Dizionario mitologico ad uso di giovanetti/Mitologia/A
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Traduzione dal francese di Francesco Rossi (1816)
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- Abari
- Abbondanza
- Absirto
- Acasto
- Acheloo
- Acheronte
- Achille
- Acqua lustrale
- Acrisio
- Admeto
- Adone
- Acheloo
- Adrasto
- Agamennone
- Aglauro
- Ajace (figlio di Oileo)
- Ajace (figlio di Telamone)
- Alceste
- Alcinoo
- Alcmena
- Alettrione
- Alfeo
- Amadriadi
- Amaltea
- Amazoni
- Ambrosia
- Amfione
- Amfitrione
- Amfitrite
- Amore
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- Apollo
- Apoteosi
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- Aracne
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- Archemoro
- Aretusa
- Argira
- Argo (vascello)
- Argo (fratello di Osiride)
- Argonauti
- Arianna
- Arione
- Aristeo
- Arpie
- Arpocrate
- Aruspici
- Ascanio
- Ascalafo
- Astianatte
- Atalanta
- Ati
- Atlante
- Atreo
- Atropo
- Atteone
- Augia
- Augurio
- Aurora
- Auspicio
- Averno
A
Abbondanza, divinità allegorica, rappresentata sotto la figura di una giovine molto grassa, di color vivace, coronata di una ghirlanda di varj fiori, tenendo nella man dritta un corno pieno di fiori e di frutta, e nell’altra un fastello di spighe: questo è il corno della capra Amaltea, che allattò Giove. V. la Fig. N. 1.
Abila, montagna di Affrica poco distante da Calpe, ch’è un altra montagna in Spagna presso lo stretto di Gibilterra. Ercole separò queste due montagne, che prima erano unite, per far comunicare il Mediterraneo coll’Oceano. Credendo egli che questo luogo fosse il termine del Mondo, vi fece innalzare due colonne, chiamate poscia le colonne di Ercole, colla iscrizione Niente al di là; affinchè fosse noto alla posterità di aver egli portate fin là le sue conquiste.
Absirto, fratello di Medea. Nell’atto che questa incantatrice fuggiva insieme con Giasone, Absirto la inseguiva. La barbara Medea l’uccise, lo fece in pezzi, e ne sparse le membra qua e là per la strada, affine per trattenere i compagni di Absirto, che lo inseguivano. Agitata quindi da crudeli rimorsi per la morte di suo fratello, si recò insieme con Giasone nella isola di Aea, ove regnava Circe sua zia; e senza farsi conoscere, la pregò di assolverli da un omicidio involontario per mezzo della espiazione, secondo il costume. Circe acconsentì, e gli ammise alla espiazione; ma dipoi avendo scoverto i loro nomi e il loro delitto, li discacciò dalla sua corte. Vedi Giasone. Nota 2.
Acasto, figlio di Pelia re di Tessaglia, fu uno degli Argonauti. Era un famoso cacciatore, abile sopratutto a tirar l’arco. Creteide ovvero Ippolita, sua moglie, divenuta amante di Peleo, e non vedendosi corrisposta, ne fu così irritata che l’accusò a suo marito di aver attentato al suo onore. Acasto, dissimulando il suo risentimento, condusse Peleo a caccia sul monte Pelio, ed ivi lo abbandonò in preda ai Centauri ed alle bestie selvagge. Chirone lo difese centro quei mostri, e Peleo coll’ajuto degli Argonauti, andò a vendicarsi della crudeltà di Acasto, e della calunnia di Creteide. Egli è il primo, che abbia fatto celebrare i giuochi funebri in occasione della morte di suo padre.
Acheloo, figlio dell’Oceano e di Teti, secondo altri, del Sole e della Terra. Innamoratosi costui di Dejanira, e sapendo ch’era destinata a sposare un gran conquistatore, combattè contro Ercole, da cui fu vinto. Preso tosto la figura di un orribile serpente, sotto la quale fu benanco abbattuto; indi quella di un toro, nella quale non ebbe miglior fortuna. Ercole, avendolo afferrato per le corna, lo stramazzò, gliene strappò uno, e lo costrinse di andare a nascondersi nel fiume Toade, che dipoi venne appellato Acheloo. Il vinto diede al vincitore il corno di Amaltea per ricuperare il suo. Secondo altri, lo stesso corno di Acheloo è quello, di cui le Najadi formarono il corno dell’abbondanza, detto cornu-copia. Nota 3.
Acheronte, figlio del Sole e della Terra fu trasformato in fiume, e precipitato nell’Inferno per aver somministrato l’acqua ai Titani, allorchè questi dichiararono la guerra a Giove: le sue acque divennero limacciose ed amare. Era uno de’ fiumi fatali, che le ombre varcavano senza poter mai più ritornare indietro. Viene rappresentato sotto la figura di un vecchio coverto di una umida veste, appoggiato sopra una urna nera, dond’escono acque piene di schiuma. Vedesi alle volte presso di lui un barbagianni: niun altro attributo potea convenir meglio a siffatto Dio quanto questo lugubre uccello, il cui solo aspetto facea fremer gli auguri, e temere le più grandi disgrazie. Nota 4. = Fig. 2.
Achille. L’antichità conta almeno sei eroi di questo nome; ma il più famoso era figlio di Teti e di Peleo, re della Ftiotide in Tessaglia. Teti sua madre, che lo amava teneramente, prese da se stessa la cura della di lui prima educazione: lo immerse nel fiume Stige per renderlo invulnerabile, siccome lo fu per tutto il corpo, fuorchè nel calcagno, per lo quale ella lo teneva in atto di tuffarvilo. Lo affidò indi alla disciplina del Centauro Chirone, che lo nutriva delle midolla di lioni, di orsi, di tigri e di altre bestie selvagge.
Credesi che sua madre nella sua prima infanzia, avendogli proposto di scegliere fra una vita lunga ed oscura, ed una vita certa, ma gloriosa, preferì egli quest’ultima. Teti intanto, avvertita dagli oracoli, che senza suo figlio non cadrebbe mai Troja, e che egli vi perirebbe sotto le mura, lo inviò sotto abito di donzella, e sotto nome di Pirra nella corte di Licomede re di Sciro. Sotto questo travestimento insinuossi nella confidenza di Deidamia figlia di Licomede, la sposò segretamente, e n’ebbe un figliuolo che chiamò Pirro. Alloraquando i Principi Greci si radunarono per andare all’assedio di Troja, Calcante loro predisse, che non potrebbe esser presa senza l’ajuto di Achille, e manifestò loro il luogo del suo ritiro. Ulisse, travestito da mercadante, vi si recò, e presentò de’ giojelli e delle armi a quelle donzelle. Achille si scoprì da se stesso, avendo preferito le armi ai giojelli; e quindi Ulisse lo condusse all’assedio di Troja. Achille divenne bentosto il primo eroe della Grecia, ed il terror de’ nimici. Essendo stato di parere di doversi restituir Criseide a suo padre sacerdote di Apollo, per così far cessare la peste, che desolava il campo de’ Greci, Agamennone sdegnato gli rapì una di lui schiava nominata Ippodamia, e sopranominata Briseide. Tale insulto lo irritò a segno che ritirossi nella sua tenda, risoluto di non più combattere. La sua ritirata assicurò la vittoria ai Trojani; ma essendo stato ucciso Patroclo, suo amico, da Ettore, ripigliò le armi, ritornò a combattere, e vendicò la morte dell’amico con quella di Ettore, che per ben tre volte strascinò legato dietro il suo carro intorno alle mura di Troja ed alla tomba di Patroclo, ed indi lo restituì alle lagrime dell’infelice Priamo.
Dopo la morte di Ettore i principi Greci furono invitati da Agamennone ad un gran banchetto; durante il quale consultarono i mezzi, onde impadronirsi di Troja. Achille si dichiarò per la forza aperta; Ulisse per lo stratagemma, ed il suo parere prevalse. Agamennone osservò con piacere la disputa tra questi due principi, perchè era il compimento di un’oracolo di Delfo, il quale aveva predetto che Troja sarebbe presa, alloraquando due principi, superiori a tutti gli altri in prudenza ed in valore, verrebbero tra loro a contesa in un gran convito.
L’amore cagionò la morte di Achille. Innamorato della bella Polissena, figlia di Priamo, la chiese in isposa, e quando era egli sul punto di sposarla, nell’atto che Deifobo l’abbracciava, Paride gli scoccò una freccia sul calcagno vulnerabile, e l’uccise. Dicesi che Apollo abbia diretto il colpo della freccia. Teti, intesa la morte di suo figlio, uscì dal vasto seno delle acque in compagnia di una moltitudine di ninfe, per andare a piangere sopra il suo corpo. I Greci gl’innalzarono una tomba sulle spiagge dell’Ellesponto nel promontorio Sigeo. Dopo la presa di Troja, Pirro immolò Polissena sul sepolcro di Achille suo padre.
Molto tempo dopo Alessandro, giunto nel luogo, ov’era la tomba di Achille, la onorò di una corona, dicendo ch’egli invidiava la sorte di quell’Eroe, per aver avuto, mentre visse, un amico come Patroclo, e dopo la sua morte, un poeta come Omero.
La favola, che suppone Achille invulnerabile, non era ricevuta al tempo di Omero. Questo poeta, per non detrarre punto al merito del di lui valore, suppone che poteva esser ferito, e soggiacere a tutt’i pericoli del combattimento. Nota 5.
