Canto Secondo

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Canto primo Canto terzo


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SOFRONIA


ARGOMENTO.

     Novo incanto fa Ismen, che vano uscito,
Vuole Aladin che muoja ogni Cristiano.
La pudíca Sofronia e Olindo ardito,
Perchè cessi il furor del Re Pagano,
Voglion morir. Clorinda, il caso udito,
Non lascia lor più de’ ministri in mano.
Argante, poi che quel ch’Alete dice
Non cura il Franco, a lui guerra aspra indice.



CANTO SECONDO.


Mentre il Tiranno s’apparecchia all’armi,
Soletto Ismeno un dì gli s’appresenta:
Ismen, che trar di sotto ai chiusi marmi
4Può corpo estinto, e far che spiri e senta:
Ismen, che al suon de’ mormoranti carmi
Fin nella reggia sua Pluto spaventa,
E i suoi Demon negli empj uficj impiega
8Pur come servi, e gli discioglie, e lega.

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II.


     Questi or Macone adora, e fu Cristiano,
Ma i primi riti anco lasciar non puote;
Anzi sovente in uso empio e profano
12Confonde le due leggi a sè mal note.
Ed or dalle spelonche, ove, lontano
Dal volgo, esercitar suol l’arti ignote,
Vien nel pubblico rischio al suo Signore;
16A Re malvagio consiglier peggiore.

III.


     Signor, dicea, senza tardar sen viene
Il vincitor esercito temuto;
Ma facciam noi ciò che a noi far conviene;
20Darà il Ciel, darà il mondo ai forti ajuto.
Ben tu di Re, di duce hai tutte piene
Le parti, e lunge hai visto e provveduto.
S’empie in tal guisa ogn’altro i propri uficj,
24Tomba fia questa terra a’ tuoi nemici.

IV.


     Io quanto a me ne vengo, e del periglio,
E dell’opre compagno ad aitarte.
Ciò che può dar di vecchia età consiglio,
28Tutto prometto, e ciò che magica arte.
Gli Angeli che dal Cielo ebbero esiglio
Costringerò delle fatiche a parte.
Ma dond’io voglia incominciar gl’incanti,
32E con quai modi, or narrerotti avanti.

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V.


     Nel tempio de’ Cristiani occulto giace
Un sotterraneo altare; e quivi è il volto
Di colei, che sua diva, e madre face,
36Quel volgo, del suo Dio nato e sepolto.
Dinanzi al simulacro accesa face
Continua splende: egli è in un velo avvolto;
Pendono intorno, in lungo ordine, i voti
40Che vi portaro i creduli devoti.

VI.


     Or questa effigie lor, di là rapita,
Voglio che tu di propria man trasporte,
E la riponga entro la tua Meschita:
44Io poscia incanto adoprerò sì forte,
Ch’ognor, mentre ella quì fia custodita,
Sarà fatal custodia a queste porte;
Tra mura inespugnabili il tuo impero
48Sicuro fia, per novo alto mistero.

VII.


     Sì disse, e ’l persuase: e impaziente
Il Re sen corse alla magion di Dio,
E sforzò i Sacerdoti, e irreverente
52Il casto simulacro indi rapío;
E portollo a quel tempio, ove sovente
S’irrita il Ciel col folle culto e rio.
Nel profan loco, e su la sacra imago
56Susurrò poi le sue bestemmie il Mago.

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VIII.


     Ma come apparse in ciel l’alba novella,
Quel, cui l’immondo tempio in guardia è dato,
Non rivide l’immagine, dov’ella
60Fu posta, e invan cerconne in altro lato.
Tosto n’avvisa il Re, ch’alla novella
Di lui si mostra fieramente irato:
Ed immagina ben ch’alcun fedele
64Abbia fatto quel furto, e che se ’l cele.

IX.


     O fu di man fedele opra furtiva,
O pur il Ciel quì sua potenza adopra:
Che di colei ch’è sua Regina e diva,
68Sdegna che loco vil l’immagin copra:
Ch’incerta fama è ancor, se ciò s’ascriva
Ad arte umana, od a mirabil’opra.
Ben è pietà, che la pietade e ’l zelo
72Uman cedendo, autor sen creda il Cielo.

X.


     Il Re ne fa con importuna inchiesta
Ricercar ogni chiesa, ogni magione:
Ed a chi gli nasconde, o manifesta
76Il furto o il reo, gran pene, e premj impone.
E’l Mago di spiarne anco non resta
Con tutte l’arti il ver; ma non s’appone:
Chè ’l Cielo (opra sua fosse, o fosse altrui)
80Celolla, ad onta degl’incanti, a lui.

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XI.


     Ma poichè ’l Re crudel vide occultarse
Quel che peccato de’ fedeli ei pensa;
Tutto in lor d’odio infellonissi, ed arse
84D’ira, e di rabbia immoderata immensa.
Ogni rispetto obblia; vuol vendicarse,
(Segua che puote) e sfogar l’alma accensa:
Morrà, dicea, non andrà l’ira a voto,
88Nella strage comune il ladro ignoto.

XII.


