Del veltro allegorico di Dante e altri saggi storici/Nota

Nota

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Confidenze letterarie politiche e familiari - Lettera XL Indice e sommario

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NOTA

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I Carlo Trova, esule, o meglio, in bando da Napoli e nello stesso tempo in viaggio di studi, scriveva da Firenze ai genitori il 3 ottobre 1824, a proposito del trattato di pace dell’ottobre 1306 fra il vescovo di Luni ed i marchesi Malaspina, con commozione profonda: «Il trattato di pace si trova originale nell’archivio di Sarzana: e quantunque giá fosse stampato, io vedrò e toccherò una carta scritta da Dante» ( 0. In un’altra lettera, alla mamma, del 15 novembre dello stesso anno, da Urbino, parlando dell’Archiano e dei paesi per cui scorre il torrente, affermava: «ho piú compreso di quei fatti di allora in un giorno, che non avrei compreso studiando tutte le carte geografiche della terra,..». E dopo aver detto d’aver avuto, alla Pieve, nel Vicariato, dal dottor Tubugli «consigliere della signora Elisabetta della Fagiola, ultima discendente di quel famoso guerriero» molti documenti importantissimi che riguardavano il «suo» Uguccione, annunziava: «Domani vedrò l’antichissimo castello della Fagiola nell’andare a San Marino»! 3 ). Ormai egli aveva trovato la chiave per rendere chiara pienamente l’interpretazione della Divina Commedia; lo scriveva al padre da Bologna il 24 dicembre del 1S24. Dapprima Dante incominciò a scrivere in latino l’opera sua «ma poi l’abbandonò», e doveva essere tutt’altra cosa dell’attuale, che abbiamo. Coll’andar del tempo, questo poema italiano, dopo l’esilio, divenne il serbatoio di tutte le sue vendette politiche, di tutte le sue speranze per ritornare in patria, di tutte le lodi ch’egli dovev’ai suoi ospiti ed ai suoi amici. Non accadeva qualche cosa d’importante per l’esiliato poeta, ch’egli non ne facesse menzione lá nel suo libro: (1) G. del Giudice, Carlo Troya, Napoli, Giannini, 1S99. (2) Ivi. [p. 344 modifica]

Tessersi perduta la memoria di quelle avventure ha fatto giudicare oscuro il poema: ed, ardisco dirlo, era oscurissimo prima che i fatti si mettessero in luce, o si studiasse accuratamente la storia di quella etá cosi buia. E saput’i fatti, la Divina Commedia diviene una storia di Dante: storia spesso parziale perché il poeta inasprito dall’ingiusto esilio divenne cosi furioso ghibellino, come prima era stato ardentissimo guelfo: ma la storia di quel ghibellino serve a far conoscere quali erano le massime, quali i ragionamenti, quali le speranze di quella fazione assai meglio che tutte le croniche di quel secolo. «Io spero» continuava il Troya «di aver posto in evidenza siffatta istoria nella mia mente: Marchetti mi dice che ben poche oscuritá oggi rimangono su tal proposito. La cosa piú importante a sapersi, la cosa meno sospettata finora, quella che spiega con un solo nome le maggiori oscuritá di tutto il poema, era il sapersi a quale uomo Dante aveva posto l’animo, perché conquistasse T intera Italia, deprimesse la parte guelfa, e lo rimettesse in patria. Questo uomo alcuni credevano, quantunque confusamente, che fosse Can della Scala: ma costui, mentre Dante fu vivo, non fu signore che di Verona e di Vicenza: né a Dante, che non era un insensato, poteva venir in mente di veder conquistata la Toscana da un piccolo principe di Verona» (»). Nella primavera del 1825 il Troya veniva a conoscenza di «una bella dissertazione» di Carlo Witte pubblicata nell ’Hermes di Lipsia, in cui lo studioso tedesco sosteneva «che gl’italiani han torto di non conoscere Dante, perché ignorano la storia di quel tempo» ( 2 ); ed ai genitori, dando la notizia, il Troya confidava: «Io che trovo giusto il rimprovero, posso farlo cessare: mi affretto dunque a volere stampare la prima e piú difficile parte del mio lavoro». Giá egli aveva innanzi a sé un disegno del libro: il lavoro, egli progetta, «sará diviso in tre opere diverse: 1. V’ite di alcuni signori della Fagiolo. 2. Il viaggio dantesco nella Toscana e itegli Stati pontifici. 3. Storia fiorentina del tempo di Dante..Ai). Con (1) G. del Giudice, op. cit.

