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220 LA FERONIADE

LA FERONIADE


CANTO PRIMO


Contenuto: Il poeta vuol cantare di Feronia, e a ciò invoca la Musa, che derivi al canto di lui un po’ della dolcezza omerica (1-32): e prende a narrare come presso Terracina vivesse una bellissima ninfa di nome Feronia, tutta intenta alla coltivazione di fiori e piante d’ogni maniera, e, fra le altre, dell’umile salice piangente, che oggi deve coprire della sua ombra cortese il sepolcro di Giulio Perticari (33-284), e del cedro, cui anche Circe amò (285-372). Cosi viveva Feronia, disprezzando quanti la richiesero d’amore: ma non Giove, che, vistala, prese forma d’imberbe fanciullo e potè farla sua (373-403). In compenso di ciò e delle sventure che la dovevano colpire, la fece immortale: e fu adorata come dea da’ popoli ove abitava (404-461), le campagne de’ quali, col favore di lei, prosperarono, ed anche le città, che divennero rigogliose, ricche e felici (462-510). Spesso Giove scendeva a lei: ma Giunone, accortasi dell’infedeltà dello sposo, presa da gelosia, venne dal cielo alla ninfa e con minacce ed onte la cacciò dal luogo (511-608). Poi corse alle fonti dell’Ufente, dell’Astura, del Ninfeo e d’altri fiumi della regione, pregandoli di vendicarla: ed essi irruppero, aiutati da un fragoroso nembo, a mutare in palude il bel regno di Feronia e a distruggerne gli altari (609-764). Molti degli abitanti fuggirono: molti perirono, fra’ quali gli amanti Timbro e Larina (765-810). — Questo poema, al quale mancano pochi versi di chiusa che al poeta non riusci mai di fare (Cfr. Resn. Ep., p. 436 e Cantù, p. 295), e ch’«ebbe (come si legge nell’avvertimento preposto alla prima edizione milanese) la sua origine dall’essersi il M., in occasione delle cacce che il principe Luigi Braschi-Onesti dava nei contorni di Terracina, avvenuto nella fonte di Feronia, rammentata da Orazio, ed avervi, come quell’antico poeta e la sua compagnia, lavato ora manusque. (Sat. I, v, 24)»; questo poema, dico, fu cominciato certo prima del 1784 (cfr. la nota al v. 186, c. II) e proseguito di lunghe cure fino al 1828, anno in cui il M. mori. Fu pubblicato intero la prima volta nel v. II delle «Opere inedite e rare»: Milano, Lampato, 1832: ma già sin dal 1830 si aveva una stampa del primo canto fatta da Gio. Rosini (Pisa, Nistri), dalla quale cavò il Carducci le varianti, che io reco da lui. — Una delle opere principali del ponteficato di Pio VI (cfr. la nota al v. 40, p. 4) fu il prosciugamento delle paludi pontine, che occupavano 180 miglia quadrate nei circondari di Roma e di Velletri), già tentato prima da molti altri, consoli imperatori e papi (cfr. le ultime note al c. III). Capo degl’ingegneri idraulici e direttore dei lavori fu il bolognese Gaetano Rappini. «E se, bene osserva il Vicchi (VI, p. 247), la sperata prosperità non s’ottenne del tutto, se la malaria non fu debellata,.... non si vuole, per questo, addossarne la colpa al Braschi, od al Rappini. Il papa e l’idraulico non furono inferiori all’intrapresa per coraggio, per scienza e per previdenza.... Potendo Pio VI spendere nell’agro pontino le ricchezze portate in Francia da Bonaparte e non arrestandosi i lavori agricoli per le vicende politiche e pel successivo dissesto dei governi diu-