cominciato certo prima del 1784 (cfr. la nota al v. 186, c. II) e proseguito di lunghe cure fino al 1828, anno in cui il M. morí. Fu pubblicato intero la prima volta nel v. II delle «Opere inedite e rare»: Milano, Lampato, 1832: ma già sin dal 1830 si aveva una stampa del primo canto fatta da Gio. Rosini (Pisa, Nistri), dalla quale cavò il Carducci le varianti, che io reco da lui. — Una delle opere principali del ponteficato di Pio VI (cfr. la nota al v. 40, p. 4) fu il prosciugamento delle paludi pontine, che occupavano 180 miglia quadrate nei circondari di Roma e di Velletri), già tentato prima da molti altri, consoli imperatori e papi (cfr. le ultime note al c. III). Capo degl’ingegneri idraulici e direttore dei lavori fu il bolognese Gaetano Rappini. «E se, bene osserva il Vicchi (VI, p. 247), la sperata prosperità non s’ottenne del tutto, se la malaria non fu debellata,.... non si vuole, per questo, addossarne la colpa al Braschi, od al Rappini. Il papa e l’idraulico non furono inferiori all’intrapresa per coraggio, per scienza e per previdenza.... Potendo Pio VI spendere nell’agro pontino le ricchezze portate in Francia da Bonaparte e non arrestandosi i lavori agricoli per le vicende politiche e pel successivo dissesto dei governi diuturnamente oberati, non si sarebbe compito il profetico assioma dell’idraulico bolognese: a lavoro incompiuto crescerà la pestilenza in ragione inversa dell’abbassamento delle acque». — Nell’esaltare il grande valore artistico del poema presente sono tutti concordi: dal Cantù (p. 295) e dal Giordani («Monti mi ha letto della sua Feroniade. È cosa oltre ogni immaginare stupenda: peccato che non si risolva mai a pubblicarla. Oh quanto è maggiore d’ogni altra sua cosa! Veramente questa lo manifesterebbe il primo de’ poeti viventi in Europa»: lett. del 23 dicem. 1818 a Franc. Viviani) fino al Carducci (Le poesie lir. ecc. ed. cit., p. V), che la definí: «lavoro squisito della florida gioventú e della vecchiezza robusta del gran poeta, la piú vivace fronda che mano italiana cogliesse dalla pianta del sempre fiorente Omero». E, a proposito di quest’ultimo giudizio, lo p. 202: «Evidente è la squisitezza artistica, e nessuno potrebbe in ciò dissentire dall’illustro critico;.... ma sarebbe piú giusto il dire che la vivace fronda fu colta non dalla pianta di Omero, bensí da quella di Virgilio [Ma il C., giudicando in tal modo, ebbe forse l’occhio a’ vv. 20 e segg. del c. I]. E cosí dicendo, ho presenti al pensiero non solo le moltissime reminiscenze virgiliane e le qualità conformi d’immagini e di stile, ma ancor quella certa somiglianza d’intendimenti e di affetti, che il poeta italiano volle avere col sommo Latino. Volle cioè cantar le cose remotissime accadute nel Lazio, per illustrarne le cose presenti; e che dalla favola o leggenda, a tale effetto adoperata, balenasse come futura la nostra grande storia antica. Senza dubbio, fine immediato e personale del poeta fu il celebrare il prosciugamento delle paludi Pontine,.... ma in lui c’era altresí il fine anche piú alto di ricordare le glorie di quella Roma e di quell’Italia, ch’egli, con tutti i suoi cangiamenti, ebbe sempre sulle labbra e nel cuore». — Il metro è il verso sciolto: e piú bei versi sciolti di questi non ha la letteratura italiana.
I lunghi affanni ed il perduto regno
Di Feronia1 dirò, diva latina
Che del suo nome fe’ beata un giorno
Di Saturno la terra2. Ella per fiere
5Balze e foreste errò gran tempo esclusa
Da’ suoi santi delubri, e molto pianse
Dai superbi disdegni esercitata3
D’una diva4 maggior che l’inseguía,
Finché novelli sacrifici ottenne
10Sugli altari sabini e le fur resi
Per voler delle Parche5 i tolti onori.
Ma qual de’ numi6 l’infelice afflisse,
E lei, ch’era pur diva, in tanto lutto
Avvolgere potéo? Fu la crudele
15Moglie di Giove e un suo furor geloso7.
Tu che tutte ne sai l’alte cagioni
Tu le mi narra, o Musa, e dall’obblio8
Traggi alla luce il memorando fatto
Non ancor manifesto in Elicona9.
20E, se dianzi di nuove itale note10
L’ira vestendo del Pelide Achille
Alcuna meritai grazia o mercede11,
Su questi carmi, che tentando or vegno,
Di quel nèttare, o dea, spargi una stilla
25Che dal meonio fonte12 si deriva;
Non già quando con piena impetuosa
Gl’iliaci campi inonda, a tal che gonfi
Dell’alta strage Simoenta e Xanto13
Al mar non ponno ritrovar la via14,
30Ma quando lene mormorando irriga
I feacii giardini15; e dolce rendi
Su le mie labbra la pimplea16 favella.
Là dove imposto a biancheggianti sassi17
Su la circèa marina Ansuro18 pende,
35E nebulosa il piede aspro gli bagna
La pomezia19 palude, a cui fan lunga
Le montagne lepine ombra e corona,
Una ninfa già fu delle propinque
Selve leggiadra abitatrice, ed era
40Il suo nome Feronia. I laurentini20
Boschi e quei che la fulva onda nudrisce
Del sacro fiume tiberin, quantunque
Di Canente21 superbi e di Pomona,
Non videro giammai forme piú care.
45Qual verno fiore che segreto nasce
In rinchiuso giardin22, né piede il tocca
Di pastor né di greggia; amorosetta
L’aura il molce, di sue tremule perle
L’alba l’ingemma, e lo dipinge il sole
50Di sí vivo color che il crine e il seno
D’ogni donzella innamorata il brama;
Tal di Feronia la beltà crescea.
Era diletto suo di peregrine
Piante e di fiori in suolo estranio nati
55L’odorosa educar dolce famiglia23,
Propagarne le stirpi, e cittadina
Dell’ausonio terren farne la prole.
Sotto la mano della pia cultrice
Ricevean nuove leggi e nuova vita
60Le selvatiche madri24, e, il fero ingegno
Mansüefatto e il barbaro costume,
Del ciel cangiato si godean superbe.
Ed essa la gentil ninfa sagace
Con lungo studio e pazïente cura
65I tenerelli parti ne nudría,
Castigando i ritrosi e a culto onesto
Traducendo i malnati. Essa il rigoglio
Ne correggeva ed il non casto istinto;
Essa gli odii segreti e i morbi e i sonni
70E gli amor ne curava e i maritaggi,
Securo a tutti procacciando il seggio
E salubri ruscelli ed aure amiche;
Né vïolarli ardía co’ morsi acuti
D’Orizia il rapitor25, che irato altrove
75Volgea le furie e con le forti penne
L’antiche flagellava áppule26 selve
O di Lucrino27 i risonanti lidi.
Ma chi potría di tutti a parte a parte
Il sesso riferir, la patria, il nome?
80V’era la rosa che mandâr primieri
Di Damasco i giardini e di Mileto28;
Quella rosa che poi, nel fortunato
Grembo translata dell’ausonia terra,
Fu pestana29 nomata e prenestina.
85Sua sorella minor, ma piú di grido,
Le fioriva da canto la modesta
Licnide30 figlia delle ambrosie linfe,
Di che le Grazie un dí le belle membra
Lavâr di Citerea, quando dai primi
90Ruvidi amplessi di Vulcan si sciolse.
Altro amor di Ciprigna in altra parte
L’amaraco31 olezzava. In su la sponda
L’avean del Xanto32 le sue rosee dita
Piantato; e il petto e le divine chiome
95Adornarsi di questo ella solea,
Quando desire la pungea di farsi
Al suo fero amatore33 ancor piú bella.
Ecco prole gentil d’egizia madre
Vivaci aprirsi su l’allegro stelo
100Il sonnifero loto34, e il molle acanto
Che alla soave colocasia gode
Intrecciar le sue fronde. Ecco il portento
Dell’arte che talor vince natura,
Il superbo ranuncolo35; un dí vile
105Mal noto fiore, ed or per l’opra e il senno
Di Feronia, che molto amor gli pose,
Fatto sí bello, che il diresti rege
Degl’itali giardini. Aleppo e Cipro,
Candia, Rodi e Damasco in umil pompa
110Il mandaro alla diva; ed ella, esperta
De’ botanici arcani, immantinenti
Di varïate polveri ne sparse
L’ima radice, che le bebbe, e a lui
Di ben cento color tinse le chiome.
115E tale or questo di bell’arte figlio
Di donzelle non solo e di fiorenti
Spose, a cui lode è la beltà nudrire,
Ma di matrone ancor cura e desío,
Ne’ romani teatri e ne’ conviti
120Alle antiche patrizie il petto adorna,
Ove Amor spegne la sua face e ride36.
Ma piú cara alle Grazie ed alla casta
Man di Feronia, con piú pio riguardo
Educata tu cresci, o mammoletta;
125Tu, che negli orti cirenei37 dal fiato
Generata d’Amore e dallo stesso
Amor sul colle pallantèo38 tradutta,
Di Zefiro la sposa39 innamorasti
E del suo seno e de’ pensier suoi primi40
130Conseguisti l’onor. Pudica e cara
Nunzia d’april41, deh!, quando per le siepi
Dell’ameno Cernobbio42 in sul mattino
Isabella ed Emilia alme fanciulle
Di te fan preda e festa, e tu beata
135Vai fra la neve de’ virginei petti
Nuove fragranze ad acquistar, deh! movi,
Mammoletta gentil, queste parole:
Di primavera il primo fior saluta
Di Cernobbio le rose43, onde s’ingemma
140Della regale Olona44 il paradiso
Che di bei fior penuria unqua non soffre.
Felice l’aura che vi bacia e tutta
Di ben olenti spirti in voi s’imbeve,
E felice lo stelo onde vi venne
145Sí schietta leggiadria: ma mille volte
Piú felice, e beato al par de’ numi
Chi con man pura da virtú guidata,
Dispiccarvi saprà dalla natía
Fiorita spina e d’Imeneo sull’ara
150Con amoroso ardor farvi piú belle:
Ché senza amor non è beltà perfetta,
Né mai perfetto amor senza virtude.
Dove te lascio ne’ meonii campi45
Sí lodato, o d’incanti e di malíe46
155Possente domator, tu che dai numi
Moly sei detto con parola al volgo
Non conceduta, e sol dal saggio intesa?
(Ché al volto corruttor d’ogni favella
Parlar la lingua degli dei non lice).