     Purchè ’l reo non si salvi, il giusto pera
E l’innocente. Ma qual giusto io dico?
È colpevol ciascun, nè in loro schiera
92Uom fu giammai del nostro nome amico.
S’anima v’è nel novo error sincera,
Basti a novella pena un fallo antico.
Su, su, fedeli miei, su via prendete
96Le fiamme, e ’l ferro, ardete, ed uccidete.

XIII.


     Così parla alle turbe, e se n’intese
La fama tra’ fedeli immantinente,
Ch’attoniti restar, sì gli sorprese
100Il timor della morte omai presente.
E non è chi la fuga o le difese,
Lo scusare o ’l pregare ardisca, o tente;
Ma le timide genti e irresolute,
104Donde meno speraro ebber salute.

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XIV.


     Vergine era fra lor di già matura
Verginità, d’alti pensieri e regj:
D’alta beltà, ma sua beltà non cura,
108O tanto sol quant’onestà sen fregi.
È il suo pregio maggior, che tra le mura
D’angusta casa asconde i suoi gran pregj:
E de’ vagheggiatori ella s’invola
112Alle lodi, agli sguardi, inculta e sola.

XV.


     Pur guardia esser non può che’n tutto celi
Beltà degna ch’appaja, e che s’ammiri:
Nè tu il consenti, Amor; ma la riveli
116D’un giovenetto ai cupidi desiri.
Amor, ch’or cieco, or Argo, ora ne veli
Di benda gli occhj, ora ce gli apri e giri;
Tu per mille custodie entro ai più casti
120Verginei alberghi il guardo altrui portasti.

XVI.


     Colei Sofronia, Olindo egli s’appella,
D’una cittade entrambi, e d’una fede.
Ei che modesto è sì, com’essa è bella,
124Brama assai, poco spera, e nulla chiede;
Nè sa scoprirsi, o non ardisce: ed ella
O lo sprezza, o nol vede, o non s’avvede.
Così finora il misero ha servito
128O non visto, o mal noto, o mal gradito.

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XVII.


     S’ode l’annunzio intanto, e che s’appresta
Miserabile strage al popol loro.
A lei che generosa è quanto onesta,
132Viene in pensier come salvar costoro.
Move fortezza il gran pensier; l’arresta
Poi la vergogna, e ’l virginal decoro.
Vince fortezza, anzi s’accorda, e face
136Sè vergognosa, e la vergogna audace.

XVIII.


     La vergine tra ’l volgo uscì soletta,
Non coprì sue bellezze, e non l’espose;
Raccolse gli occhj, andò nel vel ristretta,
140Con ischive maniere, e generose.
Non sai ben dir, s’adorna, o se negletta,
Se caso, od arte il bel volto compose;
Di Natura, d’Amor, de’ Cieli amici
144Le negligenze sue sono artificj.

XIX.


     Mirata da ciascun passa, e non mira
L’altera donna, e innanzi al Re sen viene;
Nè perchè irato il veggia, il piè ritira,
148Ma il fero aspetto intrepida sostiene.
Vengo, Signor (gli disse) e ’ntanto l’ira
Prego sospenda, e ’l tuo popolo affrene:
Vengo a scoprirti, e vengo a darti preso
152Quel reo che cerchi, onde sei tanto offeso.

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XX.


     All’onesta baldanza, all’improvviso
Folgorar di bellezze altere e sante,
Quasi confuso il Re, quasi conquiso,
156Frenò lo sdegno, e placò il fier sembiante.
S’egli era d’alma, o se costei di viso
Severa manco, ei diveniane amante;
Ma ritrosa beltà ritroso core
160Non prende: e sono i vezzi esca d’Amore.

XXI.


     Fu stupor, fu vaghezza, e fu diletto,
S’amor non fu, che mosse il cor villano.
Narra (ei le dice) il tutto: ecco io commetto,
164Che non s’offenda il popol tuo Cristiano.
Ed ella: il reo si trova al tuo cospetto:
Opra è il furto, Signor, di questa mano:
Io l’immagine tolsi: io son colei,
168Che tu ricerchi, e me punir tu dei.

XXII.


     Così al pubblico fato il capo altero
Offerse, e ’l volle in se sola raccorre.
Magnanima menzogna! or quando è il vero
172Sì bello, che si possa a te preporre?
Riman sospeso, e non sì tosto il fero
Tiranno all’ira, come suol, trascorre.
Poi la richiede: Io vuo’ che tu mi scopra
176Chi diè consiglio, e chi fu insieme all’opra.

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XXIII.


     Non volli far della mia gloria altrui
Nè pur minima parte, ella gli dice;
Sol di me stessa io consapevol fui,
180Sol consigliera, e sola esecutrice.
Dunque in te sola, ripigliò colui,
Caderà l’ira mia vendicatrice.
Disse ella: è giusto; esser a me conviene,
184Se fui sola all’onor, sola alle pene.

XXIV.


