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lo accompagnavano cantando le lodi del dofonto. Quivi era un rogo, cui, dopo di esservisi posto l’imperial fantomo, appiccavasi il fuoco dall’imperatore, che gli succedeva, per mezzo di una fiaccola. Poco dopo, dall’alto del rogo vedevasi volare un’aquila che i Sacerdoti davano a credere che portasse in cielo l’anima del defonto. Questa era in sostanza l’apoteosi de’ Romani.

Non solamente gl’imperatori, ma anche le loro mogli, figlie, e sorelle erano deificate. Fanno fede di ciò le antiche medaglie segnate col titolo di Diva. Svetonio riferisce che fin da’ tempi della repubblica, i proconsoli, durante anche la loro vita, avevano partecipato a divini onori nelle provincie da essi governate. Tali furono le feste istituite in Siracusa in onore di Marcello, e quelle che celebravansi nell’Asia minore in onore di Q. Muzio Scevola; ma le stesse città, terminata la magistratura di essi, inviarono talora deputati al Senato per accusare gli oggetti della loro timida adorazione. I Romani per molti secoli non riconobbero che l’apoteosi del loro fondatore ma avendo perduta la libertà sotto Giulio Cesare, soffrirono che Augusto, suo successore lo facesse riconoscere come un dio. Lo stesso Augusto, ed altri imperatori furono deificati in vita, e nella loro età giovanile. Nella serie di sifatti Divi contansi molti stupidi, come Claudio, e molti scellerati come Tiberio. Plinio nei suo panegirico a Trajano ci assicura, che sovente non la religione, o la pietà, ma la politica ne somministrava il motivo. In effetto Tiberio pose Augusto nel numero degli dei per dar luogo al crimenlese; Nerone deificò Claudio per burlarsene; Tito consagrò Vespasiano, Domiziano Tito, per vantare l’uno d’avere il genitore, l’altro il