160Se là di Circe fra le mandre Ulisse
Non stampò di ferine orme il terreno,
Di questa erbetta e del suo latteo fiore
Alla virtú si dee: parlante emblema47,
Del cui velo copría l’antico senno
165La temperanza, che de’ turpi affetti
Doma il poter. Di questo portentoso
Vegetante, fra noi, siccome è grido,
Di Maia il figlio dal natio Cillene48
La tenera portò bruna radice;
170E dell’accorto dio fu degno il dono:
Con questa ei tutti della maga i filtri
Contra l’itaco eroe fece impotenti.
E il suo bel fior, che da non casta mano
Sdegna esser tocco, di Feronia poscia
175Dolce cura divenne, che di mille
Felici erbette gli fe’ siepe intorno;
Altre d’eterno verde, altre dotate
Di medica virtude, onde il furore
Placar de’ morbi, addormentar le serpi
180E sanarne i veleni; altre che il sonno
Inducono benigne, il dolce sonno
Degli afflitti sí caro alle palpebre49.
E tal di tutte un indistinto uscía
Soave olezzo50 che apprendeasi al core.
185Che di mille dirò scelti arboscelli
Lieti a dovizia di nettarei frutti
E di fiori e di chiome, in cui natura
Per infinite variate guise
Spiegò la pompa della sua ricchezza?
190Alle ben nate piante peregrine,
Qual d’arabo lignaggio e qual d’assiro,
Qual dall’Indo venuta e qual dal Nilo,
L’italo suolo arrise e sue le fece;
Sí che in lor della patria e della prima
195Origine il ricordo oggi è perduto.
Tanto è l’amor del nuovo cielo, e tanta
Fu la cura di lei, che nel ben chiuso
Suo viridario51 ad educarle prese,
Or con arte confuse, ed or disposte
200In bei filari come stral diritti,
Rallegrando di molli ombre i sentieri52.
Ecco schiuder dal seno i bei rubini,
A Minerva e a Giunon pianta gradita
E a Cerere cagion d’alto disdegno,
205Il coronato melagrano53, e tutti
Adescar gli occhi ed invitar le mani.
Ecco il melo54 cidonio alle gibbose
Sue tarde figlie di lasciva e molle
Lanugine vestir le bionde gote,
210Del cui fragrante sugo hanno in costume
Le amorose donzelle in Orïente
Nudrir la bocca ed il virgineo fiato,
Quando la face d’Imeneo le guida
Di bramoso garzone ai caldi amplessi.
215Vedi il perso arboscel55 che i rosei frutti
Ne mostra di lontan; vedi il fratello
D’armena stirpe, che con gli aurei figli
Gli contende superbo i primi onori;
Perocché dai regali orti sconfitti
220Dell’atterrata Cerasunte ancora
Quel fiammante rival giunto non era56,
Che, di corpo minor ma di piú viva
Porpora acceso, avría lor tolto un giorno
E di bellezza e di dolcezza il vanto.
225Ma stillante piú ch’altri ibleo57 sapore
L’onor dispiega di sue larghe chiome
Il calcidico fico58; il cui bel frutto,
Se verace è la fama, alle celesti
Mense sol noto, fra’ mortali addusse59
230E a Fitalo donò la vagabonda
Cerere, allor che tutta iva scorrendo
La terra in traccia della tolta figlia.
All’apparir della divina pianta
Di molte forme e molti nomi altera
235Tutte esultâr le rive; e Cipro e Chio
E gli orti ircani e i misii60 e il verde Egitto
E la gran madre d’ogni bella cosa,
L’itala terra, con attento amore
La coltivaro; e de’ suoi dolci pomi61,
240Solo a Serse e a Cartago62 agri e funesti,
Fêr gioconde le mense anche piú vili.
Né te, quantunque umíl pianta vulgare,
Lascerò ne’ miei carmi inonorato,
Babilonico salcio63, che piangente
245Ami nomarti, e or sovra i laghi e i fonti
Spandi la pioggia de’ tuoi lunghi crini,
Or su le tombe degli amati estinti,
Che ne’ cupi silenzii della notte
Escono consolate ombre a raccôrre
250Sul freddo sasso degli amici il pianto.
Tu non vanti dei lauri e delle querce
Il trïonfale onor64, ma delle Muse,
Che di tenere idee pascon la mente,
Agli studi sei caro; e da’ tuoi rami
255Pendon l’arpe e le cetre onde si sparge
Di pia dolcezza il cor degl’infelici.
Salve, sacra al dolor mistica pianta;
E l’umil zolla che i mortali avanzi
Del mio Giulio65 nasconde, in cui sepolto
260Giace il sostegno di mia stanca vita,
Della dolce ombra tua copri cortese.
E tu, strazio d’amore e di fortuna,
Tu, derelitta sua misera sposa,
Che del caldo tuo cor tempio ed avello
265Festi a tanto marito, e quivi66 il vedi,
E gli parli, e ti struggi in vòti amplessi
Da trista e cara illusïon rapita,
Datti pace, o meschina67; e ti conforti
Che non sei sola al danno. Odi il compianto
270D’Italia tutta; i monumenti mira68,
Che alla memoria di quel divo ingegno
Consacrano pietose anime belle.
E, se tanto d’onore e di cordoglio
Argomento non salda la ferita
275Che ti geme nel petto, e tuttavia
Il lacrimar ti giova, e forza cresce
Al generoso tuo dolor l’asciutto
Ciglio de’ tristi, che, alla voce sordi
Di natura e del ciel, né d’un sospiro
280Né d’un sol fiore consolâr l’estinto,
Dolce almeno ti sia, che su l’avaro
Di quell’ossa sacrate infando obblío
Freme il pubblico sdegno e fa severa
Delle lagrime tue giusta vendetta.
285Ma dove, o Musa, di sentiero uscita69
Ti tragge ira e pietà? Deh torna al riso
Del cantato giardin, torna ai profumi,
Alle fragranze, che l’erbette e i fiori
Ti esalano d’intorno. A sé ti chiama
290Principalmente ed il tuo canto aspetta
L’odorato de’ Medi arbor felice70,
Di cui non avvi piú possente e pronto
(Se fede acquista di Maron la Musa)
Medicame verun contra i veneni
295Delle dire matrigne, allor che seco
Scellerate parole mormorando
Empion le tazze di nocenti sughi.
Chioma e volto di lauro ha l’almo arbusto;
E, se diverso e vivo in lontananza
300Non gittasse l’odor, lauro saría.
Candidissimo è il fior di che s’ingemma,
Né per molto soffiar che faccia il vento
L’onor mai perde della verde fronda.
Ora etrusco limone, or cedro ed ora
305Arancio lusitan71 l’appella il vulgo,
Sotto vario sembiante ognor lo stesso.
Questa è la pianta che nel ciel creata72
L’aureo pomo fatal73 lassú produsse
Ch’Ilio in faville fe’ cader: con questo74
310L’ardito Aconzio e Ippòmene75 già fero
(Che non insegni, Amor?76) alle lor crude
Belle nemiche il fortunato inganno.
E fu pur questa77 che ad immane drago
Diè negli orti a vegliar d’Esperetusa
315Il sospettoso mauritano Atlante;
Finché di là la svelse il forte Alcide78,
Spento il fero custode, e peregrino
Seco l’addusse nell’ausonio lito79,
Quando di Spagna vincitor tornando80
320Nel Tevere lavò l’armento ibero
E fe’ sopra il ladron dell’Aventino81
Delle tolte giovenche alta vendetta.
Poi, com’egli d’Evandro82 abbandonate
Ebbe le mense e l’ospital ricetto
325E a quel giogo83 pervenne ove nascoso
Agl’Itali mostrò la prima vite
Il ramingo dal ciel padre Saturno84,
Ivi sul dorso edificò del monte
Sezia85, un’umil città, donde Setína
330Fu nomata la rupe; e qui di Giove
L’errante figlio86 alla saturnia terra
Primiero maritò l’arbor divino87,
Che tutti empié di meraviglia i colli
E d’invidia le selve. Al primo spiro
335Del suo celeste odor vinta temette
(E fu giusto il timor) la sua fragranza
Di Preneste la rosa: al primo aspetto
Di quel candido fior vinte temette
Le sue vergini tinte il gelsomino.
340A baciarlo lascive, a carezzarlo
D’ogni parte volâr l’aure tirrene,
Desïose d’aver carchi del caro
Effluvio i vanni rugiadosi: corsero
A fregiarsene il crine e il colmo seno
345D’Alba le ninfe e di Laurento e quelle
Del Volturno arenoso e del Taburno88.
Corser da tutte le propinque rive
Gli Egipani89 protervi, e, saltellando
E via gittando ognun l’ispido pino,
350Di questo ramo ghirlandâr le fronti.
Lo volle90 il dio d’Arcadia, e lo prepose
Agli ebuli91 sanguigni ed ai corimbi;
E lo volle Silvan, dimenticate
Le ferule fiorenti, e i suoi gran gigli.
355Venne anch’essa del Sol Circe la figlia,
E di sua mano un ramoscel spiccando
Della scesa dal ciel pianta diletta
In grembo al sacro suo terreno il pose.
Cosí crebbe il divin bosco odorato,
360Che di soave olezzo intorno92 tutte
Della maga spargea le rilucenti
Tremende case; ov’ella ognor, cantando
E con l’arguto pettine le tele
Percorrendo, facea dolce da lungi
365E periglioso ai naviganti invito;
Mentre pel buio della tarda notte
Lamentarsi e ruggir s’udian leoni
Disdegnosi di sbarre e di catene,
Urlar lupi, e grugnire ed adirarsi
370Nelle stalle cinghiali ed orsi orrendi,
Che fur uomini in prima e della cruda
Incantatrice sventurati amanti.
Queste ed altre infinite eran le piante
E l’erbe e i fiori, che godea l’attenta
375Di Feronia educar mano pudica;
Di tutti quanti i fiori ella il piú bello.
Ma, sotto vago aspetto alma chiudendo
Superbetta, d’amor tutte parole
La ritrosa fanciulla ebbe in dispregio.
380Né la vinse il pregar di madri afflitte,
Che la chiedeano in nuora e per la schiva
Vedean languire i giovinetti figli:
Né mai lusinghe la piegâr di quanti
Dei le latine ad abitar contrade
385Dai pelasghi confini93 eran venuti:
Ch’ella a tutti s’invola, e non si cura
Conoscere d’amor l’alma dolcezza94.
Ma di Giove non seppe un’amorosa
Frode fuggir. La vide; e da’ begli occhi
390Trafitto, il nume la sembianza assunse
D’un imberbe fanciullo95, e sí deluse
L’incauta ninfa e la si strinse al seno
Con divino imeneo. L’ombra d’un elce
Del dio protesse il dolce furto; e lieta96
395Sotto i lor fianchi germogliò la terra
La vïoletta, il croco ed il giacinto,
Ed abbondanti tenerelle erbette
Che il talamo forniro; e le segrete
Opre d’amore una profonda e sacra
400Caligine coprío: ma di baleni97
Arse il ciel consapevole, ed i lunghi
Ululati iterâr su la suprema
Vetta del monte le presaghe ninfe.