     Quì comincia il Tiranno a risdegnarsi;
Poi le dimanda: Ov’hai l’imago ascosa?
Non la nascosi, a lui risponde, io l’arsi;
188E l’arderla stimai laudabil cosa.
Così almen non potrà più violarsi
Per man de’ miscredenti ingiuriosa.
Signore, o chiedi il furto, o ’l ladro chiedi;
192Quel non vedrai in eterno, e questo il vedi.

XXV.


     Benchè nè furto è il mio, nè ladra io sono;
Giusto è ritor ciò ch’a gran torto è tolto.
Or questo udendo, in minaccevol suono
196Freme il Tiranno; e ’l fren dell’ira è sciolto.
Non speri più di ritrovar perdono
Cor pudíco, alta mente, o nobil volto:
E indarno Amor, contra lo sdegno crudo,
200Di sua vaga bellezza a lei fa scudo.

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XXVI.


     Presa è la bella donna, e incrudelito
Il Re la danna entro un incendio a morte.
Già ’l velo, e ’l casto manto è a lei rapito;
204Stringon le molli braccia aspre ritorte.
Ella si tace; e in lei non sbigottito,
Ma pur commosso alquanto è il petto forte;
E smarrisce il bel volto in un colore,
208Che non è pallidezza, ma candore.

XXVII.


     Divulgossi il gran caso, e quivi tratto
Già ’l popol s’era: Olindo anco v’accorse;
Dubbia era la persona, e certo il fatto,
212Venia, che fosse la sua donna in forse.
Come la bella prigionera in atto
Non pur di rea, ma di dannata ei scorse;
Come i ministri al duro uficio intenti
216Vide, precipitoso urtò le genti.

XXVIII.


     Al Re gridò: non è, non è già rea
Costei del furto, e per follia sen vanta.
Non pensò, non ardì, nè far potea
220Donna sola e inesperta opra cotanta.
Come ingannò i custodi? e della Dea
Con qual'arte involò l’immagin santa?
Se ’l fece, il narri. Io l’ho, Signor, furata.
224Ahi tanto amò la non amante amata!

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XXIX.


     Soggiunse poscia: io là, donde riceve
L’alta vostra Meschita e l’aura e ’l die;
Di notte ascesi, e trapassai per breve
228Foro, tentando inaccessibil vie.
A me l’onor, la morte a me si deve;
Non usurpi costei le pene mie.
Mie son quelle catene, e per me questa
232Fiamma s’accende, e ’l rogo a me s’appresta.

XXX.


     Alza Sofronia il viso, e umanamente
Con occhj di pietade in lui rimira.
A chè ne vieni, o misero innocente?
236Qual consiglio o furor, ti guida o tira?
Non son'io dunque senza te possente
A sostener ciò che d’un uom può l’ira?
Ho petto anch’io ch’ad una morte crede
240Di bastar solo, e compagnia non chiede.

XXXI.


     Parla così all’amante, e nol dispone
Sì ch’egli si disdica, e pensier mute.
O spettacolo grande, ove a tenzone
244Sono amore e magnanima virtute!
Ove la morte al vincitor si pone
In premio; e ’l mal del vinto è la salute!
Ma più s’irrita il Re, quant’ella, ed esso
248È più costante in incolpar se stesso.

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XXXII.


     Pargli che vilipeso egli ne resti;
E che’n disprezzo suo sprezzin le pene.
Credasi, dice, ad ambo, e quella e questi
252Vinca, e la palma sia qual si conviene.
Indi accenna ai sergenti, i quai son presti
A legar il garzon di lor catene.
Sono ambo stretti al palo stesso, e volto
256È il tergo al tergo, e ’l volto ascoso al volto.

XXXIII.


     Composto è lor d’intorno il rogo omai,
E già le fiamme il mantice v’incíta:
Quando il fanciullo in dolorosi lai
260Proruppe, e disse a lei ch’è seco unita:
Questo dunque è quel laccio, ond’io sperai
Teco accoppiarmi in compagnia di vita?
Questo è quel foco, ch’io credea che i cori
264Ne dovesse infiammar d’eguali ardori?

XXXIV.


     Altre fiamme, altri nodi Amor promise:
Altri ce n’apparecchia iniqua sorte.
Troppo, ahi ben troppo, ella già noi divise!
268Ma duramente or ne congiunge in morte.
Piacemi almen, poichè in sì strane guise
Morir pur dei, del rogo esser consorte,
Se del letto non fui: duolmi il tuo fato,
272Il mio non già, poich’io ti moro a lato.

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XXXV.


     Ed oh mia sorte avventurosa appieno!
O fortunati miei dolci martirj!
S’impetrerò che giunto seno a seno,
276L’anima mia nella tua bocca io spiri;
E venendo tu meco a un tempo meno,
In me fuor mandi gli ultimi sospiri.
Così dice piangendo; ella ripiglia
280Soavemente, e in tai detti il consiglia:

XXXVI.


     Amico, altri pensieri, altri lamenti
Per più alta cagione il tempo chiede.
Chè non pensi a tue colpe? e non rammenti
284Qual Dio prometta ai buoni ampia mercede?
Soffri in suo nome, e fian dolci i tormenti,
E lieto aspira alla superna sede.
Mira il Ciel com’è bello, e mira il Sole,
288Ch’a sè par che n’inviti, e ne console.