(?) Ivi. Lettera del Troya ai genitori del 19 marzo 1825, da Firenze. (3) In una lettera precedente, delPn febbraio, il Troya ci dice che il titolo di «Storia fiorentina ecc.» gli era stato suggerito dal Baldacchini e che egli l’avrebbe adottato perché, essendo stata Firenze «centro di tutte le guerre e di tutte le fasi di quel tempo» e avendo Dante «passato tutto il lungo periodo del suo esilio a guerreggiare Firenze, o a trovar protettori che avessero potuto restituirlo alla pa[p. 345 modifica] la prima parte» egli aggiungeva «cui solo penso in questi giorni, saranno uniti la dissertazione del Witte, e i documenti storici che mi servono di prova. Le cose annebbiate dal tempo, vi appariranno in tutta la luce: e l’ultimo diploma da me scoperto ha fatto in un punto ciò che tutte le congetture non avrebbero latto. E mi ha conceduto il vantaggio per me inestimabile di liberarmi dal dire le tante cose che avrebbero dato al mio scritto il tuono e lo stile di dissertazione: poiché io sempre ho rivolto meco nel pensiero di volere scrivere un pezzo istorico alla maniera dei classici antichi o degl’italiani. E questo proponimento non avrei potuto conseguirlo con un viaggio dantesco: ma il posso con le vite dei Fagiolani». E piú innanzi: «... senza il diploma ultimamente da me trovato, avrei dovuto stemperare le cose di Uguccione in quel viaggio; e parlarne a spilluzzico ed a misura che avrei trattato dei luoghi ov’ei s’illustrò. Questo difetto procedeva dalla mancanza delle prove sul vero luogo della sua nascita. Or che le prove mi son venute alla mano, posso delineare la vita di Uguccione... Tutto ciò era coperto di nubi: se non avessi visto i luoghi, non ne avrei capito nulla: senza il mio esilio, non avrei visto i luoghi. A qualche cosa dunque avrá servito la nostra sventura». E il libro fu pubblicato a Firenze non coi titoli giá pensati dapprima, né con quello a cui pensò da poi di «Esilio di Dante presso Uguccione della Fagiola», coi quali l’autore voleva porre in evidenza ch’egli intendeva scrivere, innanzi tutto, un lavoro storico, ma con quello Del veltro allegorico di Dante Alighieri, a lui suggerito dal Marchetti, a Firenze, il 31 dicembre 1825 con la data del 1S26, presso Giuseppe Molini, all’insegna di Dante. Si era, nel tempo in cui usciva il Veltro del Troya, in pieno fervore di studi danteschi: giá nel secolo precedente era incominciato, vivo ed energico, il movimento di reazione a quanto di leggero, di stupidamente denigratorio, e di scioccamente villano era stato scritto contro Dante da stranieri come il Voltaire, e da italiani come il Baretti e particolarmente come il Bettinelli, che nelle Lettere virgiliane aveva dato il noto giudizio sulla Divina Commedia-, «uno spropositato poema, diviso in parti fra loro ripugnanti e lontane, tria» sarebbe stato a lui facile «legar le storie dei paesi ove (Dante) visse in esilio, con la storia di quella cosi famosa Firenze... Ottengo in tal modo» egli aggiungeva «il mio doppio oggetto di scrivere una storia, e d’illustrare le cose di Dante, senza prendere il titolo di cementatore che aborrisco». G. del Giudice, op. cit. [p. 346 modifica] chiamato divino per derisione». Tal movimento di reazione devesi innanzi tutto, com’è noto, a Gaspare Gozzi che al Bettinelli rispondeva con la sua Difesa di Dante, e fra le voci diverse suonava potente quella dell’Alfieri. «Dante per lui dovea essere il restauratore del carattere nazionale, ed infatti con l’Alfieri gl’italiani nella letteratura, nella politica e nel vivere molle prendono coscienza di sé, e negli studi danteschi cui li richiamava quel grande, si predisponevano a liberarsi dall’imitazione francese e dal tedesco servaggio»! 1 ). Quindi seguiva una schiera numerosa e splendente di nomi eletti: il Monti, per cui «la letteratura dantesca entrò nelle scuole italiane e per molti anni ne innamorò la gioventú»; il Foscolo, che «mente sintetica e degna del suo soggetto, in quel suo magnifico Discorso sul testo della Divina Commedia tratta di tutte le questioni che erano in campo a’ suoi di, e ne assottiglia l’interpretazione col richiamare le menti alla storia de’ tempi, alle altre opere dantesche e alla connessione di tutto ciò con il poema»! 2 ); e l’Arrivabene, il Cesari, il Perticari, lo Scolari, il Rossetti, il Marchetti, il Missirini. Era, quindi, naturale che, pubblicatasi l’opera del Troya, sollecita fosse l’eco in consensi e dissensi intorno alla tesi generale, chiamando cosi quella che può riassumersi nell’affermazione che il veltro fosse Uguccione, ed a qualcuna delle tesi particolari pronunciate o sostenute dall’autore. E una disputa viva si accendeva nell ’Antologia di Firenze, disputa che ha importanza considerevole non solo perché la prima fortuna d’un’opera ci mette in condizioni di valutare il grado di corrispondenza sua allo spirito ed alle tendenze del tempo, e per la conoscenza del pensiero e delle opinioni di coloro, ingegni fra i migliori d’allora, che ad essa presero parte, ma anche perché, conosciuta e seguita dal Troya, lo spinse ad altri scritti in cui tornò alla trattazione di argomenti piú o meno ampliamente nel Veltro giá svolti, ed a risposte a coloro che l’avevano contraddetto con le quali ha precisato maggiormente il pensiero proprio; e perché, infine, lo possiamo dire giá da ora, furono al Troya rivolte subito sn\V Antologia alcune fra le piú gravi obiezioni, che, piú tardi, da altri richiamate o ripetute, ebbero maggior fortuna. (1) U. Micocci, La fortuna di Dante nel secolo XIX\ in L’Alighieri, a. II, p. 79. (2) Ivi. [p. 347 modifica]