Questi fur delle nozze inauspicate
405I cantici, le faci, i testimoni;
Questo alla nuova del Tonante sposa
De’ suoi mali il principio, e nol conobbe
L’infelice. Ma ben di Giove il vide
L’eterno senno; né potendo il duro
410Fato stornar98, nel suo segreto il chiuse,
E, la doglia che solo il cor sapea
Premendosi nel petto, a far piú mite
Il funesto avvenir volse il pensiero.
Primamente quel bosco e quella rupe
415Sí gli piacque onorar dove la ninfa
Dell’occulto amor suo gli fu cortese,
Che per loro obbliò Dodona99 ed Ida
E men care di Creta ebbe le selve:
Tal che le genti la presenza alfine
420Sentîr del nume, e l’inchinâr devote
E Giove imberbe l’invocâr sull’are;
Ch’egli loro cosí mise in pensiero
Per la memoria del felice inganno.
Qui del culto novel consorte ei volle
425La dolce amica sua; qui degli eterni
In aurea tazza il nèttare le porse,
E la fece immortal. Poscia tonando
Del monte il fianco occidental percosse;
E una súbita fonte cristallina100
430Scaturí mormorando; e dalla balza
Comandò che perenne ella scorresse
E da Feronia si nomasse: ed oggi
Serba quel nome ed il ricordo ancora
Dell’antico prodigio. Allor le volsche
435Genti lor diva l’adoraro, e lei
Antefora chiamaro e Filostefana
E Persefone101; e tutte a lei de’ campi
Fur sacre le primizie. Ad inchinarla
Sovrana e diva i numi adunque tutti
440Corser d’Ausonia; ché il voler tal era
Del supremo amator: e non pur quelli
A cui per valli e campi e per montagne
Fuman l’are latine e di plebeo
Rito van lieti e di Minori han nome102,
445Ma mossero frequenti ad onorarla
Di cortese saluto anche i Maggiori.
Primo il padre Lieo103, ch’indi non lungi
In un temuto e per antico orrore
Sacro delubro raccogliea benigno
450Dal timor de’ mortali incensi e voti;
E la bionda inventrice104 era con lui
Dell’auree spiche e delle sante leggi,
Cerere, che solea le pometine
Spesso anteporre alle trinacrie105 mèssi.
455Né te d’Aricia il bosco106 e il nemorense
Lago trattenne, o vergine Dïana;
Ché tu pur, del lunato argenteo carro
Al temo aggiunte le parrasie107 cerve,
Con gli altri divi ad abbracciar venisti
460La novella immortale; e di te degna108
Fu l’alta cortesia che ti condusse.
Col favor di Feronia iva frattanto
Scorrendo i campi l’Abbondanza109, e, tutto
Versando il corno110, ben compiuta e ricca
465Fea dell’avaro111 agricoltor la speme.
Ogni prato, ogni colle, ogni foresta
Di pastorali avene e di muggiti
E nitriti e belati alto risuona;
E prigioniera dall’opposte rupi
470Le dolci querimonie Eco112 ripete.
Venti e quattro cittadi113, onde l’immensa
Fertile valle si vedea cosparsa,
S’animâr, s’abbelliro; e, strette in nodo
Di care parentele, in mezzo al sangue
475De’ torelli giurâr dell’alleanza
Il sacramento; e l’invocata diva
Le dilesse, e su lor piovve la piena
Di tranquilla ricchezza. Incontanente
Crebbero i lari114, crebbero le mura:
480Di maestà, di forza e di rispetto
Le sante leggi si vestîr: fur sacri
I reverendi magistrati; sacra
La patria carità; sacro l’amore
Della fatica e dell’industria. Quindi
485Tutte piene di strepito le vie
E i teatri e le curie; e dappertutto
Un gemere di rote115, un picchio assiduo
Di martelli e d’incudi, un suonar d’arme
Buone in pace ed in guerra; onde si crebbe
490La feroce de’ Rutuli potenza,
Che al pietoso Troian116 tanto fe’ poscia
Sotto il cimiero impallidir la fronte,
Quando gli disputâr Camilla e Turno117
Di Lavinia118 e d’Italia il grande acquisto.
495Eran le genti pometine adunque
Molte e forti e felici; e manifesta
Di Feronia apparía per ogni parte
La presenza, il favor, la possa e l’opra.
Però da cento altari a lei salía
500Delle vittime il fumo; e ne godea
Il Tonante amator, che stanco e carco
Delle cure del mondo, a serenarle
Scendea sovente ne’ segreti amplessi
Della diva fanciulla. Un aureo nembo
505Li copriva; e ozïosa al sole aprico
Col rostro della folgore ministro
L’aquila sacra si pulía le piume;
Mentre sicure dal furor di Giove
Tacean d’Ato e di Rodope le rupi119,
510E avea Bronte120 riposo in Mongibello.
Erasi intanto la saturnia Giuno
Fatta accorta del dolo; e i suoi grand’occhi,
Che gelosia piú grandi anche facea,
Non fallibili segni avean già scorto
515Di nuova infedeltà. Raro il soggiorno
Del marito in Olimpo: alto il silenzio
Dei talami divini: inoltre mute
Della foresta dodonea le querce,
Cheti i tuoni dell’Ida, e dissipato
520Il denso fumo che facea palese
La presenza del nume. Onde, turbata
In suo sospetto, alle nevose cime
Dell’Olimpo salita, in giú rivolse
L’attento sguardo, e ricercò l’infido
525Sul mar sidonio, sul nonacrio121 giogo,
Sull’Ismen, sull’Asopo122, ove sovente
Delle vaghe mortali amor lo prese.
Indi in Ausonia declinando i lumi,
D’Ansuro nereggiar sul balzo vide
530Tale un nugolo denso che per vento
Non si movea di loco, ancorché tutta
Fosse in moto la selva. A cotal vista
Le si ristrinse il cor: le corse un gelo
Per le membra immortali, e si fêr truci
535I neri sopraccigli. Immantinente
Iri a sé chiama, e: Prestami, le dice
Su via prestami, o fida, il tuo piovoso
Arco d’oro e di luce. E, sí dicendo
Né risposta aspettando, entro si chiude
540A’ taumanzii123 vapori, e taciturna
Su le rupi setine si precipita.
Tocca pur anco non avea la terra
Co’ leggieri vestigi, che levarsi
L’invisibile dea l’aquila vide,
545L’aquila testimon del dio marito;
E sotto l’ombra delle grandi penne124
Furtiva e cheta camminar la nube
E tra le piante dileguarsi. A lei
Dovunque passa riverenti e curvi
550Dan loco i rami della selva; e l’aure
Non osano di far rissa e bisbiglio.
Volse indi l’occhio addietro, e donde tolta
S’era la nube in piè rizzarsi mira
Cosí bella una ninfa, che alla stessa
555Corrucciosa Giunon bella parea.
Sventurata beltà! L’ira e il dispetto
Tu crescesti nel cor della gelosa,
Che spiccossi qual lampo e rabbuffata
Con questi accenti alla rival fu sopra:
560E qual ti prese insania ed arroganza,
Insolente mortal, che una cotanta
A me far osi ingiuria, e non mi temi?
Ravvisami, proterva: io degli dei
Son l’eterna reina, io la sorella,
565Io la sposa di Giove. Scolorossi,
Tremò, si sgomentò, non fe’ parola
La misera Feronia; e, siccome era
Scomposta i veli125 e le bende e le chiome
Dell’amplesso celeste accusatrici,
570Mise in tutto furor la sua nemica.
La qual, su lei di rinnovar bramosa
Di Callisto la pena126, ad un vincastro
Diè rabbiosa di piglio e la percosse.
Attonito restò l’occhio e la mano
575Dell’acerba Giunon, quando dell’altra
Vide al colpo divino invïolata
Resistere la salma127 e le primiere
Sembianze rimaner: tosto conobbe
Che di tempra immortal fatta l’avea
580L’onnipossente nume: onde sdegnosa,
Ché a vòto mira uscito il suo disegno,
E terribile e ria piú che mai fosse,
Questo, disse, al mio scorno anco mancava,
Adultera impudente, che dovesse
585Farlosi eterno! Semele ed Alcmena128
Eran poca vergogna all’onor mio,
E i due figli di Leda, e Ganimede129;
Ch’altra ancor ne s’aggiunge, e di malnati
Mi si fan piene le celesti mense.
590Ma inulta non andrò, se Giuno io sono;
Né tu senza castigo. Via di qua,
Via di qua, svergognata! E in questo dire
Il bianco braccio fieramente stese,
S’aggrandí, si scurò: gli occhi mandaro
595Due fiamme a guisa di baleni in mezzo
Di tenebrosa nube; e la grand’ira,
Che il senno ancor degl’immortali invola,
Quasi obbliar di diva e di reina
Le fe’ modi e costumi. E di rincontro
600Di Giove allor la dolorosa amante,
Che di rimorso trema e di rispetto,
Con basso ciglio e con incerto piede
Lagrimando partissi. Ella per monti
E per valli e per fiumi si dilunga,
605E sempre a tergo ha la tremenda Giuno,
Che con minacce e dure onte e rampogne
Stimola e incalza l’infelice. Ahi! dunque
Era da tanto un amoroso errore?
E già varcate avea le veliterne130
610Pendici e gli ardui sassi ove costrusse
Cora131 la sua città, Cora il fratello
Di Catillo e Tiburte; e non lontano
Era di Cinzia il sacro lago132 e il bosco,
Ove a Stige ritolto e della ninfa
615Egeria in cura, Ippolito133 traeva
Cangiato in Virbio la seconda vita.
Qui di Saturno l’adirata figlia
Sostenne i passi, e in balze aspre e deserte
Qui lasciò la meschina; e, desïosa
620Di vendetta vendetta maggior, diè volta addietro.
Tra le priverne134 rupi e le setine
S’apre immane spelonca, a cui di sopra
Grava il dosso una negra orrida selva,
E per lo mezzo la rinfresca un rivo,
625Che con grato rumor casca e zampilla
Dalle fesse pareti. Ha di sedili
In vivo marmo una corona intorno;
E tal dalle muscose erbe si spande
Una fragranza, che da lungi avvisa
630Veramente di dei stanza e ricetto.
Qui da tutta la volsca regïone
Per cento cave sotterranee vie
Vengon sovente a visitarsi i fiumi;
Il freddo Ufente, il lamentoso Astura135,
635Il sonoro Ninfeo136, che tra le sacre
Sue danzanti isolette ad Amfitrite137
Rapido volve e cristallino il flutto;
E il superbo Amasen138, che le gran corna
Mai non si terge e strepitoso e torbo
640Empie di loto i campi e di paura.