XXXVII.


     Quì il volgo de’ Pagani il pianto estolle:
Piange il fedel, ma in voci assai più basse.
Un non so chè d’inusitato e molle
292Par che nel duro petto al Re trapasse.
Ei presentillo, e si sdegnò; nè volle
Piegarsi, e gli occhj torse, e si ritrasse.
Tu sola il duol comun non accompagni,
296Sofronia, e pianta da ciascun non piagni.

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XXXVIII.


     Mentre sono in tal rischio, ecco un guerriero
(Chè tal parea) d’alta sembianza, e degna:
E mostra d’arme, e d’abito straniero,
300Che di lontan, peregrinando, vegna.
La tigre che sull’elmo ha per cimiero,
Tutti gli occhj a se trae; famosa insegna,
Insegna usata da Clorinda in guerra,
304Onde la credon lei, nè ’l creder erra.


Mentre sono in tal rischio, ecco un guerriero
(Chè tal parea) d’alta sembianza e degna;



XXXIX.


     Costei gl’ingegni femminili, e gli usi
Tutti sprezzò sin dall’età più acerba:
Ai lavori d’Aracne, all’ago, ai fusi
308Inchinar non degnò la man superba:
Fuggì gli abiti molli, e i lochi chiusi;
Chè ne’ campi onestate anco si serba:
Armò d’orgoglio il volto, e si compiacque
312Rigido farlo, e pur rigido piacque.

XL.


     Tenera ancor, con pargoletta destra
Strinse, e lentò d’un corridore il morso:
Trattò l’asta e la spada, ed in palestra
316Indurò i membri, ed allenogli al corso:
Poscia o per via montana, o per silvestra,
L’orme seguì di fier leone e d’orso:
Seguì le guerre, e in esse e fra le selve,
320Fera agli uomini parve, uomo alle belve.

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XLI.


     Viene or costei dalle contrade Perse,
Perchè ai Cristiani a suo poter resista;
Bench’altre volte ha di lor membra asperse
324Le piaggie, e l’onda di lor sangue ha mista.
Or quivi in arrivando a lei s’offerse
L’apparato di morte a prima vista.
Di mirar vaga, e di saper qual fallo
328Condanna i rei, sospinge oltre il cavallo.

XLII.


     Cedon le turbe, e i duo legati insieme
Ella si ferma a riguardar dappresso
Mira che l’una tace, e l’altro geme,
332E più vigor mostra il men forte sesso.
Pianger lui vede in guisa d’uom, cui preme
Pietà, non doglia, o duol non di se stesso:
E tacer lei con gli occhj ai ciel sì fisa,
336Ch’anzi ’l morir par di quaggiù divisa.

XLIII.


     Clorinda intenerissi, e si condolse
D’ambeduo loro, e lacrimonne alquanto.
Pur maggior sente il duol per chi non duolse,
340Più la move il silenzio, e meno il pianto.
Senza troppo indugiare ella si volse
Ad un uom che canuto avea daccanto.
Deh dimmi, chi son questi? ed al martoro
344Qual gli conduce o sorte, o colpa loro?

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XLIV.


     Così pregollo: e da colui risposto
Breve, ma pieno alle dimande fue.
Stupissi udendo, e immaginò ben tosto
348Ch’egualmente innocenti eran que’ due.
Già di vietar lor morte ha in se proposto,
Quanto potranno i preghi o l’armi sue.
Pronta accorre alla fiamma, e fa ritrarla,
352Che già s’appressa: ed ai ministri parla.

XLV.


     Alcun non sia di voi, che ’n questo duro
Uficio oltra seguire abbia baldanza,
Finch’io non parli al Re: ben v’assicuro,
356Ch’ei non v’accuserà della tardanza.
Ubbidiro i sergenti, e mossi furo
Da quella grande sua regal sembianza.
Poi verso il Re si mosse, e lui tra via
360Ella trovò, che ’ncontra lei venia.

XLVI.


     Io son Clorinda, disse; hai forse intesa
Talor nomarmi, e quì, Signor, ne vegno,
Per ritrovarmi teco alla difesa
364Della fede comune, e del tuo regno.
Son pronta (imponi pure) ad ogni impresa:
L’alte non temo, e l’umili non sdegno.
Voglimi in campo aperto, o pur tra ’l chiuso
368Delle mura impiegar, nulla ricuso.

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XLVII.


     Tacque, e rispose il Re: qual sì disgiunta
Terra è dall’Asia, o dal cammin del Sole,
Vergine gloriosa, ove non giunta
372Sia la tua fama, e l’onor tuo non vole?
Or che s’è la tua spada a me congiunta,
D’ogni timor m’affidi, e mi console.
Non, s’esercito grande unito insieme
376Fosse in mio scampo, avrei più certa speme.

XLVIII.


     Già già mi par ch’a giunger quì Goffredo
Oltra il dover indugi. Or tu dimandi
Ch’impieghi io te: sol di te degne credo
380L’imprese malagevoli, e le grandi.
Sovra i nostri guerrieri a te concedo
Lo scettro, e legge sia quel che comandi.
Così parlava: ella rendea cortese
384Grazie per lodi: indi il parlar riprese.

