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236 LA FERONIADE

     La vïoletta, il croco ed il giacinto,
     Ed abbondanti tenerelle erbette
     Che il talamo forniro; e le segrete
     Opre d’amore una profonda e sacra
     400Caligine coprío: ma di baleni1
     Arse il ciel consapevole, ed i lunghi
     Ululati iterâr su la suprema
     Vetta del monte le presaghe ninfe.
     Questi fur delle nozze inauspicate
     405I cantici, le faci, i testimoni;
     Questo alla nuova del Tonante sposa
     De’ suoi mali il principio, e nol conobbe
     L’infelice. Ma ben di Giove il vide
     L’eterno senno; né potendo il duro
     410Fato stornar2, nel suo segreto il chiuse,
     E, la doglia che solo il cor sapea
     Premendosi nel petto, a far piú mite
     Il funesto avvenir volse il pensiero.
     Primamente quel bosco e quella rupe
     415Sí gli piacque onorar dove la ninfa
     Dell’occulto amor suo gli fu cortese,
     Che per loro obbliò Dodona3 ed Ida
     E men care di Creta ebbe le selve:
     Tal che le genti la presenza alfine
     420Sentîr del nume, e l’inchinâr devote
     E Giove imberbe l’invocâr sull’are;
     Ch’egli loro cosí mise in pensiero
     Per la memoria del felice inganno.


398. Il talamo fornîr. Quetossi il mare, Quetarsi intorno i venti, e le segrete

400-7. Caligine coprío. L’etere solo Consapevol del fatto arse di lampi, E le ninfe indovine in su la cima Delle rupi ululâr. Queste le faci Fur, questi i canti delle nozze, e questo Alla novella del Tonante amica De’ suoi mali

409. né potendo il rio

418. ebbe lo speco:

420. e si prostrâr devote


    lieta ecc.: cfr. la nota al v. 181, p. 103

  1. 400. Ma di baleni ecc.: «Tutti segnali di tristo augurio; poiché (al dire di Servio, al lib. IV, V. 166 dell’En.) nulla vi avea, secondo la dottrina degli Etruschi, di piú infausto nelle nozze che il turbamento dell’aria e della terra. Dicasi altrettanto dell’ululare delle ninfe in vece delle giulive canzoni nuziali. Cosi nelle infelici nozze di Enea con Didone (Virg. En. loc. cit. ): .... Prima et Tellus et pronuba Iuno Dant signa: fulsere ignea et conscius aether Connubiis; summoque ulularunt vertice nymphae.
  2. 409. né potendo ecc.: «Il Fato era veramente la suprema divinità degli antichi, la legge immutabile a cui gli dei medesimi soggiacevano. Quindi Giove, il padre dogli dei e degli uomini, quegli che moveva ogni cosa col moto del suo sopracciglio, non poteva cambiare pur una sillaba di ciò che stava ne’ Fati: e lo confessa egli stesso in Ovidio (Metam. IX, 433): Me quoque fata regunt». Mg.
  3. 417. Dodona: città dell’Epiro, che aveva una celebre foresta, sede dell’oracolo