E cent’altri v’accorrono di fama
Poveri e d’onda fiumicei seguaci,
E cento ninfe che il cader degli astri
Conoscono e del sole e della luna
645Le armoniche vicende, e sanno i venti
E le piogge predire e le procelle.
Colà bieca sbuffando s’incammina
La di vendetta sitibonda dea:
Simile a nembo di gragnuole gravido,
650Che bruno il ciel vïaggia e orrendo stendesi
Su la bionda vallea139, quando le Pleiadi,
Che d’Orïon la spada incalza e stimola,
Negli atlantici flutti si sommergono,
E tutto ferve per burrasca il pelago.
655Tal terribile in vista ella s’avanza;
E, giunta al mezzo dello speco, in atto
Di maestà, di cruccio e di preghiera,
Fa dal labbro volar queste parole:
Fiumi, a cui delle volsche acque l’impero
660Diè degli uomini il padre e degli dei,
E voi le correggete e a vostro senno
Le mandate a nudrir l’onda tirrena;
Una vil mia nemica, una spregiata
Di boschi abitatrice, il cor mi tolse
665Del mio consorte; e non è tutto. A lei,
A costei l’immortal vita è concessa,
Privilegio avvilito, e dea l’adora
La bagnata da voi terra pontina.
Vendicate l’offesa; e, s’io dall’etra
670Vi dispenso le piogge, ite, abbattete,
Distruggete, spegnete. Altari e templi
E città rovesciate: io le vi dono,
E saran vostro regno: orma non resti
Dell’abborrito culto, e raddolcisca
675La mia giust’ira di Feronia il pianto.
Disse; e per tutti a lei tosto l’Ufente
Diserto140 e chiaro parlator rispose:
A te l’esaminar conviensi, o diva,
Il tuo desire, e l’adempirlo a noi141.
680Delle piove e de’ nembi genitrice
Tu ne riempi l’urne, tu ne fai
Giove propizio, e ne concedi a mensa
Su l’Olimpo seder con gli altri eterni.
Ciò detto, frettolosi e furïosi
685Si dileguâr per la caverna i fiumi,
Chi qua chi là ciascuno alla sua sede;
E partendo ne fêr tale un tumulto,
Tale un fracasso, che tremonne il monte.
N’udirono il fragor le pometine
690Valli da lungi, e ne mandâr muggiti
Di ruina presaghe; e palpitanti
Strinser le madri i pargoletti al seno142.
Mentre corrono quelli il rio precetto
A compir della diva, e ai duri sassi
695Aguzzano per via le corna e l’ira,
Levossi Giuno in aria, e spiegò il manto
In cui ravvolge le tempeste e i nembi;
E subito gonfiâr le bocche i venti
E le nubi aggruppâr, che cielo e luce
700Ai mortali rapiro, e si fe’ notte,
Orrenda notte dal guizzar de’ lampi
Rotta al fero de’ tuoni fragor cupo.
Carco d’atre caligini la fronte
Vola l’umido Noto143, ed, afferrate
705Con le gran palme le pendenti nubi,
Le squarcia risonante; e tenebrosa
Sgorga la piova; il rotto aere ne rugge;
E il suol ne geme e le battute selve.
Scende un mar dalle rupi. Allora i fiumi
710Versano l’urne abbeverate e colme;
E quattro di maggior superbia e lena
Da quattro parti sul soggetto piano,
Svelte, atterrate le tremanti ripe,
Con furor si devolvono. Spumosa
715E fragorosa la terribil piena
Le capanne divora, e i pingui cólti,
E gli armenti e i pastori144. E già le mura
Delle cittadi assalta e le percote,
Di cadaveri ingombra e della fatta
720Strage ne’ campi: già delle bastite145
Crollano i fianchi: già sfasciati piombano,
E dan la porta all’inimico flutto146.
S’alza allora un compianto, un ululato
Di vergini, di vegli e di fanciulli147:
725Corrono ai templi; ed invocar Feronia,
E Feronia gridar odi piangenti
Le smorte turbe; e non le udía la diva,
Ché maggior diva il vieta. Essa, la fiera
Moglie di Giove, di sua man riversa
730Dell’esule nemica i simulacri,
Ne sovverte gli altari; e la soccorre
Ministra al suo furor l’onda crudele,
Che tutte attorno le cittadi inghiotte.
Tre ne leva sul corno148 infurïando
735Il veloce Ninfeo, che lutulenti
Spinse quel dí la prima volta i flutti,
L’umil Trapunzio e Longula e Polusca149:
Tre la ferocia del possente Astura,
L’opima Mucamite, e l’alta Ulubra150,
740E la vetusta Satrico, a cui nulla
Il nume valse della dia Matuta151.
E per te cadde, strepitoso Ufente,
Pomezia152, la piú ricca e la piú bella.
Pianse il giogo circèo la sua caduta,
745E la pianser le ninfe a cui commessa
De’ suoi vaghi giardini era la cura.
Il tremendo Amaseno avea frattanto
Sotto i vortici suoi sepolti intorno
I barbarici campi153 e fatto un lago
750Della misera Ausona154, e l’alte mura
D’Aurunca155 percotea, la piú guerriera
Delle volsche cittadi e la piú antica.
Oltre gli anni di Dardano e Pelasgo156
La sua fama ascendeva, e degli Aurunci
755Venerevoli padri alto suonava
E glorïoso fra le genti il grido.
L’avea quel fier divelta e conquassata
Dai fondamenti. Alle vicine rupi
Traggonsi in salvo gli abitanti; e il fiume
760Li persegue mugghiando, e ne raggiunge
Altri al tallone e li travolve, ed altri,
Che piú pronti afferrâr già la montagna,
Con l’immenso suo spruzzo li flagella
E di paura li fa bianchi in viso.
765Ben mille ne contorse entro i suoi gorghi
Quell’orribile dio; ma di due soli,
Timbro e Larina, il miserando fato
Non tacerò, se a tanto il cor resiste157
E pietoso il pensier non mi rifugge.
770Amavansi cosí quegl’infelici,
Ch’altro mai tale non fu visto amore:
E d’Imeneo già pronte eran le tede,
E consentian gioiosi al casto affetto
I genitori. Ahi brevi e false in terra
775Le speranze e le gioie! In riva al mare
Cui d’Anzio regge la Fortuna158, avea
Pochi dí prima all’afrodisia madre
Porti i suoi voti il giovinetto amante
E abbracciato l’altar. Letta nel fato
780Del misero la sorte avea la diva;
E della diva il santo simulacro
Tremò, e sudante159 (maraviglia a dirsi!)
Torse altrove il bel capo, e non sostenne
Tanta pietà. Ma ben di Giuno il crudo
785Cor la sostenne: e la virtude umana
Abbandonata si velò la fronte.
Nella comun sventura erasi Timbro,
Dopo molti in cercar la sua fedele
Scórsi perigli, l’ultimo su l’erta
790Spinto in sicuro, e fra i dolenti amici
Di Larina inchiedea: Larina intorno,
Larina iva chiamando, e forsennato
Con le man tese e co’ stillanti crini
Per la balza scorrea; quando spumosa
795L’onda che n’ebbe una pietà crudele,
La morta salma gliene spinse al piede.
Ahi vista! ahi, Timbro che facesti allora?
La raccolse quel misero, ed in braccio
La si recò; né pianse ei già160, ché tanto
800Non permise il dolor; ma freddo e muto
Pendé gran pezza sul funesto incarco,
Poi mise un grido doloroso e disse:
Cosí mi torni? e son questi gli amplessi
Che mi dovevi? e questi i baci161? e ch’io,
805Ch’io sopravviva?... E non seguí: ma stette
Sovr’essa immoto con le luci alquanto;
Poi sull’estinta abbandonossi, e i volti
E le labbra confuse; e cosí stretto
Si versò disperato entro dell’onda,
810Che li ravvolse, e sovra lor si chiuse162.
Varianti
N. B. Cfr. la nota d’introduzione.
2. dirò, nume latino.
7. disdegni esagitata
12-15. Ma qual de’ numi l’infelice afflisse? La veneranda Giuno; e la sospinse A tanta offesa un suo furor geloso.
25-32. Che dall’attico fonte si deriva; E dolce rendi e cara anche ai piú schivi Su le mie labbra
44. giammai volto piú caro.
45. Siccome fiore
52-3. Di Feronia cosí fresca ed intatta Risplendea la beltà. Detta l’avresti Non Drïade o Napea, ma la medesma Alma Ciprigna verginella ancora. Era diletto suo
57. Dell’italo terren
63-4. Ed essa la gentil ninfa con lungo Studio ed affetto e pazïente cura
72-3. E limpidi ruscei che per erbosi Bei sentieri fuggendo e in dolce suono Mormorando correan con fresco piede A dissetargli nell’estiva arsura: Né vïolarli
76. áppule quercie
82-3. nelle felici Glebe inserita dell’ausonia terra
91-7. Altro amor di Ciprigna in altro lato L’amaraco sorride. In su le sponde De’ celesti ruscei l’avea Ciprigna Còlto in Olimpo, e colle rosee dita Trapiantato sul Xanto. Il fior fu questo Ch’ella diede in bel dono alla rapita Elena, il giorno che del frigio drudo Nell’isole crenee sposa divenne; E ornar di questo il seno ha per costume Ella stessa la dea quando desira Al suo fero amator farsi piú bella.
102-21. Ecco il venuto In regal pompa dai canopei lidi Orgoglioso ranuncolo, che tinge Di ben cento color le belle chiome, E, di matrone desiderio, adorna Ne’ romani teatri e ne’ conviti Delle altere patrizie il largo petto: Re dell’almo recinto egli pareva. Ma piú cara
129. Di tua beltade, e de’ pensier suoi primi
130-52. Vezzosa e cara Nunzia d’april, deh quando entro la siepe Amalia ti raccoglie, e tu beata Vai fra le nevi del regal suo seno Nuove fragranze ad acquistar, deh dille, Mammoletta gentil: Delizia io sono Di primavera e tu d’Italia bella.
153-184. Mancano nell’edizione pisana.
185-297. Che di mille dirò scelti arboscelli, Qual d’arabo linguaggio e qual d’assiro, Che dall’inclita ninfa or con leggiadra Arte confusi come selva e or posti In bei filari come stral diritti Rallegrano di molli ombre i sentieri? E tal di tutti un’indistinta usciva Temperanza d’odor che di dolcezza Rapía le nari ed apprendeasi al core. A dir di tutti la favella è poca Del sacrato Elicon. Di tanti un solo Dunque cantiamo, il solo arbor felice Che di Media ne venne, e del cui frutto (Se fede acquista di Maron la Musa) Medicame non avvi il piú possente Contro l’orrendo murmure segreto Delle madrigne, allor che dispietate Empion le tazze di nocenti sughi.