XLIX.


     Nova cosa parer dovrà per certo
Che preceda ai servigj il guiderdone;
Ma tua bontà m’affida: io vuo’ che’n merto
388Del futuro servir que’ rei mi done.
In don gli chieggio, e pur se ’l fallo è incerto,
Gli danna inclementissima ragione.
Ma taccio questo, e taccio i segni espressi,
392Ond’argomento l’innocenza in essi.

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L.


     E dirò sol, ch’è quì comun sentenza
Che i Cristiani togliessero l’imago;
Ma discord'io da voi; nè però senza
396Alta ragion del mio parer m’appago.
Fu delle nostre leggi irriverenza
Quell’opra far che persuase il Mago;
Chè non convien ne’ nostri tempj a nui
400Gl’idoli avere, e men gl’idoli altrui.

LI.


     Dunque suso a Macon recar mi giova
Il miracol dell’opra, ed ei lo fece
Per dimostrar che i tempj suoi con nova
404Religion contaminar non lece.
Faccia Ismeno, incantando, ogni sua prova,
Egli, a cui le malíe son d’arme in vece:
Trattiamo il ferro pur noi cavalieri;
408Quest’arte è nostra, e ’n questa sol si speri.

LII.


     Tacque, ciò detto: e ’l Re, bench’a pietade
L’irato cor difficilmente pieghi,
Pur compiacer la volle: e ’l persuade
412Ragione, e ’l move autorità di preghi.
Abbian vita, rispose, e libertade,
E nulla a tanto intercessor si neghi.
Siasi questa o giustizia, ovver perdono,
416Innocenti gli assolvo, e rei gli dono.

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LIII.


     Così furon disciolti. Avventuroso
Ben veramente fu d’Olindo il fato;
Ch’atto potè mostrar, che ’n generoso
420Petto alfine ha d’amore amor destato.
Va dal rogo alle nozze, ed è già sposo
Fatto di reo, non pur d’amante amato.
Volle con lei morire: ella non schiva,
424Poichè seco non muor, che seco viva.

LIV.


     Ma il sospettoso Re stimò periglio
Tanta virtù congiunta aver vicina;
Onde, com’egli volle, ambo in esiglio
428Oltra i termini andar di Palestina.
Ei pur seguendo il suo crudel consiglio,
Bandisce altri fedeli, altri confina.
Oh come lascian mesti i pargoletti
432Figlj, e gli antichi padri, e i dolci letti!

LV.


     Dura division! scaccia sol quelli
Di forte corpo, e di svegliato ingegno;
Ma il mansueto sesso, e gli anni imbelli
436Seco ritien, siccome ostaggj, in pegno.
Molti n’andaro errando; altri rubelli
Fersi, e più che ’l timor, potè lo sdegno.
Questi unirsi co’ Franchi, e gl’incontraro
440Appunto il dì che in Emaus entraro.

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LVI.


     Emaus è Città, cui breve strada
Dalla regal Gerusalem disgiunge:
Ed uom che lento a suo diporto vada,
444Se parte matutino, a nona giunge.
O quanto intender questo ai Franchi aggrada:
Oh quanto più ’l desio gli affretta e punge!
Ma perch’oltre il meriggio il sol già scende,
448Quì fa spiegare il Capitan le tende.

LVII.


     L’avean già tese: e poco era remota
L’alma luce del Sol dall’Oceano;
Quando due gran Baroni in veste ignota
452Venir son visti, e ’n portamento estrano.
Ogni atto lor pacifico dinota
Che vengon come amici al Capitano.
Del gran Re dell’Egitto eran messaggj,
456E molti intorno avean scudieri e paggj.

LVIII.


     Alete è l’un, che da principio indegno
Tra le brutture della plebe è sorto;
Ma l’innalzaro ai primi onor del regno
460Parlar facondo e lusinghiero e scorto,
Pieghevoli costumi, e vario ingegno,
Al finger pronto, all’ingannare accorto:
Gran fabbro di calunnie, adorne in modi
464Novi, che son accuse, e pajon lodi.

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LIX.


     L’altro è il Circasso Argante, uom che straniero
Sen venne alla regal corte d’Egitto;
Ma de’ satrapi fatto è dell’impero,
468E in sommi gradi alla milizia ascritto:
Impaziente, inesorabil, fero,
Nell’arme infaticabile ed invitto;
D’ogni Dio sprezzator, e che ripone
472Nella spada sua legge, e sua ragione.

LX.


     Chieser questi udienza, ed al cospetto
Del famoso Goffredo ammessi entraro:
E in umil seggio, e in un vestire schietto
476Fra’ suoi Duci sedendo il ritrovaro;
Ma verace valor, benchè negletto,
È di se stesso a se fregio assai chiaro.
Picciol segno d’onor gli fece Argante,
480In guisa pur d’uom grande, e non curante.

LXI.