Acqua lustrale, acqua comune nella quale estinguevasi un tizzone acceso, tolto dal focolare preparato per qualche sagrifizio. Quest’acqua era conservata in un vaso, che ponevasi nella porta o nel vestibolo de’ templi. I Gentili le attribuivano delle grandi virtù.
Acrisio, re di Argo. Avendo consultato l’Oracolo, gli fu risposto, che un giorno sarebbe ucciso da uno de’ suoi nipoti. Per prevenire tal disgrazia, Acrisio rinchiuse Danae, sua unica figlia, dentro una torre di bronzo; ma Giove, trasformatosi in pioggia di oro, entrò nella torre, e la rese madre di Perseo. Acrisio, avendo saputo la gravidanza di sua figlia, fece esporla sul mare dentro una barchetta. Polidetto, re di Serifo, una delle Cicladi, ove la barchetta approdò, accolse gentilmente Danae, e fece allevar Perseo, che, divenuto grande, cercò occasione di segnalarsi. Passando egli un giorno per Larissa, volle far pruova di sua destrezza nel giuoco della piastrella, che aveva egli medesimo inventato. Disgraziatamente il disco cadde sulla testa di Acrisio che morì all’istante. Così avverossi la predizione, che suo nipote gli avrebbe tolto un giorno la corona e la vita, senza che i rigori praticati contro sua figlia potessero impedirne l’effetto.
Admeto, re di Fere in Tessaglia, fu uno degli Argonauti, ed uno de’ principi greci, che concorsero alla caccia del famoso cinghiale di Calidone. Apollo, discacciato dal Cielo, si ricoverò presso di lui, s’impiegò al suo servigio, e custodì le sue greggi; egli divenne dipoi la divinità tutelare della di lui casa. Admeto, avendo voluto sposare Alceste, figlia di Pelia, non potè ottenerla che a patto di dare a Pelia un carro tirato da un leone e da un cinghiale. Apollo, in contrassegno di sua gratitudine, gl’insegnò l’arte di ridurre sotto un medesimo giogo due animali così feroci. Questo Dio ottenne altresì dalle Parche, che alloraquando Admeto fosse vicino all’ultimo momento di sua vita, potesse evitare la morte, purchè si trovasse alcuno si generoso da esibirsi in sua vece. Admeto essendo attaccato da una malattia mortale, e non offrendosi alcuno per lui, la sola Alceste ciò fece con tutta generosità. Admeto se ne addolorò tanto, che Proserpina, commossa dalle sue lagrime, volea rendergli sua moglie: Plutone si oppose; ma Ercole, discese nell’Inferno, e ne trasse via Alceste.
Adone, giovanetto bellissimo, nato dall’incesto di Cinira, re di Cipro, con Mirra sua figlia. Costei essendo costretta d’involarsi allo sdegno di Cinira, ritirossi in Arabia, ove gli Dei la trasformarono nell’albero che produce la mirra. Giunto il momento del parto, l’albero si aprì, e diede alla luce un bambino. Le ninfe di quella contrada lo accolsero e lo nutrirono nelle grotte di Arabia. Pervenuto alla età giovanile, recossi in Biblos nella Fenicia. Venere che ivi lo vide, se ne invaghì; tanto egli era bello. Preferendo la conquista di Adone a quella degli stessi Dei, abbandonò il soggiorno di Citera, di Amatunta e di Pafo, per seguirlo nelle foreste del monte Libano, ov’egli era solito di andare alla caccia. Marte ingelosito per la preferenza data da Venere al giovane principe, adoperò, per vendicarsi, il soccorso di Diana, che suscitò contro lui uno smisurato cinghiale, e lo aizzò nell’atto ch’egli stava lanciando il suo giavellotto. Il furibondo animale, essendosi scagliato sopra l’infelice giovanetto, lo ridusse in brani. Venere accorse, ma troppo tardi in soccorso del suo favorito. Ella cangiò il suo corpo in anemone.
Adone, disceso nell’Inferno, inspirò ancor ivi de’ teneri sentimenti. Fu amato da Proserpina, ed allora quando Venere ottenne da Giove il di lui ritorno alla vita, la sposa di Plutone ricusò restituirlo. Giove, non volendo disgustare alcuna delle due Dee, le rimise al giudizio della musa Calliope, la quale accordò la differenza, ordinando che Adone starebbe alternativamente con una e con l’altra Dea. Furono subito spedite le Ore per ricondurre Adone a Venere. Questa mancò ben presto alla convezione; ciò che fu cagione di una gran contesa tra le due Dee. Il gran padre degli Dei finalmente ordinò che Adone fosse libero per quattro mesi dell’anno, quattro altri ne passasse insieme con Venere, e il rimanente con Proserpina.
Molti autori hanno considerato Adone come il Sole, e gliene han dati tutti gli attributi. Durante l’està egli è con Venere, cioè a dire colla Terra, che abitiamo; ma nel resto dell’anno egli è lontano da noi. È ucciso da un cinghiale, cioè dall’inverno, allorchè i suoi raggi non hanno più la forza di scacciare il freddo, nimico di Adone e di Venere, cioè della bellezza e della fecondità. Nota 6.
Adrasto, re di Argo, fu obbligato di salvarsi presso Polibo, suo avo paterno, per sottrarsi alle persecuzioni di un usurpatore, che si era impadronito de’ suoi stati. Avendo consultato l’oracolo di Apollo sul destino delle due sue figlie, gli fu risposto ch’esse si mariterebbero, una ad un cinghiale, e l’altra ad un leone. Qualche tempo dopo, Polinice e Tideo capitarono alla corte di Adrasto, l’uno coverto delle pelle di un leone, gloriandosi di portare le insegne di Ercole; l’altro travestito della pelle di un cinghiale, in memoria di quello, che fu ucciso da Meleagro. Adrasto credette allora di aver ritrovato in essi il compimento dell’oracolo, e diede loro in ispose le sue figlie Argia e Deifile.
Polinice, essendo stato privato del trono di Tebe in Beozia, da suo fratello Eteocle, Adrasto suo suocero imprese a rimettervelo colla forza. Questa guerra fu chiamata l’Impresa de’ sette prodi, perchè i capi erano sette principi valorosi, cioè Polinice, Tideo, Anfiarao, Capanco, Partenopeo, Ippomedonte ed Adrasto. Anfiarao avendo predetto che quest’ultimo sarebbe il solo che avrebbe riveduta la sua patria, tutti gli altri incaricarono anticipatamente Adrasto di recare de’ doni alle loro famiglie, secondo il costume di quei tempi, come sicuri di non più rivederle. In effetto essi tutti perirono sotto le mura di Tebe. Adrasto ispirò ai loro figli i sentimenti di vendetta, ond’era egli acceso, e formò una nuova armata comandata da sette giovani principi, appellati Epigoni, cioè ch’erano sopravissuti ai loro padri. Questi riportarono la vittoria sopra i Tebani; ma costò la morte di Egialeo, figlio di Adrasto. Quest’infelice padre, dopo aver condotto la vittoriosa armata a Megara, ne morì di dolore. Fu onorato come un eroe; gli furono innalzati un tempio e degli altari a Sicione, ove celebrasi in ciascun anno una festa solenne in onor suo. Durante il suo regno, Sicione divenne famosa pei giuochi Pitici da lui istituiti.
Agamennone, re di Argo e di Micene, figlio di Plistene, nipote di Pelope e fratello di Menelao. Plistene, essendo vicino al termine di sua vita, raccomandò Agamennone e Menelao a suo fratello Atreo, il quale gli allevò come suoi propri figli; di qui è che questi due principi furono chiamati Atridi. Tieste fratello di Atro, essendosi impadronito del Regno di Argo, obbligò Agamennone suo nipote a ritirarsi a Sparta, ove regnava Tindaro. Costui aveva maritato sua figlia Clitemnestra a Tantalo, figlio di Tieste; e perchè malcontento di questa parentela, offrì ad Agamennone il suo ajuto contro Tieste per ricuperare il suo regno, e toglier la sua figlia a Tantalo, perchè lo stesso Agamennone la sposasse. Questo principe accettò la offerta, e col soccorso di Tindaro, espulse Tieste da Argo, uccise Tantalo e sposò Clitemnestra, dalla quale ebbe Ifigenia ed Elettra, ed un figlio nominato Oreste.
Agamennone fu eletto generalissimo dell’armata de’ Greci contro i Trojani. Ritenuto in Aulide da venti contrarj, che non gli permettevano di mettere alla vela per trasferirsi alla spiaggia di Troja, sagrificò, secondo l’oracolo di Calcante, la propria figlia Ifigenia a Diana, per ottenere i venti favorevoli. Ebbe una gran contesa con Achille per cagion di una schiava nominata Briseida, che gli avea tolta.
Dopo la presa di Troja, s’innamorò perdutamente di Cassandra figlia di Priamo, sua prigioniera, e la condusse in Argo. Ella gli predisse che sarebbe perito, se facesse ritorno alla sua patria; ma la sorte delle predizioni di Cassandra era di non essere creduta. Agamennone ne sperimentò la verità a suo danno. Ritornato ne’ suoi stati, fu ucciso da Egisto figlio di Tieste, amante di Clitemnestra, durante la sua assenza.