335-39. Del suo celeste odor, sprezzate e morte, Di lor vinta fragranza vergognaro Le rose prenestine: al primo aspetto Di quel candido fior spente temette
373-75. Queste ed altre infinite eran l’elette Piante e i fior che Feronia a sé nudriva,
378. d’amor tutte lusinghe
383-85. Né di quanti v’avea per quelle selve Piú riveriti e piú possenti dei Blandizie la piegar, profferte e doni:
387. Di Venere imparar l’alma dolcezza.
395. Intorno intorno germogliò la terra
398. Il talamo fornîr. Quetossi il mare, Quetarsi intorno i venti, e le segrete
400-7. Caligine coprío. L’etere solo Consapevol del fatto arse di lampi, E le ninfe indovine in su la cima Delle rupi ululâr. Queste le faci Fur, questi i canti delle nozze, e questo Alla novella del Tonante amica De’ suoi mali
409. né potendo il rio
418. ebbe lo speco:
420. e si prostrâr devote
427-8. Poscia d’un guardo L’austral fianco feri della montagna;
438-65. Fur sacre le primizie. Allor la Copia Pieno il corno diffuse, e coronata Fu dell’avaro agricoltor la speme.
466. ogni colle, ogni pianura
471. Dieci e dieci cittadi
473. Animârsi, abbellîrsi; e strette
487. Un gemere di plaustri
491-3. Che poi tanta diè guerra al pio Troiano, Quando gli disputâr
497-9. Di Feronia apparia l’opra e il favore. Però da cento altari
501. che carco e stanco
505. ed allegra al sole apriva
510. E l’alto Acrocerauno, e in Mongibello Avean riposo Piracmone e Bronte.
513. Manca nell’edizione pisana.
519. E cheti d’Ida i tuoni, e dissipato
521. La presenza di Giove. Onde, turbata
522. E sospettosa, alle
524. sguardo, e sul sidonio mare L’infido ricercò, sul Taigeto,
528. Indi all’Ausonia
532-33. A cotal vista Nella memoria le tornò la nube Che fuor del grembo su l’inachia riva La mentita giovenca un giorno mise: Le si ristrinse il cor
543. Co’ fragranti vestigi
546. delle larghe penne
552-4. Retro quindi alla parte onde si tolse L’arcana nebbia rivoltò la bieca Diva lo sguardo; ed ecco in piè rizzarsi Cosí bella una ninfa,
565. Iscolorossi
580. L’onnipossente padre
592. Temeraria silvana. E in questo dire
620. maggior, torse le piante.
621. Fra le
622. S’apre vasta spelonca
627. Di vivo marmo
628. erbe si parte
633-4. i fiumi, E dansi d’amistà segni ed amplessi.
639. strepitoso e lordo
643. E cento ninfe che le fonti e l’urne E l’umide lor case hanno in governo, Prudenti ninfe che il cader degli astri
645. vicende, sanno
659. delle volsce acque
677. Succinto e chiaro
702. Rotta al fiero
706. Le discinde: sonante e
713. Squarciate e svelte le
726. E a Feronia gridar
752. Delle volsce cittadi
760. e ne raggiugne
763. Gl’irriga e batte con immenso spruzzo.
Note
- ↑ 2. Feronia: «È fama che, allorquando Licurgo ebbe date agli Spartani quelle sue famose leggi, alcuni di essi non potendone sostenere l’asprezza si mettessero in nave e partissero per ricercare altrove un’altra patria. E vuolsi che stanchi del lungo e infruttuoso viaggiare pe’ mari facessero voto agli Dei, che, su qualunque spiaggia lor fosso accaduto di metter piede, ivi avrebbero fermata la propria stanza. Quindi portati in Italia ai campi Pomentini, pigliarono terra; dissero Feronia il suolo su cui erano sbarcati, poiché pel mare era loro avvenuto di essere qua e là trasferiti (ut huc illuc ferrentur); ed alla divinità di Feronia eressero un tempio. — Queste sono presso a poco lo parole colle quali Dionigi d’Alincarnasso (A. R. II, 49) racconta l’origine di questa divinità. Il tempio di cui fa menzione lo storico, sorgeva in vicinanza del fiume Ufente, verso il monte Circèo o di Terracina; ed Orazio (Sat. I, v, 24) ricorda la fontana ch’ivi era consacrata a Feronia. Oltre la fontana vi aveva un lago ed un bosco assai celebre, i cui alberi raccontavasi che non fossero mai tocchi dal fulmine. Di questo bosco fa parola Virgilio (En. VII, 800) come di cosa particolarmente cara alla dea: et viridi gaudens Feronia luco [Cfr. Servio Ad Aen. loc. cit.]. Il culto di Feronia si accrebbe col tempo grandemente. Ella ebbe un tempio anche in Etruria nel luogo dove ora è Pietrasanta, ed un altro nel territorio Capenate fra Veio e il Tevere alle radici del Soratte, cui i Latini e Sabini, frequentandolo in comune, avevano arricchito d’infiniti doni, che un largo bottino somministrarono alla rapacità dei soldati di Annibale nel loro passaggio (Cfr. Livio XXVI, 11 e Silio Italico De Bell. Pun. XIII 83). Chi fosse vago di maggiori notizie intorno a Feronia, consulti il Vetus Latium profanum et sacrum, opera del card. Marcello Corradini continuata dal padre Rocco Volpi...» Mg.
- ↑ 4. Di Saturno la terra: l’Italia, salutata da Virgilio (Georg. II, 173) magna parens frugum, Saturnia tellus. Cfr. la nota al v. 73, p. 99.
- ↑ 7. esercitata: travagliata. Latinismo (cfr., p. e., Virgilio En. III, 182), usato anche dall’Ariosto (XXXIV, 39): «non fu mai tanto Dalla matrigna esercitato Alcide...».
- ↑ 8. D’una diva: di Giunone, come dirà piú oltre.
- ↑ 11. Parche: cfr. la nota al v. 48, p. 99.
- ↑ 12. Ma qual de’ numi ecc.: Omero Iliad. I, 10 (trad. M.): «E qual de’ numi inimicolli?»
- ↑ 15. e un suo furor geloso: Virgilio En. I, 4: saevae memorem Iunonis ob iram. Osserva lo Zumb. (p. 206): «Feronia rende quasi figura di Enea, predestinata com’era, nonostante l’indefessa persecuzione di tanta nemica, a far grandi cose in quel Lazio, la cui fama durerebbe quanto il mondo».
- ↑ 17. e dall’obblio ecc. Tiene un po’ di quel del Tasso (XII, 54): «Notte, che nel profondo oscuro seno Chiudesti e nell’obblio fatto sí grande, Piacciati ch’io no ’l tragga e in bel sereno A le future età lo spieghi e mande».
- ↑ 19. manifesto in Elicona: trattato in poesia.
- ↑ 20. di nuove ecc.: cfr. i vv. 21 e seg., p. 218.
- ↑ 22. Alcuna ecc.: Dante Inf. xxvi, 81: «S’io meritai di voi assai o poco, Quando nel mondo gli alti versi scrissi...»
- ↑ 25. meonio fonte: da Omero. Cfr. la
- ↑ 28. Simoenta e Xanto: fiumi che scorrevano presso Troia.
- ↑ 29. Al mar ecc.: Virgilio En. V, 807: gemerentque repleti Amnes, nec reperire viam atque evolvere posset In mare se Xantus. Cfr. anche Omero Iliad. XXI, 214.
- ↑ 30. Ma quando ecc.: Omero nell’Odiss. (VII, 172 trad. Pindemonte) dice che nel giardino d’Alcinoo, re de’ Feaci, scaturivano «due fonti Che non taccion giammai: l’una per tutto Si dirama il giardino, e l’altra ecc.».
- ↑ 32. pimplea: poetica. Le Muse erano dette Pimplee dal monte Pimpla nella Macedonia, Cfr. Foscolo Sep., 232.
- ↑ 33. imposto ecc.: Orazio Sat. I. v, 26: Impositum saxis late candentibus Anxur.
- ↑ 34. Ansuro: la moderna Terracina, che sorge sopra una rupe a mezzodí del monte Circello (Circèo), sporgente in mare. Cfr. Virgilio En. VII, 10 e la nota al v. 278, p. 19.
- ↑ 36. pomezia: «pontina, da Pomezia, città che ora chiamasi Mesa, la quale diede il nome di pometina alla vasta pianura ch’è circondata a settentrione dalle montagne lepine, e si stende fino al mare toscano e al monte Circèo. Questa pianura coll’andare del tempo fu detta per sincope pomtina, pontina». Mg.
- ↑ 40. laurentini: di Laurento (oggi Torre di Paterno), antica capitalo del Lazio.
- ↑ 43. Canente: moglie di Pico, antichissimo re del Lazio (Virgilio En. VII, 171). famosa, come dice il suo nome stesso, pel canto. — Pomona: ninfa laziale, coltivatrice di giardini. Cfr. Ovidio Metam. XIV, 623.
- ↑ 45. Qual ecc.: Catullo LXII, 39: Ut flos in septis secretus nascitur hortis, Ignotus pecori, nullo contusus aratro, Quem mulcent aurae, firmat sol, educat imber; Multi illum pueri multae optavere puellae.... Invece dell’imitazione notissima fatta di questi versi dall’Ariosto (I, 42), rechiamo quella, poco nota, che ne fece il Casa (son. 31): «Qual chiuso in orto suol purpureo fiore, Cui l’aura dolce e ’l sol tepido, e il rio Corrente nutre, aprir tra l’erba fresca...» — verno: primaverile (lat.). Orazio Od. II, xix. 9: verni flores.
- ↑ 53. Era diletto ecc. ecc.: «Sono pittura incomparabile tutte quelle (parti) dove si descrivono fatti idillici e gli aspetti della natura e in specie della bella natura.... Buona parte del primo canto è una georgica addirittura: georgica di singolar pregio, perché quasi personificata in una bellissima creatura, la quale, senza sentirsele dire da un poeta pedagogo, o senza recitarlo essa stessa, applicava le regole della coltivazione». Zumb. p. 217.
- ↑ 60. Le selvatiche madri: le erbe selvatiche, personificate, tanto che si dà loro fero ingegno e barbaro costume.
- ↑ 74. D'Orizia il rapitor: cfr. la nota al v. 85, p. 33.
- ↑ 76. áppule: dell'Apuglia.
- ↑ 77. di Lucrino: del lago Lucrino, vicino al golfo di Baia, che aveva un molo (fattovi costruire per render piú facile la pescagione in esso lago), contro il quale picchiavano rumorosamente i flutti del mare. Cfr. Virgilio Georg. II, 161.