     Ma la destra si pose Alete al seno,
E chinò il capo, e piegò a terra i lumi;
E l’onorò con ogni modo appieno,
484Che di sua gente portino i costumi.
Cominciò poscia; e di sua bocca uscieno
Più che mel dolci d’eloquenza i fiumi;
E perchè i Franchi han già il sermone appreso
488Della Soria, fu ciò ch’ei disse inteso.

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LXII.


     O degno sol, cui d’ubbidire or degni
Questa adunanza di famosi eroi,
Che per l’addietro ancor le palme e i regni
492Da te conobbe, e dai consiglj tuoi.
Il nome tuo, che non riman tra i segni
D’Alcide, omai risuona anco fra noi:
E la fama d’Egitto in ogni parte
496Del tuo valor chiare novelle ha sparte.

LXIII.


     Nè v’è fra tanti alcun che non le ascolte,
Come egli suol le maraviglie estreme;
Ma dal mio Re con istupore accolte
500Sono non sol, ma con diletto insieme:
E s’appaga in narrarle anco più volte,
Amando in te ciò ch’altri invidia e teme.
Ama il valore, e volontario elegge
504Teco unirsi d’amor, se non di legge.

LXIV.


     Da sì bella cagion dunque sospinto,
L’amicizia e la pace a te richiede;
E l’ mezzo, onde l’un resti all’altro avvinto,
508Sia la virtù, s’esser non può la fede.
Ma perchè inteso avea che t’eri accinto
Per iscacciar l’amico suo di sede;
Volle, pria ch’altro male indi seguisse,
512Ch’a te la mente sua per noi s’aprisse.

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LXV.


     E la sua mente è tal: che s’appagarti
Vorrai di quanto hai fatto in guerra tuo,
Nè Giudea molestar, nè l’altre parti
516Che ricopre il favor del regno suo;
Ei promette all’incontro assicurarti
Il non ben fermo stato: e se voi duo
Sarete uniti, or quando i Turchi e i Persi
520Potranno unqua sperar di riaversi?

LXVI.


     Signor, gran cose in picciol tempo hai fatte,
Che lunga età porre in obblio non puote;
Eserciti, città, vinti, e disfatte,
524Superati disagj, e strade ignote;
Sicch’al grido, o smarrite o stupefatte
Son le provincie intorno, e le remote;
E se ben acquistar puoi novi imperj,
528Acquistar nova gloria indarno speri.

LXVII.


     Giunta è tua gloria al sommo, e per l’innanzi
Fuggir le dubbie guerre a te conviene;
Ch’ove tu vinca, sol di stato avanzi,
532Nè tua gloria maggior quinci diviene:
Ma l’imperio acquistato e preso dianzi,
E l’onor perdi, se ’l contrario avviene.
Ben gioco è di fortuna audace e stolto,
536Por contra il poco e incerto, il certo e ’l molto.

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LXVIII.


     Ma il consiglio di tal, cui forse pesa
Ch’altri gli acquisti a lungo andar conserve,
E l’aver sempre vinto in ogni impresa,
540E quella voglia natural che ferve,
E sempre è più ne’ cor più grandi accesa,
D’aver le genti tributarie e serve;
Faran, per avventura, a te la pace
544Fuggir, più che la guerra altri non face.

LXIX.


     T’esorteranno a seguitar la strada
Che t’è dal fato largamente aperta:
A non depor questa famosa spada,
548Al cui valore ogni vittoria è certa,
Finchè la legge di Macon non cada:
Finchè l’Asia per te non sia deserta.
Dolci cose ad udire, e dolci inganni,
552Ond’escon poi sovente estremi danni.

LXX.


     Ma s’animosità gli occhj non benda,
Nè il lume oscura in te della ragione,
Scorgerai ch’ove tu la guerra prenda,
556Hai di temer, non di sperar cagione;
Chè fortuna quaggiù varia a vicenda,
Mandandoci venture or triste, or buone:
Ed ai voli troppo alti e repentini
560Sogliono i precipizj esser vicini.

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LXXI.


     Dimmi, s’a danni tuoi l’Egitto move,
D’oro e d’arme potente, e di consiglio:
E s’avvien che la guerra anco rinove
564Il Perso e ’l Turco, e di Cassano il figlio;
Quai forzi opporre a sì gran furia, o dove
Ritrovar potrai scampo al tuo periglio?
Ti affida forse il Re malvagio Greco,
568Il qual dai sacri patti unito è teco?

LXXII.


     La fede Greca a chi non è palese?
Tu da un sol tradimento ogn’altro impara:
Anzi da mille; perchè mille ha tese
572Insidie a voi la gente infida, avara.
Dunque chi dianzi il passo a voi contese,
Per voi la vita esporre or si prepara?
Chi le vie, che comuni a tutti sono,
576Negò, del proprio sangue or farà dono?

LXXIII.


     Ma forse hai tu riposta ogni tua speme
In queste squadre, ond’ora cinto siedi.
Quei che sparsi vincesti, uniti insieme
580Di vincer anco agevolmente credi:
Sebben son le tue schiere or molto sceme,
Tra le guerre e i disagj, e tu tel vedi:
Sebben novo nemico a te s’accresce,
584E co’ Persi e co’ Turchi Egizj mesce.