Aglauro, figlia di Cecrope, re di Atene, e sorella di Erse e di Pandrosa, promise a Mercurio di favorire la di lui passione per sua sorella Erse, mediante una somma di denaro. Pallade sdegnata per tale accordo, impose alla Invidia, che la rendesse gelosa di sua sorella. In effetto Aglauro da quel momento si oppose ostinatamente alle voglie di Erse e di Mercurio. Pallade diede poi a queste tre sorelle un paniere, ov’era rinchiuso Erittonio, con divieto di aprirlo. Aglauro ed Erse, non avendo potuto contenere la loro curiosità, aprirono il paniere, ove trovarono un mostro; agitate quindi dalle furie si precipitarono dalla più scoscesa altura della cittadella di Atene. Nota 7.
Ajace, figlio di Oileo, armò quaranta vascelli per l’assedio di Troja. Non vi fu chi maneggiasse la lancia meglio di lui, a segno che gli si attribuivano tre mani, per meglio esprimere la sua agilità e la sua destrezza. Aveva egli dimesticato un serpente della lunghezza di quindici piedi, che lo seguiva dappertutto, e mangiava alla di lui mensa. Dopo la presa di Troja usò violenza a Cassandra, ch’erasi ricoverata nel tempio di Minerva, come in un sicuro asilo. Siffatta empietà commosse gli uomini e gli Dei. Ulisse fu di parere che si lapidasse; ma Ajace promise giustificarsi sul giuramento: confessò di avere strappato Cassandra dalla statua, alla quale tenevasi abbracciata, ma niegò di averle usata violenza, ed accusò Agamennone di aver inventato tal calunnia per tener custodita presso di se Cassandra, sua prigioniera. Minerva, volendo punire la profanazione del suo tempio, fece suscitare, per opera di Nettuno, una furiosa tempesta, che fece sommergere tutta la flotta di Ajace ne’ scogli di Cafarea. Egli potè appena salvarsi dal naufragio, arrampicandosi su di uno scoglio; ma avendo arrogantemente profferite queste parole (sarò salvo ad onta degli Dei), irritato Nettuno dalla sua temeraria empietà, percosse col suo tridente lo scoglio, che, spaccatosi, trasse precipitando l’insolente Ajace ne’ profondi abissi del mare. - Egli erasi segnalato col suo coraggio, ed aveva reso de’ grandi servigj ai Greci, durante l’assedio di Troja.
Ajace, figlio di Telamone e di Esione, fu, dopo Achille, il più valoroso de’ Greci; ma egualmente fiero, brutale, impetuoso ed invulnerabile, fuorché in una parte del petto, ch’egli solo sapeva. Ercole, essendo andato a visitar Telamone, che lagnavasi di non aver figli pregò Giove, acciò si compiacesse di dare al suo amico un figlio, la cui pelle fosse invulnerabile come quella del lione della selva Nemea, ch’egli portava indosso. Terminata appena la preghiera, vide egli un’aquila, che apprese come un presagio felice, e quindi assicurò Telamone che gli nascerebbe un figlio, raccomandandogli di nominarlo Ajace, ossia aquilotto. Nato appena il bambino, Ercole lo coprì della sua pelle di lione, e lo rese invulnerabile, fuorché nel luogo ov’era forata per la ferita, ch’egli aveva fatta al lione. Questo Ajace era empio egualmente che l’altro. Allorquando suo padre lo esortava di attendere la vittoria dagli Dei, egli rispondeva, esser proprio delle anime vili sperar la vittoria da tal soccorso; e ch’era ben sicuro di vincere senza la protezione degli Dei. Volendo un giorno Minerva dargli alcuni avvertimenti, egli la ributtò con disprezzo, dicendole, che non si fosse occupata della sua condotta, della quale avrebbele dato buon conto, e di riserbare i suoi favori per chiunque altro greco. Un altra volta rifiutò la offerta, ch’ella gli fece, di guidare il suo carro: cancellò dal suo scudo il barbagianni, uccello favorito da questa Dea, affinchè questa immagine non fosse creduta un effetto del suo rispetto per Minerva, e conseguentemente per una pruova di diffidenza del suo proprio coraggio.
Si segnalò nell’assedio di Troja, ove comandava i Megaresi e gli abitanti di Salamina. Combattè un giorno intero contro Ettore, ma infine, palesando l’uno all’altro la loro scambievole ammirazione, cessarono di combattere, e si fecero dei donativi, funesti dipoi per ambidue. Il balteo ch’Ettore ricevè da Ajace, servì per (esserne legato da Achille al carro, e quindi strascinato intorno le mura di Troja. Egli disputò ardentemente ad Ulisse le armi dell’estinto Achille. L’assemblea de’ capitani, avendo giudicato a favore di Ulisse, Ajace cadde in tal furore che, durante la notte, fece una strage orribile di tutte le mandre dell’armata, immaginandosi di uccidere Ulisse e i capitani. Cessato il delirio, e vergognandosi di esser additato come il ludibrio dell’armata, rivolse contro se stesso la spada, che aveva ricevuta da Ettore in dono, e si uccise. Fu trasformato in un fiore, e le due prime lettere del suo nome AJ veggonsi d’allora in poi segnate nel fiore Giacinto. Queste due lettere formano il suono naturale, con cui espresse il suo dolore nell’atto di sentirsi ferito, siccome si suppone che il giovane Giacinto espresse il suo, allorquando ricevette il colpo del disco lanciato da Apollo.
Alceste, figlia di Pelia e di Anassabia. Richiesta in matrimonio da un gran numero di amanti, suo padre dichiaro, che la darebbe a chi potesse attaccare al suo carro due bestie feroci di differenti specie. Admeto, re di Tessaglia, per ottenerla, ricorse ad Apollo. Questo Dio, grato all’accoglienza ricevuta da Admeto, gli diede un lione ed un cinghiale dimesticati, per tirare il carro della principessa. Alceste, accusata di aver avuto parte all’omicidio di Pelia suo padre, fu perseguitata da Acasto suo fratello, il quale fece la guerra ad Admeto, lo fece prigionero, ed era già sul momento di vendicare sopra di lui il delitto di Alceste e delle di lei sorelle, allorquando ella si offrì volontariamente al vincitore per salvare il suo sposo. Acasto stava già conducendo Alceste per immolarla all’ombra di suo padre; ma Ercole, a preghiera di Admeto, perseguitò Acasto, lo raggiunse al di la del fiume Acheronte, e gli tolse Alceste, chè restituì a suo marito. Di qui è la favola rappresentante Alceste che va a morire per suo marito; ad Ercole che discende nell’Inferno, combatte ivi la morte, e la lega con catene di diamante, finchè acconsente a restituire Alceste alla vita.
Alcinoo, re de’ Feaci nell’isola di Corcira, oggidì Corfù. Il suo nome è famoso per la bellezza de’ suoi giardini celebrati da Omero. Gli alberi di questi giardini (dice il poeta) non sono giammai senza frutti: un soave zeffiro ne conserva il vigore e la vegetazione, e mentre i primi frutti maturano, ne nascono de’ novelli che vanno a maturare. La vigna si vede carica di uva in tutte le stagioni. Omero che fa passare Ulisse per tutte le specie di pericoli, per dare un maggior risalto alla sua virtù, lo fa venire alla brillante e voluttuosa corte di Alcinoo, e gli fa ivi godere per qualche tempo le delizie di quei luoghi dilettosi, donde poi lo fa partire ricolmo di donativi.
Alcmena, figlia di Elettrione re di Micene e di Licidice. Sposò Amfitrione re di Tebe a condizione che costui vendicarebbe la morte di suo fratello ucciso da Teleboi. Mentre Amfitrione trovavasi occupato in questa guerra, Giove invaghitosi di questa principessa, prese le sembianze di Amfitrione, ingannò Alcmena, e la rese madre di Ercole. Essendo Alcmena travagliata dai dolori del parto, Giunone cercò disastrarla; perchè ella sapeva che Giove aveva promesso de’ grandi destini ad Ercole. Le riuscì farla sgravar prima di Euristeo, indi di Ercole, acciocchè quegli, come primogenito, avesse dell’autorità sopra l’altro. Galantide, fantesca di Alcmena, seppe scaltramente eludere gli artifizj di Giunone, allorquando stava per nascere Ercole. La Dea sdegnata dell’astuzia di Galantide, la trasformò in donnola. Dopo la morte di Amfitrione, Alcmena sposò Radamanto, che in seguito fu fatto giudice dell’Inferno. Nota 8.
Alettrione, giovanetto favorito da Marte, e confidente de’ suoi amori con Venere. Questo Dio lo aveva incaricato di vegliare alla porta del palagio di questa Dea, per non esser sorpreso dal Sole, durante il dolce trattenimento. Alettrione una volta, essendosi lasciato vincer dal sonno, Marte venne colto in fallo con Venere dal Dio del giorno, che li dinunziò a Vulcano. Questi gl’inviluppò in una rete, ed in tal guisa li diede in ispettacolo a tutti gli Dei. Marte sdegnato contro il negligente Alettrione, lo trasformò in gallo, che tuttavia, conserva la cresta del suo caschetto. Di qui è che quest’uccello rimembrando l’antica sua negligenza, non manca mai di annunziare col suo canto, in ciascun giorno, il ritorno del Sole sull’orizzonte.