- ↑ 81. Damasco: città della Siria. — Mileto: capitale della Ionia.
- ↑ 84. Fu pestana ecc.: «Le rose di Pesto, paese della Terra di Lavoro..., sono andate in proverbio. Di quelle di Preneste, città nel Lazio, ora Palestrina, scrive Plinio (St. Nat. XXI, 4) che erano state fatte celeberrime da’ Romani e ch’erano l’ultime a cessar di fiorire. Ovidio nel xv delle Metam., Properzio nella quinta elegia del lib. IV, Claudiano nelle Nozze di Onorio e Maria, fanno l’elogio di queste rose. Virgilio nel quarto della Georgica (v. 119) vorrebbe avere spazio di cantare i rosai di Pesto due volte fecondi: canerem biferique rosaria Paesti». Mg. Cfr. anche Marziale IX, 61.
- ↑ 87. Licnide dioica, che ha fiori bianchi e un fusto alto, a volte, quasi un metro. — figlia ecc.: «La circostanza qui toccata dal poeta è registrata da Ateneo nel lib. XV de’ suoi Dipnosofisti nel modo seguente:... ex aqua natam esse in qua Venus lavit postquam cum Vulcano concubuisset. Optimam autem gigni in Cypro et Lemmo, item in Strongyle, Erice et Cytheris». Mg. Cfr. Plinio St. Nat. XXI, 4.
- ↑ 92. L’amaraco «che ora chiamasi persa o maggiorana, col quale gli antichi componevano l’unguento detto amaracino, tenuto in grandissimo pregio (Plinio St. N. XII, 4), era singolarmente caro a Venere, non solamente per essere a lei dedicati tutti i profumi, ma ancora perché questo aveva la facoltà di volgere in fuga l’animale uccisore di Adone. Amaracinum fugitat sus, scrive Lucrezio (De R. N. VI, 973).» Mg. Cfr. anche Virgilio En. I, 692 e segg.
- ↑ 93. Xanto: cfr. la nota al v. 28.
- ↑ 97. fero amatore: Marte.
- ↑ 100. loto: «La descrizione del loto può vedersi in Plinio (St. Nat. XIII, 17), il quale ne fa sapere ch’esso sorge nell’Egitto allorché si ritirano le acque del Nilo. Il Sonno rappresentasi ordinariamente dagli scultori e dai pittori con questo fiore sovra la testa. — Il medesimo Plinio (XXI, 15) rammenta la colocasia, e la dice Aegypto nobilissima. Anche l’acanto è pianticella egiziana». Mg. Cfr. Virgilio Ecl. IV, 20.
- ↑ 104. ranuncolo: «L’autore con uno dei consueti anacronismi, di cui giovasi la poesia, trasporta all’età di Feronia ciò che avvenne assai dopo i tempi della mitologia. I primi ranuncoli furono portati in Europa dai Crociati ne’ secoli xii e xiii, ma vi rimasero negletti e quasi incogniti.... Il visir Cara Mustafà, quegli che nel 1683 minacciò Vienna e v’ebbe la famosa rotta, avendo instillato il gusto de’ fiori nel suo sovrano, il sultano Maometto IV, fece venire da Candia, da Cipro, da Rodi, d’Aleppo, da Damasco le radici ed i semi di tutte le piú belle varietà di ranuncoli, che da Costantinopoli inviate poi in varie parti d’Europa divennero l’ornamento de’ giardini cosí in Francia come in Italia. Allorché l’autore scriveva in Roma la Feroniade, questo fiore vi era in gran voga e si coltivava con amore singolarissimo». Mg.
- ↑ 121. spegne ecc.: a significare che se queste matrone non destano piú amore, sanno però tener vive liete amicizie.
- ↑ 125. negli orti cirenei: «I fiori di Cirene erano celebratissimi per la loro fragranza. Di che rende testimonio Ateneo nel lib. XV de’ suoi Dipnosofisti: «Le rose (scrive egli) che nascono presso Cirene sono odorosissime, onde colà è pur molto soave l’unguento rosato: anche l’odore delle viole e degli altri fiori vi è esimio e divino». Mg.
- ↑ 127. «colle pallantèo chiama il poeta il Palatino di Roma ove gli Arcadi seguaci di Evandro.... posuere in montibus urbem Pallantis proavi de nomine Pallanteum. Virgilio En. VIII, 53. Per corruzione da Pallanteum si fece Palatinum, e da ultimo Palatium. Augusto vi pose la sua reggia». Mg. Cfr. Servio Ad Aen., loc. cit. e Livio I, 5.
- ↑ 128. Di Zefiro la sposa: Flora.
- ↑ 129. E del suo seno ecc: A significare che la prima a nascere de’ fiori è la mammola.
- ↑ 131. Nunzia d’april: cfr. il v. 42, p. 188.
- ↑ 132. Cernobbio: villa nel territorio di Como dell’amico ed ospite del poeta Carlo Londonio «re dell’onore o senno antico» (ed. Card. p. 448), figlio del quale furono le «amabilissime fanciulle» Isabella ed Emilia.
- ↑ 139. Di Cernobbio le rose: le due fanciulle or ricordate.
- ↑ 140. Olona: cfr. la nota al v. 205, p. 148. — paradiso: giardino, secondo il valore etimologico della parola. Cfr. Petrarca P. I, son. 187 e Tasso III, 1.
- ↑ 153. ne’ meonii campi: nella poesia Omerica. Cfr. la nota al v. 121, p. 45.
- ↑ 154. o d’incanti ecc.: il flore Moly («bruna n’è la radice; il fior bianco di latte; Moli i Numi lo chiamano»: Omero Odiss. trad. Pindemonte X. 395) servì ad Ulisse a sciogliere gl’incanti di Circe. Cfr. la nota al v. 278, p. 19.
- ↑ 163. emblema ecc.: simbolo della temperanza.
- ↑ 168. Di Maia ecc.: Mercurio, nato, sul monte Cillene in Arcadia, di Giove e Maia.
- ↑ 182. Degli afflitti ecc.: «de’ mortali Egri conforto, oblio dolce de’ mali». Casa, son. Al sonno.
- ↑ 183. un indistinto.... olezzo: È l’«incognito indistinto» di Dante (Purg. vii, 81).
- ↑ 198. Viridario: giardino (lat.).
- ↑ 201. Rallegrando ecc.: Verso che tiene un po’ di quel del Foscolo (Sep., 40): «Le ceneri di molli ombre consoli».
- ↑ 205. melagrano: «L’uso della melagrana era interdetto nelle feste di Cerere legifera dette Tesmoforie e ne’ Misteri Eleusini, perché questo frutto era stato cagione che Cerere non avesse riavuta sua figlia Proserpina rapita da Plutone. Ché, accordata la restituzione di lei, a patto che nell’-inferno non avesse guatato cibo, Ascalafo appalesò di averla veduta inghiottire alcuni semi di melagrana onde dovette rimanersi col rapitore (Cfr. Ovidio Metam. V, 509, Fast. IV, 67; Inno a Cerere attrib. ad Omero, 372 ecc.). Di qui l’odio di Cerere per questa pianta, la quale per altro era consacrata a Giunone ed a Minerva». Mg.
- ↑ 207. Ecco il melo ecc.: «Del pomo detto cidonio da Cidone città di Creta, ora chiamato cotogno, ragiona Plinio nel lib. XV, 11. Ed Ateneo nel terzo de’ Dipnosofisti racconta, sulla fede di Filarco, che la cotogna colla soavità del suo odore ha la facoltà di render nullo l’effetto de’ veleni. Gli antichi ne usavano per dar fragranza al fiato: onde Solone (al dire di Plutarco, Praecept. connub.) aveva ordinato nelle sue leggi che gli sposi nel primo giorno delle nozze mangiassero di questa mela prima di coricarsi, certamente per indicare che la prima grazia della bocca e della voce debb’essere condita di piacevolezza e di soavità». Mg.
- ↑ 215. il perso arboscel: «Il persico chiamato Malus persica, perché credevasi trasportato in Italia dalla Persia». Cfr. Plinio St. N. XV, 12. «Il suo fratello detto d’armena stirpe è quello che or chiamano Meliaco, e che i Latini dicevano Malus armeniaca dall’Armenia d’onde ci è provenuto». Mg.
- ↑ 219. Perocché ecc.: «Lucullo, debellato Mitridate re del Ponto ed atterrata la città di Cerasunte, portò in Italia l’albero che da essa fu detto in latino Cerasus e che da noi viene chiamato Ciriegio. Così Plinio, lib. XV, cap. 25. Servio però nel commento al v. 18 del lib. II delle Georgiche scrive che anche prima di Lucullo eran note in Italia le ciriege, se non che erano di una qualità piú dura e chiamavansi cornum; onde poi, mischiando i nomi, vennero dette cornocerasum». Mg. Cfr. anche Ateneo Dipnos. II, 11.
- ↑ 225. ibleo: dolce come miele. Cfr. la nota al v. 75, p. 196.
- ↑ 227. Il calcidico fico: «Moltissimi sono gli aggiunti che si danno ai fichi secondo la varietà de’ luoghi da cui provengono o le differenze loro individuali. Cfr. Plinio St. N. XV, 29; Macrobio Saturn. III, 20; Ateneo Dipn. III, 2 e seg. Il fico calcidico produce, secondo Plinio, i suoi frutti fino tre volte l’anno; e perciò dal poeta è qui nominato di preferenza, siccome il principale della specie». Mg.
- ↑ 228. alle celesti ecc.: «Cerere, nelle sue lunghe e penose peregrinazioni in traccia della figlia, fu accolta ospitalmente in un borgo dell’Attica detto de’ Lacidi. da un certo Fitalo; al quale essa in ricompensa dell’ospizio fece dono dell’albero del fico, le cui frutta prima erano note soltanto alle mense degli dei». Mg. Cfr. Pausania Attica XXXVII, 2.
- ↑ 236. ircani e misii: dell’Ircania, provincia antica dell’Asia al mezzodí del mar Caspio, e della Misia, provincia al nord-ovest dell’Asia minore.
- ↑ 239. pomi: frutti (lat).
- ↑ 240. a Serse: «Serse figlio di Dario, volendo vendicare le sconfitte che suo padre aveva ricevuto dai Greci, giurò che non avrebbe mai gustato de’ fichi dell’Attica che portavansi a vendere in Persia, finché non avesse in suo potere la terra che li produceva (Plutarco, Apophteg.). Temistocle ed Aristide gli fecero però costar care le suo millanterie». Mg. — e a Cartago: Catone il Censore fece che Roma non fosse quieta se non dopo distrutta Cartagine, portando in senato un fico primaticcio spiccato soli tre giorni prima nel territorio di quella città; e dimostrando in tal modo che il nemico era troppo vicino. Cfr. Plinio St. Nat. XV, 18.