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LXXIV.


     Or, quando pur estimi esser fatale,
Che vincer non ti possa il ferro mai;
Siati concesso: e siati a punto tale
588Il decreto del Ciel, qual tu tel fai.
Vinceratti la fame: a questo male
Che rifugio, per Dio, che schermo avrai?
Vibra contra costei la lancia, e stringi
592La spada, e la vittoria anco ti fingi.

LXXV.


     Ogni campo d’intorno arso e distrutto
Ha la provida man degli abitanti;
E in chiuse mura, e in alte torri il frutto
596Riposto, al tuo venir più giorni avanti.
Tu ch’ardito sin quì ti sei condutto,
Onde speri nutrir cavalli e fanti?
Dirai: l’armata in mar cura ne prende.
600Da’ venti dunque il viver tuo dipende?

LXXVI.


     Comanda forse tua fortuna ai venti,
E gli avvince a sua voglia, e gli dislega?
Il mar ch’ai preghi è sordo, ed ai lamenti,
604Te sol udendo, al tuo voler si piega?
O non potranno pur le nostre genti,
E le Perse e le Turche, unite in lega,
Così potente armata in un raccorre,
608Ch’a questi legni tuoi si possa opporre?

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LXXVII.


     Doppia vittoria a te, Signor, bisogna,
S’hai dell’impresa a riportar l’onore.
Una perdita sola, alta vergogna
612Può cagionarti, e danno anco maggiore;
Ch’ove la nostra armata in rotta pogna
La tua; quì poi di fame il campo more:
E se tu sei perdente, indarno poi
616Saran vittoriosi i legni tuoi.

LXXVIII.


     Ora se in tale stato anco rifiuti
Col gran Re dell’Egitto e pace e tregua
(Diasi licenza al ver) l’altre virtuti,
620Questo consiglio tuo non bene adegua.
Ma voglia il Ciel che ’l tuo pensier si muti,
S’a guerra è volto, e che ’l contrario segua;
Sicchè l’Asia respiri omai dai lutti,
624E goda tu della vittoria i frutti.

LXXIX.


     Nè voi, che del periglio e degli affanni,
E della gloria a lui sete consorti,
Il favor di fortuna or tanto inganni,
628Che nove guerre a provocar v’esorti.
Ma, qual nocchier che dai marini inganni
Ridutti ha i legni ai desiati porti,
Raccor dovreste omai le sparse vele,
632Nè fidarvi di nuovo al mar crudele.

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LXXX.


     Quì tacque Alete; e ’l suo parlar seguiro
Con basso mormorar que’ forti eroi:
E ben, negli atti disdegnosi, apriro
636Quanto ciascun quella proposta annoi.
Il capitan rivolse gli occhj in giro
Tre volte e quattro, e mirò in fronte i suoi;
E poi nel volto di colui gli affisse
640Ch’attendea la risposta, e così disse:

LXXXI.


     Messaggier, dolcemente a noi sponesti
Ora cortese, or minaccioso invito.
Se ’l tuo Re m’ama, e loda i nostri gesti,
644È sua mercede, e m’è l’amor gradito.
A quella parte poi, dove protesti
La guerra a noi del Paganesmo unito;
Risponderò, come da me si suole,
648Liberi sensi in semplici parole.

LXXXII.


     Sappi che tanto abbiam sin or sofferto
In mare, in terra, all’aria chiara e scura,
Solo acciocchè ne fosse il calle aperto
652A quelle sacre e venerabil mura;
Per acquistar appo Dio grazia e merto,
Togliendo lor di servitù sì dura:
Nè mai grave ne fia, per fin sì degno,
656Esporre onor mondano, e vita e regno.

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LXXXIII.


     Chè non ambiziosi avari affetti
Ne spronaro all’impresa, e ne fur guida:
Sgombri il Padre del Ciel dai nostri petti
660Peste sì rea, s’in alcun pur s’annida;
Nè soffra che l’asperga, o che l’infetti
Di venen dolce, che piacendo ancida;
Ma la sua man, che i duri cor penétra
664Soavemente, e gli ammolisce e spetra;

LXXXIV.


     Questa ha noi mossi, e questa ha noi condutti,
Tratti d’ogni periglio e d’ogni impaccio:
Questa fa piani i monti, e i fiumi asciutti,
668L’ardor toglie alla state, al verno il ghiaccio:
Placa del mare i tempestosi flutti:
Stringe e rallenta questa a’ venti il laccio:
Quindi son l’alte mura aperte ed arse,
672Quindi l’armate schiere uccise e sparse.

LXXXV.


     Quindi l’ardir, quindi la speme nasce,
Non dalle frali nostre forze, e stanche,
Non dall’armata, e non da quante pasce
676Genti la Grecia, e non dall’armi Franche.
Pur ch’ella mai non ci abbandoni e lasce,
Poco dobbiam curar ch’altri ci manche.
Chi sa come difende, e come fere,
680Soccorso ai suoi periglj altro non chere.