Alfeo, cacciatore di professione, amò Aretusa, seguace di Diana. Egl’inseguì questa ninfa, ed era già, sul punto di raggiungerla, allorquando Diana cangiò lui in fiume, ed Aretusa in fonte; ma non potendo egli obbliare la sua tenera passione per lei, corse a frammischiare le sue acque con quelle di Aretusa. In effetto Plinio e molti scrittori antichi dicono che l’Alfeo, fiume di Arcadia, scorrendo per di sotto il mare, venisse a risorgere in una spiaggia di Sicilia; ma ciò è una pretta favola. L’Alfeo s’imbocca nel mare, come gli altri fiumi. Presso Aretusa è un fonte, le cui acque penetrano le onde salse, senza contrarre dell’amarezza; quindi forse deriva la opinione, che Alfeo corresse per le acque del mare. (V. Aretusa.) Amadriadi, ninfe de’ boschi, il cui destino dipendeva da certi alberi, coi quali nascevano e morivano; ciò che le distingueva dalle Driadi. Attaccavansi sopratutto alle querce. Potevano però talvolta distaccarsi dai loro alberi; poichè, secondo Omero, elleno scappavano talvolta per andare a sagrificare a Venere nelle grotte in unione de’ Satiri; e Seneca riferisce che abbandonavano i loro alberi per andare a sentire il canto di Orfeo. Riconoscenti per coloro, che li garentivano dalla morte, punivano severamente quelli, le cui mani sagrileghe osavano di atentare contro gli alberi dai quali dipendevano. Quindi le Amadriadi non erano immortali, ma la durata della loro vita prolungavasi, secondo i Mitologi, sino a nove o dieci mila anni; durata, che senza dubbio eccede quella di tutti gli alberi.
Amaltea, figlia di Melisso re di Creta, prese cura della infanzia di Giove, ch’ella nutrì di latte e di miele in un antro del monte Dictèo. Altri dicono che Amaltea è il nome della capra, che allattò Giove, e che in riconoscenza di questo buon uffizio, egli la collocò nel Cielo, insieme con li due suoi capretti, formando una costellazione, e diede uno delle di lui corna alle ninfe, che avevano avuto cura della di lui infanzia, assicurandole che, mercè lo stesso, avrebbero in abbondanza quanto desidererebbero. Questo è quello che i poeti han chiamato il corno dell’abbondanza. Nota 9.
Amazoni, donne guerriere della Cappodocia sulle sponde del fiume Termodonte. Non soffrivano affatto uomini nella loro società; ma per conservarla, recavansi in ciascun anno sui confini del loro territorio, per aver delle unioni momentanee coi loro vicini: bisognava ancora, che ciascuna di esse precedentemente avesse ucciso tre nimici. Le figlie femmine, che nascevano da siffatti concubiti, erano l’oggetto principale della loro cura: i maschi erano uccisi. Verso la età di otto anni bruciavano, o sopprimevano la mammella dritta delle loro figlie, per renderle più abili a tirar l’arco. Vestivansi delle pelli di bestie, che uccidevano alla caccia. Le loro armi consistevano in frecce, archi, giavellotti ed una scure. Dopo aver fatte delle grandi conquiste, sottomessa la Crimea, la Circassia, resa tributaria la Iberia, la Colchide e l’Albania, e conservata la loro potenza per lo spazio di molti secoli, furono quasi distrutte da Ercole, il quale fece prigioniera la loro regina e la diede a Teseo in premio del suo valore.
I moderni han creduto ritrovare molte nazioni in tutto simili, e tra le altre una nell’America meridionale stabilita sulle sponde del gran fiume, che porta il loro nome, e la di cui storia è simile a quella delle antiche Amazoni. Nota 10.
Ambrosia. Secondo la più comune opinione l’ambrosia è riguardata come il cibo degl’Immortali, siccome il nettare è la loro bevanda. Oltre l’ambrosia solida vi era la sua quintessenza, l’acqua, la pomata e la pasta di ambrosia. Qualunque ella fosse, dilettava i sensi, arrecava, o conservava la giovanezza, assicurava la felicità della vita morale, e conferiva la immortalità.
Amfione, figlio di Giove e di Antiope, regina di Tebe. Fu abile nella musica, e Mercurio, di cui fu discepolo, gli diede una lira, al cui suono fabbricò le mura di Tebe. Le pietre, sensibili alla dolcezza de’ suoi concenti, correvano da loro medesime a collocarsi l’una sull’altra: emblema ingegnoso del potere della musica, della eloquenza e della poesia sull’animo de’ primi uomini, che abitavano i boschi. Nota 11
Amfitrione, figlio di Alceo e nipote di Perseo. Avendo ucciso inavvedutamente Elettrione, suo zio, re di Micene, si allontanò dalla sua patria, e ritirossi a Tebe, ove sposò Alcmena, sua cugina. Portò la guerra ai Teleboi; e durante questa spedizione, Giove, trasformato sotto le sembianze di Amfitrione, ingannò Alcmena, e la rese madre di Ercole. (V. Alcmena).
Amfitrite, figlia di Nereo e di Doride, Dea del mare e moglie di Nettuno. Ella ricusò dapprima il consorzio di questo Dio; e per sottrarsi alle di costui persecuzioni, si nascose. Un delfino, incaricato da Nettuno, avendola ritrovata a piè del monte Atlante, la persuase a condiscendere alle voglie del Dio, ed in ricompensa fu collocata tra gli astri. Condusse egli Amftrite sopra un carro, in forma di conchiglia, tirato da cavalli marini. Le Nereidi e i Tritoni formarono il suo corteggio; le prime tengono le redini del carro, gli altri, suonando le loro conche marine ricurvate a guisa di trombette, annunziano il suo arrivo. Fig. 3.
Amore, figlio di Marte e di Venere, presedeva al piacere. Egli era il più bello degl’Immortali. Viene rappresentato sotto la figura di un fanciullo nudo, di aspetto maligno, armato di un arco e di un turcasso, pieno di frecce ardenti, simbolo del suo potere sopra i cuori; talvolta con una fiaccola accesa in mano; coronato di rose, emblema de’ piaceri deliziosi ch’egli procura a’ suoi seguaci; cieco talora, o con una benda su gli occhi, per dinotare che l’amore non vede i difetti dell’oggetto amato. Dipinto sempre con le ale, per indicare quanto sono fugaci i piaceri e la passione ch’egli inspira; queste ale sono di colore azzurro, di porpora e di oro. Rappresentasi altresì con un dito in sulla bocca, per significare che l’amore richiede circonspezione. Amore non è sempre un fanciullo, che scherza tralle braccia di sua madre: si osserva alle volte colla freschezza della gioventù: tale viene rappresentato l’amante di Psiche.
Una delle più ingegnose allegorie degli antichi è quella che rappresenta alcuni Amorini che volgono una pietra d’affilare. Un di essi, dopo aversi trafitte le braccia, saetta il suo sangue sulla pietra, mentre Cupido affila i dardi, il cui ferro scintilla. Questo è il soggetto di un bel quadro, che vedesi a Chantilly.
Il riso, gli scherzi, i piaceri di ogni specie accompagnano quasi sempre Amore sotto la forma di un fanciullo alato. Fig. 4
Anassarete, nobile donzella di Salamina, discendente della reale stirpe di Teucro, bella per quanto altiera. Ifi, giovanetto di bassa condizione, perdutamente di lei s’invaghì. Dopo averle invano palesato il suo amore, e tentato ogni mezzo onde ammollirla, vedendosi da lei disprezzato per disperazione si appiccò alla di lei porta. Anassaret, lungi di esserne addolorata, ebbe anzi la barbara curiosità di guardare ad occhi asciutti il cadavere dello sgraziato amante nell’atto della funebre pompa. Venere sdegnata di tanta durezza di cuore, la cangiò in pietra.
Anceo, figlio di Nettuno, re di Arcadia; fu uno degli Argonauti. Nel suo ritorno dalla Colchide, si applicò a far fiorire nel suo paese l’agricoltura; ma perchè un giorno maltrattò e pressò con molta insistenza i suoi vignajuoli, mentre piantavasi la vigna, uno di essi gli predisse che non avrebbe bevuto affatto del vino di quella vigna. Anceo beffossi di tal predizione. Maturato dipoi il frutto, fece portarne nel torchio per berne alla presenza del vignaiuolo; ma nell’atto ch’egli stava avvicinando alle sue labbra una coppa piena di quel novello vino, gli si diè l’avviso, che un cinghiale era entrato nella sua vigna e la devastava. Subito egli depose la coppa per accorrere al cinghiale, da cui con un colpo di grugno fu ammazzato. Questa avventura diede luogo a quel proverbio greco, tradotto in latino: multum interest inter os et offam: vi è gran distanza tra la bocca ed il pezzo di pane.
Anchise, principe Trojano della famiglia di Priamo, era figlio di Capys e di una ninfa, Piacque cotanto a Venere che, per palesargli la sua passione, gli apparve sotto la figura di una ninfa vezzosa, e lo pressò di presentarla a suoi congiunti per accelerare la cerimonia delle nozze, che furono effettuate segretamente. Dopo che questa ninfa lo abbandonò, essendosi egli accorto ch’ella non era una mortale, temè che la sua unione con lei non fosse cagione di abbreviargli i suoi giorni. Venere lo assicurò, anzi gli annunciò, che ii d**j rebbe un figlio, il quale sarebbe allevato dalle ninfe sino alla età di cinque anni, compiuti i quali lo rimetterebbe tra le di lui mani. Anchise non potè serbar segreta la notizia di questa sua felicita. Giove, per punirlo della sua imprudenza, lo percosse leggermente con un fulmine. Giunto ad una estrema vecchiezza, gli riuscì salvarsi dall’incendio è saccheggiamento di Troja, mercè la pietà di suo figlio Enea, che me lo trasse, portandolo sulle spalle fin sopra il naviglio, tenendo con una mano suo padre, ed il suo figliuolo Ascanio con l’altra. Condusse seco i suoi Dei-Penati con ciò che avea di più prezioso, e mori quindi nella Sicilia, ov’Enea gli eresse un magnifico sepolcro. Nota 12 fig. 5
Androgeo, figlio di Minosse, re di Creta. Recatosi in Atene per assistere ai giuochi Panatenei, combattè con tanta destrezza e buon successo, che ne riportò tutto il premio. I giovani di Atene e di Megara, gelosi de’ suoi successi, ed inquieti per l’alleanza coi Pallantidi, l’uccisero. Minosse, per vendicare quest’omicidio, assediò Atene, e Megara, le prese, ed impose ai vinti le più dure condizioni. Obbligò gli Ateniesi a mandargli in ogni anno sette giovani ed altrettante donzelle, per esser divorate dal Minotauro. (vedi Minotauro).