- ↑ 244. Babilonico salcio: Salmi cxxxvi, 1: «Sulle rive de’ fiumi di Babilonia ivi sedemmo, e piangemmo in ricordandoci di te, o Sionne: A’ salci appendemmo in mezzo a lei i nostri strumenti».
- ↑ 251. Tu non vanti ecc.: Di rami di quercia si facevano dai Romani le corone del merito civile; di rami d’alloro, quelle dei trionfatori.
- ↑ 259. Del mio Giulio: del conte Giulio Perticari (1779-1822), savignanese, autore del trattato Degli scrittori del trecento, della dissertazione Dell’amor patrio di Dante e di altre opere minori, che aveva sposato fin dal ’12 la bellissima figlia del poeta, ai mali trattamenti e, secondo alcuni, anche al veleno della quale si dovè la morte precoce di lui. Ma della seconda accusa la scolpò del tutto il piú gran medico d’allora, Giacomo Tommasini (Storia della malattia per la quale morí il c. G. P.: Bologna, Nobili, 1823); della prima la scolpano le lettere che ci restano del marito e di lei. Cfr. la nota d’introd. a p. 198.
- ↑ 265. quivi: nel tuo cuore.
- ↑ 268. Datti pace ecc.: Nel 1833 uscí in Napoli dalla tipografia dei fratelli Rusconi una «Risposta ad un’Apostrofe del poema intit. la Feroniade» fatta da Gordiano Perticari, tutta, s’intende, di vituperi contro Costanza. I versi cominciano: «No! la meschina tua non si conforta L’estinto sposo nell’udir compianto Da Italia tutta; entro il cui duol se mira Col senno, s’ange piú, che al divo ingegno Costei troncò sul fior l’opre piú belle». Poi si volge naturalmente anche contro il Monti. «Non si può non figurarsi Costanza accasciata sotto il peso d’una persecuzione cosí tenace,... e certo le uscivano dal cuore quei versi per l’onomastico dell’Aureggi, che la risposta del padre ha resi famosi [ed. Card., p. 426 e seg.]». Masi, p. 260.
- ↑ 270. i monumenti mira ecc.: Il monumento al Perticari non fu fatto che nel ’54, in cui recitò il discorso inaugurale Francesco Rocchi (Bologna, tip. dell’Ancora, 1857).
- ↑ 285. Ma dove ecc.:cfr. la nota al v. 244, p. 17.
- ↑ 291. L’odorato.... arbor ecc.: Cfr. Virgilio Georg. II. 126-35. «Tutti i migliori commentatori ravvisano in questi versi descritto il cedro, benché non sappiano assegnare con certezza se Virgilio parli del cedro propriamente detto ovvero del limone o dell’arancio. Basta però che tutti questi frutti hanno tra di loro una grandissima affinità. Intorno a ciò che ne sapevano gli antichi, si consultino Teofrasto Hist. Plant. IV. 4; Plinio St. N. XII, 3; Ateneo Dipn. III, 5; Macrobio Saturn. III, 19». Mg.
- ↑ 305. lusitan: portoghese.
- ↑ 307. nel ciel creata: Il cedro si disse nato in cielo il giorno delle nozze di Giunone con Giove.
- ↑ 308. L’aureo pomo fatal: quello che la Discordia, non invitata alle nozze di Teti e Peleo, gettò nel mezzo del banchetto degli dei, con la scritta alla piú bella. Contesero per averlo Giunone, Minerva e Venere: l’ebbe quest’ultima per giudizio di Paride, onde l’odio delle altro due dee e la guerra di Troia.
- ↑ 309. con questo ecc.: Aconzio amante di Cidippe scrisse sopra un cedro queste parole: Io giuro a Diana di non esser che d’Aconzio, e lo gettò a’ piedi della fanciulla nel tempio della dea. Cidippe, raccolto il frutto, lesse, e, dovendosi eseguire tutto ciò che in esso tempio si pronunziava, non poté non esser d’Aconzio.
- ↑ 310. Ippòmene, sfidato dall’amata Atalanta. se voleva ch’ella fosse sua, al corso, essendo per perdere, gettò tre arance alla fanciulla, che si fermò a raccoglierle, rimanendo cosí perdente.
- ↑ 311. Che non insegni ecc.?: Tasso I, 57: «Nelle scole d’Amor che non s’apprende?»
- ↑ 313. E fu pur questa ecc.: Atlante (cfr. la nota al v. 153. p. 109) diede in guardia gli aranci del giardino delle sue figlie Esperidi (Egle, Aretusa, Esperetusa) a un terribile drago, cui uccise Ercole, portando quegli aurei pomi al fratello Euristeo.
- ↑ 316. Alcide: Ercole (gr. alké: forza).
- ↑ 318. Seco l’addusse ecc.: «Evvi una tradizione che Ercole abbia portato in Italia il primo cedro, toccata anche dal Pontano (De Hort. Hesp., lib. I). Anche i Greci credevano di avere ricevuto il cedro da questo eroe (Vedi Ateneo, Dipn. III, 7)». Mg.
- ↑ 319. Quando ecc.: Virgilio En. VII, 661: postquum Laurentia Victor, Geryone extincto, Tirynthius attigit arva, Tyrrhenoque boves in flumine lavit Hibernas.
- ↑ 321. il ladron ecc.: Caco, che, avendo rapito il bestiame ad Ercole, fu da lui ucciso a colpi di clava. Cfr. Virgilio En. VIII. 190 e Dante Inf. xxv, 25 e seg.
- ↑ 323. Evandro: capo della colonia degli Arcadii che si stabilirono anticamente nel Lazio, Cfr. Virgilio En. VIII, 51.
- ↑ 325. quel giogo: ai monti laziali.
- ↑ 327. Il ramingo ecc.: cfr. la nota al v. 73, p. 99.
- ↑ 329. Sezia: ora Sezze, celeberrima una volta pe’ suoi vini. Cfr., fra gli altri, Giovenale V, 33.
- ↑ 330. di Giove.... figlio: Ercole. Cfr. la nota al v. 507, p. 115.
- ↑ 332. l’arbor divino: il cedro.
- ↑ 346. Taburno: monte del Sannio ricco d’olive. Cfr. Virgilio Georg. II, 38.
- ↑ 348. Gli Egipani: «sono divinità montane e boscherecce con corna e gambe caprigne. Questo nome fu dato talvolta allo stesso Pane. Il primo Egipane però nacque di Pane e della ninfa Ega che in greco vale capra. La corona di foglie di pino era propria di queste divinità delle selve e de’ monti». Mg. Cfr. Ovidio Metam. XIV, 638 e Properzio I, xviii, 20.
- ↑ 351. Lo volle ecc.: Virgilio Ecl. X, 24: Venit et agresti capitis Sylvanus honore, Florentes ferulas et grandia lilia quassans. Pan deus Arcadiae venit; quem vidimus ipsi Sanguineis ebuli baccis minioque rubentem.
- ↑ 352. ebuli: «L’ebulo, detto anche ebbio in italiano, è un frutice che somiglia al sambuco nella forma e nelle bacche che produce, ma non cresce alla medesima altezza. — La ferula è un frutice anch’essa, che ha le foglie come il finocchio ed il gambo somigliante alla canna: il fiore ritrae di quello dell’aneto». Mg.
- ↑ 360. Che di soave ecc.: Virgilio En. VII, 11: Dives inaccessos ubi Solis filia lucos Assiduo resonat cantu, tectisque superbis Urit odoratam nocturna in lumine cedrum, Arguto tenues percurrens pectine telas. Cfr. la nota al v. 278, p. 19.
- ↑ 385. Dai pelasghi confini: Su la venuta dei Pelasgi in Italia e precisamente nel Lazio, cfr. Dionigi d'Alincarnasso Ant. Rom. II, 1.
- ↑ 386. Ch'ella ecc.; Tasso II, 14: «E de' vagheggiatori ella s'invola Alle lodi, agli sguardi, inculta e sola».
- ↑ 391. D’un imberbe fanciullo: «Di qui la denominazione di Ansuro: perocché vogliono che cosí fosse chiamato Giove da ἄνευ (sine) e ξυροῦ (novacula), cioè dal non aver usato rasoio; il che può equivalere ad imberbe. Sotto questo nome egli era adorato in Terracina, come marito di Feronia. Cfr. Servio Ad Aen. VII, 799». Mg.
- ↑ 394. e lieta ecc.: cfr. la nota al v. 181, p. 103
- ↑ 400. Ma di baleni ecc.: «Tutti segnali di tristo augurio; poiché (al dire di Servio, al lib. IV, V. 166 dell’En.) nulla vi avea, secondo la dottrina degli Etruschi, di piú infausto nelle nozze che il turbamento dell’aria e della terra. Dicasi altrettanto dell’ululare delle ninfe in vece delle giulive canzoni nuziali. Cosi nelle infelici nozze di Enea con Didone (Virg. En. loc. cit. ): .... Prima et Tellus et pronuba Iuno Dant signa: fulsere ignea et conscius aether Connubiis; summoque ulularunt vertice nymphae.
- ↑ 409. né potendo ecc.: «Il Fato era veramente la suprema divinità degli antichi, la legge immutabile a cui gli dei medesimi soggiacevano. Quindi Giove, il padre dogli dei e degli uomini, quegli che moveva ogni cosa col moto del suo sopracciglio, non poteva cambiare pur una sillaba di ciò che stava ne’ Fati: e lo confessa egli stesso in Ovidio (Metam. IX, 433): Me quoque fata regunt». Mg.
- ↑ 417. Dodona: città dell’Epiro, che aveva una celebre foresta, sede dell’oracolo di Giove Pelasgico. — Ida: monte in Creta. Cfr. la nota al v. 5, p. 193.
- ↑ 429. E una súbita ecc.: cfr. la nota al v. 2.
- ↑ 436. Antefora: «Dionigi d’Alincarnasso ne ha conservati questi nomi, co’ quali veniva appellata Feronia (A. R. III, 32). - Antefora è quanto dire florigera, ossia Portatrice de’ fiori - Filostefana vale Amante delle corone - Persefone è in greco lo stesso che in latino Proserpina. - Gli abitanti del Lazio offerivano nel suo tempio le primizie de’ frutti; ed i servi che venivano manomessi ricevevano in esso il pileo della libertà: Servio (Ad Aen. VIII, 564) scrive che nel tempio medesimo vi avea un sedile, sul quale era incisa la seguente iscrizione: Bemeriti servi sedeant, surgant liberi. Di qui Feronia fu chiamata eziandio dea de’ liberti: onde abbiamo da T. Livio (XXII, 1) che le donne liberte, quando Roma era minacciata da infausti prodigi, sovrastandole Annibale, misero insieme, secondo la loro facoltà, una somma di danaro da offrirsi a Feronia».
- ↑ 444. di Minori han nome: cfr. la nota al v. 255, p. 106.