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LXXXVI.


     Ma quando di sua aita ella ne privi
Per gli error nostri, o per giudícj occulti;
Chi fia di noi ch’esser sepolto schivi
684Ove i membri di Dio fur già sepulti?
Noi morirem, nè invidia avremo ai vivi:
Noi morirem, ma non morremo inulti;
Nè l’Asia riderà di nostra sorte:
688Nè pianta fia da noi la nostra morte.

LXXXVII.


     Non creder già che noi fuggiam la pace,
Come guerra mortal si fugge e pave;
Chè l’amicizia del tuo Re ne piace,
692Nè l’unirci con lui ne sarà grave.
Ma s’al suo impero la Giudea soggiace,
Tu ’l sai, perchè tal cura ei dunque n’ave?
De’ regni altrui l’acquisto ei non ci vieti,
696E regga in pace i suoi tranquilli e lieti.

LXXXVIII.


     Così rispose, e di pungente rabbia
La risposta ad Argante il cor trafisse:
Nè ’l celò già, ma con enfiate labbia
700Si trasse avanti al Capitano, e disse:
Chi la pace non vuol, la guerra s’abbia;
Chè penuria giammai non fu di risse:
E ben la pace ricusar tu mostri,
704Se non t’acqueti ai primi detti nostri.

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LXXXIX.


     Indi il suo manto per lo lembo prese,
Curvollo, e fenne un seno, e ’l seno sporto,
Così pur anco a ragionar riprese,
708Via più che prima dispettoso e torto:
O sprezzator delle più dubbie imprese,
E guerra, e pace in questo sen t’apporto:
Tua sia l’elezione; or ti consiglia
712Senz’altro indugio, e qual più vuoi, ti piglia.

XC.


     L’atto fiero, e ’l parlar tutti commosse
A chiamar guerra in un concorde grido;
Non attendendo che risposto fosse
716Dal magnanimo lor Duce Goffrido.
Spiegò quel crudo il seno, e ’l manto scosse,
Ed a guerra mortal, disse, vi sfido.
E ’l disse in atto sì feroce ed empio,
720Che parve aprir di Giano il chiuso tempio.

XCI.


     Parve ch’aprendo il seno, indi traesse
Il furor pazzo, e la discordia fera;
E che ne gli occhj orribili gli ardesse
724La gran face d’Aletto e di Megera.
Quel grande già, che incontra il cielo eresse
L’alta mole d’error, forse tal era;
E in cotal atto il rimirò Babelle
728Alzar la fronte, e minacciar le stelle.

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XCII.


     Soggiunse allor Goffredo: Or riportate
Al vostro Re che venga e che s’affretti;
Chè la guerra accettiam che minacciate:
732E s’ei non vien, fra ’l Nilo suo n’aspetti.
Accommiatò lor poscia in dolci e grate
Maniere, e gli onorò di doni eletti:
Ricchissimo ad Alete un elmo diede,
736Ch’a Nicea conquistò fra l’altre prede.

XCIII.


     Ebbe Argante una spada, e ’l fabro egregio
L’else e ’l pomo le fè gemmato, e d’oro,
Con magisterio tal che perde il pregio
740Della ricca materia appo il lavoro.
Poi che la tempra, e la ricchezza e ’l fregio,
Sottilmente da lui mirati foro,
Disse Argante al Buglion: vedrai ben tosto
744Come da me il tuo dono in uso è posto.

XCIV.


     Indi tolto congedo, e da lui ditto
Al suo compagno, or ce n’andremo omai,
Io ver Gerusalem, tu verso Egitto,
748Tu col sol nuovo, io co’ notturni rai,
Ch’uopo di mia presenza, o di mio scritto
Essere non può colà dove tu vai;
Reca tu la risposta, io dilungarmi
752Quinci non vuò, dove si trattan l’armi.

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XCV.


     Così di messaggier fatto è nemico;
Sia fretta intempestiva o sia matura,
La ragion delle genti, e l’uso antico
756S’offenda o no, ne ’l pensa egli, ne ’l cura:
Senza risposta aver va per l’amico
Silenzio delle stelle all’alte mura,
D’indugio impaziente; ed a chi resta
760Già non men la dimora anco è molesta.

XCVI.


     Era la notte allor ch’alto riposo
Han l’onde e i venti, e parea muto il mondo,
Gli animai lassi, e quei che ’l mare ondoso,
764O de’ liquidi laghi alberga il fondo,
E chi si giace in tana, o in mandra ascoso,
E i pinti augelli nell’oblio giocondo
Sotto il silenzio de’ secreti orrori
768Sopían gli affanni, e raddolciano i cori.

XCVII.


     Ma ne ’l campo fedel, ne ’l Franco Duca
Si discioglie dal sonno, o almen s’accheta;
Tanta in lor cupidigia è che riluca
772Omai del ciel l’alba aspettata e lieta,
Perchè il cammin lor mostri, e gli conduca
Alla città che al gran passaggio è meta,
Mirando ad or ad or se raggio alcuno
776Spunti, o rischiari della notte il bruno.

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