Andromaca, figlia di Echidne, re di Tebe moglie di Ettore e, madre di Astianatte. La Mitologia non offre una principessa più interessante di questa. Il solo nome di Andromaca basta a richiamare la idea di unà principessa bella, virtuosa, amante tenera di suo marito, gelosa della sua gloria. E' ben noto il suo amore, e le sue continue inquietudini per suo figlio Astianatte. Dopo la presa di Troja, ella toccò in sorte a Pirro, che la condusse seco in Epiro. Dopo la morte di Pirro sposò Eleno, figlio di Priamo, e germano del suo primo marito; ma non dimenticò mai Ettore, di cui non cessava di parlare che con trasporto di tenerezza, ed alla di cui memoria fece innalzare una superba tomba in Epiro; ciocché cagionò molta gelosia e dispiacere a coloro che l’amarono successivamente. Nota 13
Andromeda, figlia di Cefeo, re di Etiopia e di Cassiope. Costei essendosi vantata di superare in bellezza Giunone, o come altri dicono, le Nereidi, Nettuno, per punire la sua temerità, suscitò una balena di mostruosa grandezza, che desolava il paese. Cefeo, avendo consultato l’oracolo di Giove-Ammne, sulla cagione di sì gran male, e su i mezzi di placare il Dio, fu risposto, che bisognava esporre Andromeda al mostro.
Cefeo legò Andromeda con catene di ferro, e la espose su di uno scoglio presso la citta di Joppe. Il mostro uscì per divorarla. Perseo, che a caso trovossi passando, trasformò in sasso la parte del mostro ch’era uscita fuori delle acque, con avergli mostrata la testa di Medusa, ed ammazzò l’altra; indi sposò Andromeda, che seco condusse in Serifo.
Anteo, gigante, figlio di Nettuno e della Terra. La favola gli da sessanta quattro cubiti di altezza. Esercitava le sue scorrerìe nella Libia, arrestava tutt’i passaggieri, forzavali a lottar contro lui, ed infine soffocavali col peso della sua smisurata mole; giacché aveva fatto voto a Nettuno d’innalzargli un tempio, che fosse formato da crani di uomini. Provocò Ercole, il quale ben tre volte lo stramazzò; ma la terra, sua madre, gli restituiva sempreppiù le forze, e diveniva anzi più robusto, e più furioso di prima. Ercole, essendosene avveduto, afferrò di nuovo il gigante, e tenendolo per lungo tempo sospeso in aria, lo strinse con tanta forza che lo fece morir soffocato. Nota 14.
Antigone, figlia di Edipo e di Giocasta, modello della pietà filiale. Servì di guida a suo padre divenuto cieco e bandito dal re Creonte, e gli fu compagna nel di lui esilio. Dopo la morte di Ercole e di Polinice, fratelli di questa principessa, Creonte, essendosi impadronito di Tebe, vietò espressamente di darsi sepoltura al corpo di Polinice, morto colle armi alla mano contro la sua patria. Questo divieto non isbigottì punto Antigone; ella ritornò a Tebe per rendere gli ultimi uffizj al corpo di suo fratello. Il tiranno, avendo inteso di essere stati trasgrediti i suoi ordini, fece vegliare la notte seguente alcuni suoi satelliti intorno al cadavere. Vi fu sorpresa Antigone in atto che recavasi a piangere sul cadavere di suo fratello. Creonte la condannò ad esser sotterrata viva, altri dicono a morir di fame in una prigione. Ella però prevenne una tal morte, essendosi strangolata. Emone, figlio di Creonte, che amavala, si uccise per la disperazione sul cadavere dell’amata Antigone. Fig. 6
Antinoo, uno degli amanti di Penelope, ucciso da Ulisse in un convito, dopo il suo ritorno da Troja.
Vi fu un altro Antinoo, giovanetto di Bitinia, di sorprendente beltà, amato con trasporto dall’Imperatore Adriano. Dicesi che si annegò nel Nilo. Adriano ne pianse la morte, e per consolarsene, lo fece adorare qual Dio: gli fece innalzare tempj, e gli destinò i sacerdoti. Fece fabbricare in onor suo una città in Egitto, cui diede il nome Antinopoli, e quivi anche fece ergere un magnifico tempio; ma la divinità di Antinoo finì colla morte di Adriano, che l’aveva creata.
Antiope, regina delle Amazoni. Fu vinta in un combattimento da Ercole, che la fece prigioniera, e la diede quindi in isposa a Teseo, da cui ebbe un figlio nominato Ippolito.
Vi era un’altra Antiope figlia di Nettuno, re di Tebe, celebre in tutta la Grecia per la sua bellezza. Sedotta da un amante, ch’ella diceva esser lo stesso Giove, per evitare lo sdegno di suo padre, salvossi presso Epopeo, re di Sicione, che la sposò. Nota 15.- fig. 7.
Anubi, re degli Egizj, adorato, dopo la sua morte come un Dio, sotto la figura di un cane. Dicesi che Anubi figlio di Osiride amava molto i cani e la caccia, e che la figura di un cane formava l’emblema del suo scudo e delle sue bandiere. Credono altri che Anubi fosse uno de’ consiglieri d’Iside e che gli si attribuisse la testa di un cane per dinotare la sua sagacità. Nota 16
Api, figlio di Giove e di Niobe, re di Argo. Passò in Egitto, ove fu conosciuto sotto il nome di Osiride, e sposò Iside. Governò con tanta moderazione che gli Egizj lo riguardarono come un Dio. Dopo la sua morte, venne adorato sotto la figura di un bove, perchè credevasi ch’egli avesse preso la forma di questo animale, allorquando perseguitata da Giove insieme con gli altri Dei, fu costretto salvarsi in Egitto. Il bove, che lo rappresentava, doveva esser tutto nero con un marco bianco e quadrato sulla fronte; doveva aver sul dorso la figura di un’aquila; i peli della coda doppj ed un marco bianco sul fianco destro, somigliante la mezza luna; finalmente richiedevasi che la giovenca, da cui era nato, doveva averlo concepito allo strepito di un tuono. Quando era ritrovato siffatto toro, veniva condotto a Memfi. I sacerdoti al suo arrivo andavano a riceverlo pompoamente, ed era quindi condotto nel tempio di Osiride, ov’erano destinate per lui due superbe stalle. Allorquando conducevasi a passeggiare per la città, veniva scortato da molti uffiziali, che allontanavano la folla, ed era preceduto da fanciulli, che cantavano degl’inni in sua lode. Quando moriva, se ne imbalsamava il cadavere, e gli sì facevano magnifici funerali. Il popolo lo piangeva, e lamentavasi, come se fosse morto lo stesso Osiride. Tutto l’Egitto era allora in un gran duolo, fintantoché non si provvedeva di un successore. Allora risorgeva l’allegrezza, come se fosse risuscitato lo stesso principe, e la festa durava sette giorni. Nota 17
Apollo, o Apolline, figlio di Giove e di Latona, e fratello di Diana. Nel cielo chiamasi Febo, perchè egli guidava il carro del Sole tirato da quattro cavalli, ed Apollo sopra la terra. Era riguardato come il Dio della poesia, della eloquenza, della medicina, della musica e delle arti. Presedeva alle nove muse, ed abitava insieme con esse ne’ monti Parnasso, Elicona, Picrio, nelle sponde dell’Ippocrene e del Permesso. Ecco ciò che racconta introno alla sua nascita. Latona, sua madre, perseguitata dall’implacabile sdegno di Giunone, si ricoverò nella fluttuante isola di Delo, resa stabile da Nettuno a suo riguardo, e vi si sgravò di due figli. Il primo uso che Apollo fece de’ suoi dardi fu quello di vendicare sua madre colla uccisione del serpente Pitone, che avevala tormentata gran tempo, e della cui pelle egli servissi per cuoprire il sagro tripode, sul quale sedeva la Pitonessa nel profferire gli Oracoli. Questa vittoria fu turbata dalla morte di Esculapio suo figlio, fulminato da Giove a querela di Plutone, perch’egli aveva risuscitato Ippolito, e diminuiva il numero de’ morti. Apollo, montato in collera, uccise i Ciclopi, che avevano fabbricato il fulmine micidiale. Questa vendetta diè motivo all’esilio di Apollo dal Cielo. Durante questo esilio, si ricoverò presso Admeto re di Tessaglia, cui servì in qualita di custode di greggi; circostanza, che lo fece di poi onorare come Dio de’ pastori. Durante il suo soggiorno nella campagna, inventò la lira, si vendicò del giudizio di Mida, con fargli crescer le orecchie come quelle dell’asino, e scorticò vivo Marsia. Dal servigio di Admeto passò a quello di Laomedonte, e si occupò insieme con Nettuno a lavorar mattoni, e a fabbricar le mura di Troja, senzacchè ne avessero ricevuto alcuna mercede. Apollo punì questa ingratitudine, infettando quel popolo colla peste, che vi cagionò la desolazione. L’esilio, e le altre disgrazie di Apollo mossero finalmente la compassione del padre degli Dei, il quale gli restituì la divinità, e gli permise di ritornare nel Cielo. Apollo ebbe degli oracoli senza numero, tra’ quali i più celebri furono quei di Delo, di Tenedo, di Glaros, e di Paterà o Paterea città nella Licia. Il suo più superbo tempio ed il più famoso fu quello di Delfo.