Il primo articolo, un’ampia e diffusa recensione del libro, appariva nel numero LXVIII della rivista fiorentina, dell’agosto 1826, sottosegnato, in lettere greche, colle iniziali di Gabriele Pepe, l’amicissimo del Troya, il quale terminava lo scritto suo con le parole: «A taluno sembrar forse potrá aver l’autore posta troppa fiducia in alcune conghietture; pure avvisiamo, venuto che sará alle mani dell’egregio prof. Scolari il libro del signor Troya, ch’ei vedrá presso ad adempirsi il suo desiderio di una vita di Dante, nella quale, ridotta ogni cosa per altri narrata alle ultime differenze, proceda a dar conto anno per anno di tutte le private e pubbliche azioni di lui; e cosi mandi naturalmente sulla Divina Commedia il lume piú proprio a conoscerla». Nel numero seguente dell ’Antologia (LXIX, settembre 1S26), Carlo Witte riproduceva, traendola da un codice della Marciana di Venezia, la canzone: «Poscia ch’i’ ho perduta ogni speranza», sostenendo che fosse di Dante per quanto fino allora attribuita pressoché unanimamente a Sennuccio del Bene. Il Witte affermava fra l’altro, che se la canzone fosse ritenuta di Sennuccio riuscirebbe oscura, mentre riesce chiara se s’attribuisce a Dante. Ed in una nota all’ultima stanza d) diceva: «La canzone andando in Toscana passa per la Lunigiana, sará dunque scritta in qualche paese settentrionale. Volendo prestar fede ai recenti biografi di Dante, sarebbe cosa facile il determinare, dove il poeta poco dopo la morte di Arrigo abbia soggiornato. Io temo però che il loro assunto manchi pur troppo di fondamento. Onde mi pare assai miglior consiglio di confessare che, dopo la lettera dalla fonte il’Arno (16 aprile 1311) manchiamo di autentici documenti intorno alle peregrinazioni di Dante... Ingegnosissima senza dubbio è la strada per la quale ultimamente il eh. signor Troya ha creduto di ( 1 ) La riportiamo ove fosse comodo averla sott’occhio per qualche lettore. Canzon, tu te traudrai ritto in Toscana a quel piacere che mai non fu piai fino, e, fornito il cammino, pietosa canta il mio tormento fiero. Ma prima che tu passi Lunigiana ritroverai il marchese Franceschino, e con dolce latino li di’, ch’ancora in lui alquanto spero, e come lontananza mi confonde. Prega T ch’io sappia ciò che ti risponde. [p. 348 modifica] essere pervenuto a conoscere li viaggi deH’Alighieri, rintracciando nella Divina Commedia i luoghi mentovati, e componendone compiuto itinerario. Sará però chi dirá alquanto ingiuriosa la supposizione di cosi breve e forse troppo frettolosa memoria alla mente di Dante da lui medesimo (se non vuoi spiegar col valente signor Scolari) piú d’una volta lodata; sará anche chi negherá che Arli, Pula, Pietrapana e Tambernich e tanti altri siti dal poeta descritti, entrino nell’itinerario troyano; onde tutto questo ragionamento per un tale sembrerá simile al metodo di certi autori inglesi che suppongono che Shakespeare abbia fatto ogni mestiere, del quale parla nelle sue poesie. Io però non me la voglio prendere per ora col signor Troya, che in quest’opera preliminare a gran suo vantaggio per esser persuasissimo della veritá delle sue congetture non cita mai le fonti, sulle quali sono fondate... Un piú attento esame mostrerebbe che non tutte le date del signor Troya sono troppo esatte. Non pare, per esempio, ch’egli si sia accorto della differenza che intorno all’inedita lettera da lui a quell’istesso anno e parimenti a Lucca riferita, nasce dalla Vita nova, c. 31, il quale passo ci potrebbe far credere che la lettera sia suppositizia o da retrodatarsi di 23 annih). Bisognerá dire il contrario dell’epoca dal signor Troya (o in veritá prima di lui da altri) alVInferno assegnata; giacché Dante non poteva sapere nel 1308, come pur lo sa nel XIX dz\Y Inferno v. 97 che Clemente V terrebbe meno di 19 anni le somme chiavi. Questo e qualche altro passo ci fa certi che Y Inferno non fu pubblicato che dopo li 20 d’aprile 1314, con la qual data si combina molto bene la profezia del primo canto, la quale sarebbe stata mal a proposito mentre che i ghibellini non aveano totalmente da disperare dell’imperiai soccorso. Pare che in queste pregiudiziali circostanze la nuova spiegazione del veltro allegorico non sia troppo bene stabilita». Questo aveva scritto il Witte prima del 24 luglio; in un poscritto poi con data 30 agosto da Firenze, con cui accompagnava la pubblicazione di ciò che ancor rimaneva inedito della lettera di Dante ai cardinali, in parte giá fatta conoscere dal Troya, («scorrettissimo frammento» chiama questa parte il Witte), diceva, per spiegare come (1) S’è taciuta qui, invero, un’altra obiezione del Witte al Troya, ed è che la canzone ritenuta dal Witte di Dante non avrebbe dovuto passare per la Lunigiana per andare a Firenze da Lucca. Ma l’obiezione avrebbe valore solo in caso di sicura attribuzione della canzone a Dante. [p. 349 modifica] si fosse deciso alla pubblicazione: «Dopo di aver esaminato diligentemente la lettera, alla quale il signor Trova ha rivocato la nostra attenzione, mi sono persuaso, che gli argomenti che in favore della sua autenticitá si fanno citare non sono forse di minor peso che li contrari».