- ↑ 447. Lieo: Bacco, il culto del quale si diceva fosse stato portato nel Lazio dagli Arcadi. Cfr. la nota al v. 323. Nel territorio di Sezze, e proprio nel luogo detto Forum Appii, ebbe tempio e sacrifizi.
- ↑ 451. E la bionda ecc.: «Anche il culto di Cerere ora stato portato dagli Arcadi nel Lazio e nei paesi circonvicini, ove quella dea fu poi sempre grandemente onorata. L’invenzione delle leggi venne attribuita a questa dea, del pari che il ritrovamento delle biade, per la ragione che ben fu avvisata da Servio (Ad Aen. IV, 58). Trovato l’uso del frumento, nacquero i diritti insieme colla distribuzione dei terreni. E di qui venne dato a Cerere il nome di legifera, che può vedersi in alcune iscrizioni, in Callimaco (Hymn. in Cer., 19), in Virgilio (l. c.) in Ovidio (Metam. V, 343)». Mg.
- ↑ 454. trinacrie: di Sicilia.
- ↑ 455. d’Aricia il bosco: Era presso il lago Arcino, ora di Nemi.
- ↑ 458. parrasie: della Parrasia, parte di Arcadia. Cfr. Foscolo All’am. ris., 57.
- ↑ 460. degna: perché Diana era, com’è noto, figlia di Latona, perseguitata pur essa da Giunone.
- ↑ 462. «Notisi che i primi effetti della civiltà, introdotta nel Lazio da Feronia, sono in tutto simili a quelli che, secondo Virgilio, vi ebbero luogo per opera di Saturno. Cfr. En. VIII, 319 e segg.» Zumb., p. 207.
- ↑ 464. il corno che si figurava tenesse in una mano, pieno d’ogni sorta di frutti.
- ↑ 465. avaro: cupido.
- ↑ 470. Eco: «quella vaga Ch’amor consunse come Sol vapori». Dante Par. xii, 14. Cfr. anche Ovidio Metam. III, 356 e segg.
- ↑ 471. Venti e quattro cittadi: cfr. Corradini Vetus Latium II, 16.
- ↑ 479. i lari: le case. Cfr. la nota al v. 221, p. 207.
- ↑ 487. Un gèmere ecc.: cfr. i vv. 117 e segg. p. 7.
- ↑ 491. pietoso Troian: Enea. Cfr. Virgilio En. I, 220.
- ↑ 493. Camilla figlia del re de’ Volsci: Turno, re de’ Rutili. Cfr. Virgilio En. XI. 778 e XII, 919 e segg. e Dante Inf. i 107 e seg.
- ↑ 494. Lavinia: la figlia di re Latino che, promessa a Turno, sposò poi Enea. Cfr. En. VI, 764 e Dante Par. vi, 3.
- ↑ 509. d’Ato: il monte Athos nella penisola calcidica, sull’Egeo. — Rodope: monte della Tracia.
- ↑ 510. Bronte: cfr. la nota al v. 385, p. 110.
- ↑ 525. sidonio: di Sidone, città de’ Fenici. — nonacrio: sui monti della città di Nonacre in Arcadia.
- ↑ 526. Ismen.... Asopo: fiumi della Beozia.
- ↑ 540. taumanzii: di Iride, figlia di Taumanto.
- ↑ 546. ombra: protezione. Dante Par. vi, 7: «E sotto l’ombra delle sacre penne...» Cfr. anche Parini Od. VIII, 19.
- ↑ 568. Scomposta i veli: Accus. di rel. Cfr. la nota al v. 26, p. 3.
- ↑ 572. Di Callisto la pena: Giunone irata contro la ninfa Callisto amata dal marito, dopo averla rimproverata aspramente, la prese pe’ capelli e la gettò per terra. Dixit: et, adversa prensis a fronte capillis, Stravit humi pronam. Cfr. Ovidio Metam. II, 476 e Fast. II, 155 e segg.
- ↑ 577. salma: cfr. la nota al v. 199, p. 16.
- ↑ 585. Semele: figlia di Cadmo e d’Ermione, che partorí a Giove Bacco. Cfr. Dante Inf. xxx, 1. — Alcmena: cfr. la nota al v. 507, p. 115.
- ↑ 587. i due figli ecc.: i due gemelli Castore e Polluce, che Leda, moglie di Tindaro re di Sparta, generò di Giove, trasformato in cigno. Cfr. Musog., v. 122 o Ariosto III, 50. — Ganimede: il coppiere di Giove.
- ↑ 609. veliterne: di Velletri.
- ↑ 611. Cora (cfr. la nota al v. 9, p. 2) non fondò la moderna Cori, ma la ricostruí e le impose il suo nome. Cfr. Volpi Vetus Latium IV, 123.
- ↑ 613. il sacro lago: cfr. la nota al v. 455.
- ↑ 615. Ippolito, ucciso da cavalli infuriati per imprecazioni del padre Teseo, istigato malamente dalla matrigna Fedra, fu da Diana fatto risuscitare e, sotto il nome di Virbio, dato in custodia alla ninfa Egeria. Cfr. Virgilio En. VII, 765 e Ovidio Metam. XV, 497. Cfr. anche Feron. c. II, 118 e segg.
- ↑ 621. priverne: della città di Piperno, antic. Priverno.
- ↑ 634. Il freddo Ufente (Virgilio En. VII, 801: gelidusque... Ufens) nasce alle falde del monte di Sezze. — L’Astura scorre nel territorio di Anzio, ed è detto lamentoso, perché presso le sue rive fu ucciso Cicerone e preso il fuggente Corradino di Svevia, vinto a Tagliacozzo.
- ↑ 635. Il Ninfeo (oggi Storace) nasce ne’ monti di Norba dal lago dello stesso nome, presso il quale era un tempio sacro allo Driadi. Plinio (St. N. II, 94) narra che nel lago erano certe isolette dette Saltuares dal moversi a tempo sotto il piede di chi vi danzava.
- ↑ 636. Amfitrite: cfr. la nota al v. 100, p. 213.
- ↑ 638. Il Superbo Amasen (Virgilio En. XI, 547: Amasenus abundans) scorre presso Piperno.
- ↑ 651. Su la bionda vallea ecc.: sui campi pieni di biade mature, quando le ninfe Pleiadi (costellazione di pioggia) sono inseguite da Orione (costellazione anch’essa di procello: cfr. Virgilio En. I, 535 ecc.), che fu già famoso cacciatore beoto. — vallea: cfr. Dante Inf. xxvi, 29 e Purg. viii, 98; Ariosto xxxvii, 26, Manzoni La Risur., 26 ecc. Da ciò si può vedere che questo francesismo è di buon uso nella lingua poetica.
- ↑ 677. diserto: disadorno.
- ↑ 678. A te ecc.: In egual modo risponde Eolo a Giunone nell’En. (I, 76): Tuus, o regina, quid optes Explorare labor; mihi iussa capessere fas est. Tu mihi quodcumque hoc regni, tu sceptra Iovemque Concilias.
- ↑ 691. e palpitanti ecc.: cfr. il v. 93, p. 66 e la nota corrisp.
- ↑ 704. Vola ecc.: Ovidio Metam. I, 264: madidis Notus evolat alis.... Utque manu lata pendentia nubila pressit, Fit fragor; hinc densi funduntur ab aethere nimbi.
- ↑ 714. Spumosa ecc.: «Come i piú leggiadri, cosí egli sa dipingere i piú terribili aspetti del mondo esterno e il sublime orrore delle tempeste. Ed è notevole che il suo teatro sia sempre lo stesso regno di Feronia, visto or nel sorriso, or nella collera della natura. Com’è magnifica quell’immensa marea di tutti i fiumi latini!» Zumb., p. 213.
- ↑ 720. bastite: steccati con terrapieni per difesa delle acque.
- ↑ 721. già sfasciati ecc.: Virgilio En. I, 122: laxis laterum compagibus omnes (naves) Accipiunt inimicum imbrem, rimisque fatiscunt. Ariosto XLI, 14: «Il legno vinto in piú parti si lassa, E dentro l’inimica onda vi passa».
- ↑ 724. Di vergini ecc.: Cfr. Virgilio XII, 131; Petrarca P. III, canz. ii, 57; Tasso III, 11.
- ↑ 734. sul corno: cfr. la nota al v. 337, p. 108.
- ↑ 737. Trapunzio, su la via Appia; Longula, tra il monte Circèo e Sezze; Polusca, vicina a Longula.
- ↑ 739. Mucamite: tra Anzio e Longula. — Ulubra: tra Velletri e Pomezia.
- ↑ 740. Satrico, tra Anzio e Velletri, ove era venerata, specie dalle donne, la dea Matuta (Aurora), che presedeva al maturar delle biade. Cfr. Ovidio Fast. VI, 473.
- ↑ 743. Pomezia: cfr. la nota al v. 36.
- ↑ 749. I barbarici campi: «Cosí chiamavasi una vasta pianura intorno a Regeta, luogo vicino all’Ufente, celebre per la sconfitta che vi ebbero i Galli dai Romani sotto il console Furio Camillo, o pel duello che Marco Valerio tribuno militare sostenne con un capitano di quella nazione, da lui vinto col soccorso di un corvo, onde gli venne il soprannome di Corvino (Vedi Livio, Valerio Massimo ed Aulo Gellio Noct. Att. IX, 11). I Goti nell’anno 536 dopo G. C. diedero anch’essi fama a questi campi per l’elezione che vi fecero di Vitige loro re». Mg.
- ↑ 750. Ausona, poco lontana dal monte Circèo.
- ↑ 751. Aurunca, tra l’Ufente e il Circèo. Cfr., per testimonio della sua antichità. Virgilio En. VII, 727.
- ↑ 753. Dardano: figlio di Giove e di Elettra, fondatore di Troia. — Pelasgo: il capo de’ Pelasgi, che dicesi fossero i primi abitatori di Grecia.
- ↑ 768. se a tanto ecc.: Virgilio, En. II, 12: Quamquam animus meminisse horret, luctuque refugit.
- ↑ 776. Cui d’Anzio ecc.: In Anzio era un famoso tempio alla Fortuna. Cfr. Orazio Od. I, xxxv, 1. Un altro ve n’era a Venere Afrodisia.
- ↑ 782. e sudante ecc.: cfr. il v. 379 e la nota corr., p. 95.
- ↑ 799. né pianse ecc.: Dante Inf. xxxiii, 49: «Io non piangeva; sí dentro impietrai».
- ↑ 803. e son questi ecc.: Tasso II, 33: «Questo dunque è quel laccio ond’io sperai Teco accoppiarmi in compagnia di vita?»
- ↑ 810. e sovra lor si chiuse: Dante Inf. xxvi, 142: «Infin che ’l mar fu sopra noi richiuso».