Leucotoe, Dafne, Clizia ed una infinita di altre ninfe furono gli oggetti de’ suoi trasporti amorosi. Il gallo, lo sparviere e l’ulivo gli erano consagrati, perchè gli uomini e le donne da lui amate, erano state trasformate in queste specie.
Vien’egli rappresentato come un giovane e senza barba; perchè il sole, ch’è da lui guidato, non invecchia e non infievolisce giammai. Tiene in mano una lira, ed accanto a lui alcuni strumenti di arti, e va sopra un carro tirato da quattro cavalli percorrendo il Zodiaco.
Il più celebre monumento, che ci è rimasto dell’antichita, è il famoso Apollo di Belvedere. Questa è la più perfetta delle statue antiche scappate dal furore de’ barbari, e dalla mano struggitrice del tempo. Dopo le ultime conquiste de’ Francesi in Italia, è stata trasferita nel Museo di Parigi. Fig. 8.
Apoteosi cerimonie che i Romani praticavamo per collocare i loro imperatori nel numero degli dei. Erodiano le riferisce esattamente. Mettevasi una immagina di cera rassomigliante il defonto imperatore in un letto di avorio nel mezzo della gran sala del palazzo. Tutta la corte in aria di duolo stava intorno al letto. Chiunque volesse, poteva entrarvi. I medici lo visitavano come se fosse ammalato, e fatta la visita, volgevansi ai mesti circostanti, loro dicendo che l’ammalato peggiorava. Dopo sette giorni portavasi il letto nel campo marzio. Due cori, uno di giovanetti, el’altro di dame distinte lo accompagnavano cantando le lodi del dofonto. Quivi era un rogo, cui, dopo di esservisi posto l’imperial fantomo, appiccavasi il fuoco dall’imperatore, che gli succedeva, per mezzo di una fiaccola. Poco dopo, dall’alto del rogo vedevasi volare un’aquila che i Sacerdoti davano a credere che portasse in cielo l’anima del defonto. Questa era in sostanza l’apoteosi de’ Romani.
Non solamente gl’imperatori, ma anche le loro mogli, figlie, e sorelle erano deificate. Fanno fede di ciò le antiche medaglie segnate col titolo di Diva. Svetonio riferisce che fin da’ tempi della repubblica, i proconsoli, durante anche la loro vita, avevano partecipato a divini onori nelle provincie da essi governate. Tali furono le feste istituite in Siracusa in onore di Marcello, e quelle che celebravansi nell’Asia minore in onore di Q. Muzio Scevola; ma le stesse città, terminata la magistratura di essi, inviarono talora deputati al Senato per accusare gli oggetti della loro timida adorazione. I Romani per molti secoli non riconobbero che l’apoteosi del loro fondatore ma avendo perduta la libertà sotto Giulio Cesare, soffrirono che Augusto, suo successore lo facesse riconoscere come un dio. Lo stesso Augusto, ed altri imperatori furono deificati in vita, e nella loro età giovanile. Nella serie di sifatti Divi contansi molti stupidi, come Claudio, e molti scellerati come Tiberio. Plinio nei suo panegirico a Trajano ci assicura, che sovente non la religione, o la pietà, ma la politica ne somministrava il motivo. In effetto Tiberio pose Augusto nel numero degli dei per dar luogo al crimenlese; Nerone deificò Claudio per burlarsene; Tito consagrò Vespasiano, Domiziano Tito, per vantare l’uno d’avere il genitore, l’altro il fratello fra gli dei.
Questa pratica superstiziosa, che a gran stento potè abolirsi sotto gl’imperatori Cristiani, sarebbe degna d’indulgenza ove abbia per oggetto la ricompensa della virtù; ma i Romani giunsero a deificare le due Faustine, celebri prostitute imperatrici, l’una moglie di Antono Pio, l’altra di Marco Aurelio, che le fece ergere Faustinpoli. Gli eserciti la invocavano Mater castrorum. Sacerdoti mercenarii profusero l’incenso all’altare di questa imperatrtice. Lattanzio rimprovera a’ Romani l’apoteosi di una meretrice chiamata Laurentia, la cui festa chiamavasi Laurentinalia.
I Greci che diedero a’ Romani l’esempio delle apoteosi, deificavano i soli fondatori de’ popoli, e gl’inventori delle arti. Tali furono l’apoteosi di Bacco, di Vulcano, e di molti altri. Eusebio attribuisce agli Egizj ed a’ Fenizj l’origine di tale istituzione diretta a riconoscere, anche dopo la loro morte, le virtù e i benefizj degli uomini, che, durante la loro vita, erano stati benefici a’ loro simili.
Aquilone, vento impetuoso e freddo. I poeti lo fanno figlio di Eolo e dell’Aurora. Viene dipinto sotto la figura di un uomo attempato con una coda di serpente e coi capelli bianchi.
Aracne, figlia d’Idmone, re di Lidia, abilissima ricamatrice. Vantossi un giorno di superar Minerva in guest’arte. La Dea andò a visitarla sotto la figura di una Vecchia, e la trovò occupata di un ricamo: fecesi allora conoscere ed accettò la disfida che Aracne ebbe la temerità di farle. Minerva rappresentò sulla tela molti differenti pezzi di storia con arte sorprendente. Aracne prese le spole, e lavorò con maggior delicatezza. Irritata Minerva, pel dispetto di vedersi superata da una mortale, le diede un colpo di navetta sulla testa; altri dicono che ruppe il telajo, e i fusi della sua emola. Aracne ne sentì tale rammarico, che si appiccò per disperazione, e fu da Minerva trasformata in ragno.
Arcade, figlio di Giove e di Calisto, diede il suo nome all’Arcadia, paese, di cui narransi molte favole. Divenuto adulto, alcuni cacciatori lo presentarono a Licaone suo avo, che lo ricevette con piacere; e che di poi, per far prouva della divinità di Giove, presentò a questo Dio in un banchetto le membra di Arcade. Sdegnato Giove di questa orribile pruova, cangiò Licaone in lupo ed Arcade in orso.
La metamorfosi di Arcade raccontasi da alcuni altrimenti. Dicesi ch’essendo egli un giorno andato a caccia, incontrò sua madre sotto la figura di una orsa. Calisto, non conosciuta, ma che conobbe suo figlio, si fermò per guardarlo. Arcade era in atto di colpirla co’ suoi dardi; ma Giove, per prevenire questo involontario parricidio, lo trasformò in orso, e rapì ambedue nel Cielo, ove formano la costellazione della grande e della picciola Orsa.
Archemoro, figlio di Licurgo, re di Nemea. Issipile, sua nutrice, avendolo lasciato sopra una pianta di appio, mentr’ella era andata ad additare una fontana agli assetati principi greci, che portavansi all’assedio di Tebe, questo real bambino fu morso da un serpente, e ne morì. I Greci guerrieri, afflitti per sì funesto accidente, uccisero il serpente. Licurgo risolse di punir cella morte la negligenza della nutrice; ma gli Agivi l presero sotto la loro protezione. Appunto in memoria di questo avvenimento furono istituiti i giuochi Nemei, i quali celebravansi di tre in tre anni. I vincitori vestivansi a lutto e coronavansi di appio.
Aretusa, figlia di Nereo, Dio marino, e Doride, una delle ninfe di Diana. Un giorno, mentr’ella ba- gnavasi in un ruscello, fu scoverta da Alfeo, il quale la perseguitò sì vivamente che la costrinse ad implorare il soccorso di Diana, da cui fu trasformata in fonte. Alfeo la riconobbe anco sotto questa metamorfosi, e corse sotto la sua figura dì fiume a mescolar le sue onde con quelle di Aretusa.
Argira, ninfa di Acaja. Amata da Selimno o Seleno, il quale inaridì di dolore, vedendo ch’ella disgustavasi di lui. Venere, mossa a pietà, lo trasformò in un fiume, il quale, come Alfeo per Aretusa, andava cercando la fonte, cui presedeva questa ninfa incostante. Selimno finalmente riuscì ad obbliare la ingrata Argira, ed ebbe di poi la virtù di far perdere la memoria della loro passione agli amanti, i quali bevessero delle sue acque, o che almeno vi si bagnassero. Questa favola ha fornito a Ferrand l’argomento di quel bel madrigale.
D’amour et de mélancolie
Sélimnus enfin consumé
En fontaine fut trasformé;
Et qui boti de ses caux oublie
Jusqu’ au nom de l’objet aimé.
Pour mieux oublier Egérie,
Hier j’y courus vainement,
A force de changer d’amant
L’infidèle l’avait tarie.
D’amore e da tristezza
Selimno alfin consunto
In fonte fu cangiato;
E chi bee di quell’acqua obblia e disprezza,
Da quello stesso punto
Per sino il nome dell’obietto amato.
Per obbliare Egeria
Jeri vi corsi invan; già diseccato
L’avea questa incostante
A forza di cambiar tuttora amante.