Sempre nell ’Antologia (nn. LXXI-LXXII, novembre-dicembre 1826) al Witte rispondeva subito G. P. Gabriele Pepe) sotto forma di lettera ad Emanuele Repetti: notando, innanzi tutto, che il loro comune amico Troya non doveva dolersi se l’opera sua giá era chiamata «al foro della critica»; ricordando quindi come giá nelVHermes il Witte avesse espressi dubbi sull’autenticitá della lettera di frate Ilario, e combattendo l’opinione dello studioso tedesco che la canzone «Poscia ch’i’ho perduta ogni speranza» potesse ritenersi di Dante anziché di Sennuccio. Affrontava poi, delle obiezioni del Witte, quella ch’egli riteneva la piú grave, che si riferiva alla profezia del XIX dell ’Inferno ed alla data della morte di Clemente V. Infatti: «L’obiettare un tale anacronismo ha molta specie di ragione. Né sei dissimulava il nostro amico. Mi rammento anzi che sovente ne facevano subietto di esame... Parlavasi della morte del V Clemente quale unico fatto posteriore al 130S, che si trovi memorato nella prima delle tre cantiche. Ciò essere robusto argomento contro al tema assunto nel Veltro; ed in null’altro modo dileguabile se non supponendo che l’Alighieri avesse congetturalmente cosi parlato circa il giorno supremo di quel pontefice». Il Pepe notava come Clemente si mostrasse ben presto avverso ai desideri di Dante, e come Dante lo dovesse perciò considerare un proprio acerbo nemico; «ed ecco la certezza che un esule non meno acerbo ed iroso gli imprecasse prossima morte». Ed aggiungeva: «V’ha inoltre che il poeta potea tanto piú plausibilmente imprecargli o sperare che presto andasse a cacciar piú giú Bonifazio, in quanto che Clemente assai grave infermava poco dopo l’esaltazione sua... L’Alighieri... apprendendo cosi travagliato da fiero morbo il papa, potea molto innanzi del 1314 prevedere che questi non pontificherebbe per 19 anni». Del resto G. P. sapeva che il Veltro non era «che precursore ed epilogo di piú ampia storia». Il Troya s’era messo per una nuova via cercando «nell’istoria del secolo e nella vita del poeta la vera chiave alla lucida intelligenza del poema». A proposito poi di Uguccione, indicato come il veltro, notava che, secondo lui, il Troya non aveva tratto dalle parole «Questi non ciberá terra né [p. 350 modifica] peltro» eoe. tutto il partito che avrebbe dovuto, e aggiungeva: «Rammentiamoci che il Fagiolano non nacque in grande stato, ma vi pervenne. I molti anzi il fanno nato tra la plebe come il primo Sforzesco».