Argo, vascello degli Argonauti, sul quale Giasone insieme colla scelta gioventù della Grecia andò a conquistare il vello d’oro. Pretendesi che questo sia il primo vascello, di cui siasi fatto uso sul mare. Fu chiamato Argo dal nome del famoso suo inventore e costruttore. Fu costruito dalle legna di querce della foresta di Dodona; quindi surse la fama, che questo vascello dava degli oracoli. Giasone essendo riuscito nella sua impresa, consacrò questo vascello a Minerva nell'istmo di Corinto, donde fu bentosto trasferito nel cielo, ove divenne una costellazione.
Argo, fratello di Osiride, altri dicono, di Arestore. Aveva cent’occhi, cinquanta de' quali erano sempre aperti a vicenda. Giunone gli affidò la guardia di Jo da lei stata trasformata in vacca; ma Mercurio lo addormentò al suono del suo flauto, ed indi gli recise la testa. Giunone, raccolti i suoi occhi, gli sparse sulla coda del pavone, ovvero trasformò Argo in questo uccello, ch’ella prese sotto la sua protezione.
Argonauti, principi greci così detti dal vascello Argo, sul quale imbarcaronsi per andare nella Colchide per conquistare il vello d'oro. Credesi ch’eglino fossero cinquantadue, oltre la gente di seguito. Giasone, che era stato il promotore della impresa, ne fu eletto capo. Distinguevansi tra essi Castore, Polluce, Ercole, Telamone, Orfeo, Melampo, Teseo, Anfiarao, Tifi, Enridamante, Zete, Calai, Oileo, Piritoo.... Imbarcatisi nel capo di Magnesia in Tessaglia, approdarono nella isola di Lennos, e di là, per la Samotracia, entrarono nel Ponto Eusino ( ossia Mar-nero ) attraverso gli scogli Cianei, e finalmente arrivarono sotto le mura i Aea, capitale della Colchide, ove, col soccorso di Medea, eseguirono la loro impresa. Dopo aver tolto il vello d'oro, partirono per la Grecia, perseguitati da Oota; attraversarono il Ponto Eusino; entrarono nell'Adriatico per un braccio del Danubio, e per il Po; quindi per il Rodano passarono nel mare di Sardegna. Te.... e le sue ninfe guidarono la flottiglia de’ Greci eroi attraverso lo stretto di Cariddi e di Scilla. Incontrarono a Corcira ( oggi Corfù ) la flotta della Colchide, che li perseguitò; ma loro riuscì schivarla. Furono in seguito sbattuti ne' scogli di Egitto; ma salvati dagli Dei tutelari del paese, continuarono il loro viaggio; e sbarcai finaimenie in Egina, giunsero in Tessaglia. La cronologia fissa questo avvenimento trentacinque anni avanti guerra di Troja. Nota 18.
Arianna, figlia di Minosse, re di Creta. Sorpresa alla bella presenza di Teseo destinato a combattere il minotauro, e divenirne per avventura la preda, gli diede gomitolo di filo, per mezzo del quale il greco eroe, dopo aver vinto quel mostro, uscì dal labirinto.
Partì da Creta, conducendo seco la sua liberatrice; ma abbandonò poscia su di uno scoglio nella isola di Nasso. {Bl|Bacco|905184}}, pervenuto colà, poco tempo dopo, per consolarla della infedeltà del suo amante, la sposò, e le fece il dono di una corona di oro, capo d’opera di Vulcano, che fu poi collocata in Cielo nel numero degli astri.
Arione, poeta lirico ed eccellente suonator di leuto (altri dicono di cetra ed altri di lira). Nacque in Bitinia nella isola di Lesbo. Visse lungo tempo alla corte di Periandro, re di Corinto, ed insieme con questo fece un viaggio in Italia, ove i suoi talenti musici furono largamente ricompensati. Mentre faceva ritorno a Lesbo, i suoi compagni di viaggio congiurarono di ucciderlo per impadronirsi delle sue ricchezze. Arione di ciò avvertito, chiese loro, come una somma grazia, che gli fosse permesso, prima di morire, di toccare per un’altra sola volta il suo leuto. Essendogli stata accordata la dimanda, si ritirò sulla poppa del vascello, e preso il suo strumento, dopo aver fatto risuonar l’aria de’ più teneri concerti, coronato di una ghirlanda, e col leuto in mani si precipitò nel mare. Molti delfini, sensibili all’armonia di quel suono, accorsero intorno al vascello; ed uno di essi, presolo sul dorso, lo tragittò sino al capo Tenaro nella Laconia donde passò a Corinto. Periandro sentì la più viva gioja in rivederlo: fece punir di morte i corsali, ed innalzò un monumento al Delfino, che aveva salvato Arione.
Aristeo, figlio di Apollo e di Cirene. Amò Euridice, la quale, mentre fuggiva le di lui persecuzioni nel giorno delle sue nozze con Orfeo, fu morsicata da un serpente, e mori all’istante. Le ninfe, per vendicare la morte della di loro compagna, fecero perire tutte le api di Aristeo. La disperazione lo spinse ad implorar il soccorso di sua madre, che lo condusse a consultare Proteo; e questi gl’impose che placasse l'anima di Euridice con fare un sagrifizio di quattro torelli e di altrettante giovenche. In effetto avendo Euristeo cciò eseguito, vide uscire dalle viscere di quelle vittime numeroso sciame di api che lo consolò della perdita. Sposò Autunoe, figlia di Cadmo, da cui ebbe Atteone. Essendosi stabilito sul monte Emo, ch’egli aveva prescelto per suo ritiro, disparve in un istante. Gli Dei lo collocarono tra gli astri e divenne l’Acquario dello Zodiaco. Fu dappoi onorato come un Dio sopratutto in Sicilia, e particolarmente fu rispettato da pastori, i quali gl’innalzarono de’ tempj.
Arpie, mostri, figlie di Nettuno e della Terra. Le più conosciute sono Aello, Ocipete e Celeno. Avevano il volto, come quello di una donna vecchia, pallido e smunto per la fame, il becco, le unghie uncinate, il corpo di avvoltojo, le mammelle pendole e le orecchie di orso. Per dovunque elleno passavano, recavano la carestia: involavano le vivande anche dalle tavole, e spargevano un odor così fetido in tutto ciò che toccavano, che non potevasi accostare a quegli avvanzi ch’esse lasciavano. Era inutile il discacciarle, poichè ritornavano sempreppiù. Perseguitarono Fineo re di Tracia, ed involarono le vivande dalla di lui tavola. Calai e Zete, due degli Argonauti ivi sopraggiunti, le discacciarono fino nelle isole Strofadi; ma Iride, per Comando di Giunone, le fece ritornare. I Trojani, seguaci di Enea, avendo ucciso alcuni armenti, che appartenevano alle Arpie, uscirono queste tutte all’improvviso dalle montagne, e frullando colle loro ale terribilmente, scagliaronsi a stuoli sopra le carni apparecchiate dai Trojani, involandone la maggior parte e guastandone il resto. Invano i Trojani corsero colle spade per combatterle; le loro ale le garantivano dai colpi e le rendevano invulnerabili. Celeno, piena di furore, fece ad Enea le più terribili predizioni. nota19.
Arpocrate, Dio del silenzio, figlio d’Iside e di Osiride. Rappresentasi sotto la figura di un giovane mezzo nudo, tenendo in una mano il corno dell’abbondanza ed un dito nell’altra appoggiato sulla bocca in atto indicar silenzio. I poeti dicono, che sua madre avendolo smarrito nella sua gioventù andò ricercandolo per terra e per mare, finchè lo trovò. Credesi che in questa occasione abbia ella inventato le vele, che aggiunse ai remi. Gli antichi portavano sovente ne’ loro suggelli scolpita la figura di Arpocrate, per dinotare che il segreto delle lettere è da conservarsi gelosamente Fig. 9.
Artemisia. (vedi Mausolo. Aruspici, ministri della religione presso i Romani, instituiti da Romolo, e specialmente incaricati di esaminare le viscere delle vittime per rilevarne i presagj. Gli Etrusci erano i più dotti Aruspici. I Romani facevano venire dal di loro paese quelli de’ quali servivansi; e inviavano i giovani in Etruria ad instruirsi in questa scienza. Gli Aruspici esaminavano 1. le vittime prima di spaccarsi: 2. le loro viscere dopo essere state spaccate; 3. la fiamma, che s’innalsava dalle carni bruciate; 4. il fior della farina, l’incenso, il vino e l’acqua che servivano ai sagrifizj. Il collegio degl’Aruspici aveva, come gli altri, i suoi archivj e le sue memorie; ( la loro arte formava una scienza nominata aruspizio, scienza per altro chimerica.
Ascanio o Julo, unico figlio di Enea e di Creusa figlia di Priamo. La notte della presa di Troja, mentre Anchise ed Enea erano indecisi a qual partito appigliarsi, una lieve fiamma, che videro svolazzare intorno la testa di Ascanio, senza bruciargli i capelli, loro sembrò un presagio favorevole, che li determino, a ricercare un nuovo stabilimento in un paese straniero. Ascanio era ancor giovinetto, allorchè fu condotto da suo padre nel Lazio, ov’egli fondò la città di Alba.
Ascalafo, figlio dell’Acheronte e della ninfa Orfnea era uno degli uffiziali di Plutone. Cerere, dopo il ratto di sua figlia Proserpina, ottenne da Giove il permesso di andare a ricercarla nell’Inferno, e di ricondurla sulla Terra, purchè Proserpina nulla avesse mangiato dopo il suo arrivo al regno de’ morti. Ascalafo riferì di averla veduta mangiare sei acini di melo-grano ch’ella aveva colto ne’ giardini di Plutone. Proserpina fu perciò obbligata passar sei mesi nell’Inferno, e sei altri presso sua madre. Cerere, sdegnata contro Ascalafo, gli gittò sul volto dell’acqua del fiume Flegetonte, ond’egli rimase trasformato in gufo. Minerva prese quest’uccello sotto la sua protezione, perchè Ascalafo la rendeva avvertita di ciò che accadeva in tempo di notte.
Astianatte, unico figlio di Ettore e di Andromaca. Questa principe, benchè fanciulletto, fu un oggetto d’ inquietudine ai Greci dopo la presa di Troja. Calcante loro consigliò di precipitarlo dall’alto di una torre, perchè avrebbe potuto un giorno vendicare la morte di Ettore, e rialzar le mura di Troja. Ulisse lo cercò, ma credesi che invece gli sia stato consegnato un altro fanciullo e che Astianatte fosse stato salvato da sua madre, nascondendolo nella tomba di Ettore, e che dipoi lo condusse seco in Epiro.
Atalanta, figlia di Scheneo, re di Sciro. Era molto trasportata per la caccia, ed agilissima al corso a seguo ch’era impossibile agli uomini i più snelli, e più vigorosi di raggiungerla. Perseguitata un giorno da due centauri, ebbe ella tanta destrezza e vigore che gli uccise, correndo, a colpi di frecce. Ne’ giuochi instituiti ad onore di Pelia, lottò ella contro Paleo, e ne riportò il premio. Per liberarsi dalle importunità di una folla di amanti, che la sua bellezza le attirò, dichiarò loro, di concerto con suo padre, che non darebbe la sua mano di sposa che a colui il quale la vincerebbe nel corso; che i concorrenti non dovessero parlar armi; ch’ella porterebbe, correndo, un giavellotto, col quale ferirebbe coloro che sarebbero da lei raggiunti. Molti aveano già perduta la vita, alleraquando presentossi Ippomene istruito e favorito da Venere. La Dea avevagli fatto dono di tre pomi d’oro, colti nel giardino dell’Esperidi. Già si dà il segno; Ippomene si slancia il primo nella lizza, e lascia cadere destramente i tre pomi a qualche distanza l’un dall’altro; Atalanta si occupa a raccoglierli; perde del tempo; è vinta, e diviene il premio del vincitore. Poco tempo dopo, entrati amendue in un tempio di Cibele, la lor passione li traviò fino a perdere il rispetto a quel sagro luogo. Furono trasformati l’uno in lione, l’altra in lionessa.
Ati, bel giovine Frigio, che Cilebe amò perdutamene te. Questa Dea gli confidò la cura del suo culto a condizione che non amasse alcuna ninfa. Ati, avendo infranto il suo giuramento, con avere sposata la ninfa Sangaride, Cibele lo punì colla morte della sua rivale; secondo altri, Cibele, per vendicarsi, fece cader l’infelice Ati in tale eccesso di frenesia che si mutilò da se medesimo. Cresciuto vieppiù, il suo furore era egli sul punto di appiccarsi, allorchè la Dea, mossa finalmente da compassione, lo trasformò in pino, albero a lui consagrato.
Atlante, figlio di Giove e di Olimene, era un gigante di una grandezza e di una robustezza straordinaria. Giove lo condannò a sostenere il Cielo sulle sue spalle, in pena di aver egli soccorso i giganti ribellati contro di lui. Atlante, padrone degli Orti Esperidi, che producevano de’ pomi d’oro, essendo stato avvertito da un oracolo di guardarti da un figlio di Giove, ricusò la ospitalità a Perseo, il quale, per vendicarsi, lo pietrificò, mostrandogli la testa di Medusa. Viene rappresentato stante in piedi e sostenendo un globo sulle spalle. Nota 20. — fig. 10.
Atreo, figlio di Pelope e d’Ippodamia. Tieste suo fratello aveva della corrispondenza amorosa con Erope sua moglie. Atreo dissimulò il suo sdegno, e gli fece dipoi mangiare in un convito le membra de’ proprj figli, frutti del suo incesto. Il Sole si nascose, per non esser testimone di quel detestabile pasto.
Atropo, una delle tre Parche, recideva il filo, che misurava la durata della vita umana. Viene rappresentata sotto la figura di una donna di età decrepita, con una veste nera e lugubre, analoga alla severità della sua carica. Vedonsi accanto a lei molti gomitoli più o meno guemiti, secondo la lunghezza, o la brevità della vita. Esiodo la dipinge come la più feroce, e così violenta che spesso si strazia da se medesima. Fig. 11.
Atteone, figlio di Aristeo e di Autonoe, figlia di Cadmo. Fu allevato da Chirone, e divenne un gran cacciatore. Essendo un giorno alla caccia nella valle di Gargafia in Beozia, sorprese Diana nel bagno in compagnia delle sue ninfe. Sdegnatasi questa Dea, per essere stata veduta nella sua nudità, gli gittò dell’acqua sul viso, lo trasformò in cervo, e i suoi proprj cani lo divorarono. I moderni Mitologi hanno ravvisato in questa favola l’emblema di un uomo perduto per la passione della caccia. Questo infelice principe, dopo la sua morte, fu riconosciuto per un eroe dagli abitanti di Orcomene, i quali eressero de’ monumenti in suo onore.
Augia, re di Elide, e figlio del Sole. Aveva delle stalle, che contenevano tre mila buoi e che non erano state nettate da trent’anni. Avendo avuto notizia dell’arrivo di Ercole ne’ suoi stati, l’impegnò a nettargliele promettendogli la decima parte del suo bestiame. L’eroe accettò l’incarico, e sviando il corso del fiume Alfeo, lo fece passare attraverso le stalle di Augia. Portato via il letame, e l’aria quindi purificata, Ercole si presentò per ricevere il premio del suo travaglio. Augia esitando, e non osando apertamente niegarlo, rimise l’affare al giudizio di suo figlio Fileo. Questi avendo deciso in favore di Ercole, il perfido genitore lo discacciò dalla sua presenza, e l’obbligò a rifugiarsi nella isola di Dulichio. Ercole irritato da siffatto modo di procedere, saccheggiò la città di Elide, uccise Augia, richiamò Fileo dal suo esilio, e lo pose sul trono di suo padre.
Augurio, specie di divinazione, che facevasi con osservare il volo ed il canto degli uccelli, la maniera com’essi mangiavano, e le meteore e i fenomeni che apparivano nel Cielo. Quest’arte riconosce la sua origine da’ Caldei. Il Collegio degli Auguri a Roma fu dapprima composto di tre, indi di quattro, e finalmente di nove Auguri; quattro de’ quali eran patrizj e cinque plebei. Erano essi in una gran considerazione. Non intraprendevasi alcun affare d’importanza senza prima consultare il loro parere. Di tutte le meteore, che servivano a prender l’augurio, le più sicure erano il tuono e i baleni. Qualora essi venivano dalla parte sinistra, il presagio era felice. I fulmini che andavano da Oriente in Occidente, erano anche riputati favorevoli; ma quelli che da Settentrione passavano in Oriente, erano riguardati come infausti. Gli Auguri vengono rappresentati con un bastone augurale in mano, in atto di considerare il volo degli uccelli o dei polli, ai quali dava si da mangiare. Il loro abito era una veste di color rosso. Nota 21.
Aurora, figlia di Titano e della Terra. Presiede allo spuntar del giorno. Viene rappresentata in un palazzo di argento dorato, stante in piedi su di un carro dello stesso metallo, tirato da due cavalli. Amò teneramente Titone giovane principe, famoso per la sua bellezza. Ella lo rapì, lo sposò, e n’ebbe due figli Mennone ed Ernazione, la morte de’ quali le fu così sensibile che le sue copiose lagrime produssero la rugiada del mattino. La sua passione per Titone fu grande a segno che avendolo interrogato qual pruova avrebb’egli desiderato di sua tenerezza, ne ottenne una vita lunghissima; sicchè giunto ad usa estrema vecchiezza, fu cangiato in cicala. Sposò dipoi Cefalo, che tolse a Procri di lui consorte, e per farsi amare, pose in discordia i due sposi; ma essi, suo malgrado, si riconciliarono. Un giorno mentre Cefalo era alla caccia, uccise inavvertentemente Procri, che stava nascosta dietro un cespuglio. Aurora lo trasportò itì Siria, ove lo sposò, e n’ebbe un figlio. Annojatasi indi di Cefalo, rapì Orione, e così dipoi molti altri. Talvolta vien dipinta tenendo colla mano sinistra una fiaccola, e coll’altra spargendo delle rose, per dinotare che i fiori, ond’è adorna la terra, devono la loro freschezza alla rugiada, che stilla dagli occhi dell’Aurora in guisa di liquide perle. Fig. 12.
Auspicio, specie di augurio, che intendesi precisamente del volo e del canto degli uccelli, per mezzo del quale pretendevasi scuoprire la volontà degli Dei e le cose future.
Averno; lago nella Campania presso Baja consagrato a Plutone. Uscivano da questo luogo dell’esalazioni così infette che comunemente credevasi di esser quivi l’ingresso dell’inferno; e che gli uccelli, i quali volavano attraverso di questo Lago, vi cadevano estinti. Gli Antichi davano parimente il nome di Averno a tutti que’ luoghi, ch’esalavano vapori infetti.