A questa lettera pubblica a lui diretta rispondeva sulla stessa Antologia (nel n. LXXIV del febbraio 1827) il Repetti. Egli rigettava, innanzi tutto, l’opinione che la canzone «Poscia ch’i’ ho perduta ogni speranza» fosse di Dante e non di Sennuccio; quindi, approvando ciò che a proposito del canto XIX dell’ Inferno e della predizione della durata del pontificato di Clemente V aveva scritto G. P., aggiungeva che se tale canto fosse stato scritto dopo la morte di questo papa «il poeta esatto come suol mostrarsi in quanto alle date e alla ragione de’ tempi, non avrebbe largheggiato cotanto in simile finzione da augurare ad un malvisto pontefice dieci anni piú di quel che visse; ma imitando l’esempio registrato al canto X dell ’Inferno medesimo, rapporto alla cacciata di Firenze del Cardinal di Prato, ed alla prognosticata sua gita in Lunigiana, (Purgatorio c. VIII) avria messo in bocca di Niccola III una piú esatta imprecazione». Riteneva il Repetti che «niuna pregiudicevole circostanza» ostasse «alle congetture dell’autore del Veltro allegorico intorno all’itinerario del poeta esulante, e massime che l’Alighieri potè scrivere gran parte della cantica nel 1308 presso il marchese Malaspina di Mulazzo». Era invece scettico riguardo all’autenticitá della lettera di frate Ilario. Ma ben presto nello stesso periodico, VAntologia W, dopo il Witte, rispondendo al quale il Marchetti quasi aveva rimproverato la qualitá sua di studioso non italiano, e, quindi, per ciò stesso, non del tutto competente a giudicare profondamente di Dante, a formulare diverse obiezioni al lavoro del Troya, ed anzi a mettere in dubbio la conclusione stessa, che cioè il veltro dantesco fosse Uguccione, succedeva il Tommaseo. Egli, pigliando occasione dall’opera di Francesco Lomonaco, Vite de’ famosi capitani d’Italia, prendeva a considerare la figura di Uguccione e si poneva la questione se fosse stato il Faggiolano degno d’essere il veltro dantesco. Per il Troya e per l’opera sua ha il Tommaseo grandi lodi ed ammirazione: solo non è ben persuaso delle ragioni addotte dal Troya per provare che il veltro fu Uguccione e non lo Scaligero; e tiene a premettere: «che quand’anco dai dotti non (1) N. 130, ottobre 1831. [p. 351 modifica] fosse trovata conforme a verisimiglianza la congettura del signor Troya, da ciò non verrebbe al suo libro che piccolissimo detrimento d’utilitá e di bellezza. Giacché le gesta dell’eroe faggiolano non sono, per dir cosi, che il pretesto che l’uomo erudito coglie per quindi ragionare dei fatti di Dante Alighieri e della parte istorica della Divina Commedia». Ricorda il Tommaseo le imprese ardite prudenti ed astute di Uguccione, ma, per lui, la sua stessa «politica avvedutezza, a riguardarla meglio, era tale che forse ad animi alteri e franchi, qual era certamente l’Alighieri, non doveva apparire né molto onorevole né molto conducente a buon fine...». Ricorda la duplicitá di condotta di Uguccione alleato al guelfo Azzo VIII, il quale s’era accostato per momentanei interessi ai ghibellini contro la guelfa Bologna; i sospetti degli aretini di segreti accordi di Uguccione coi neri di Firenze, la condotta del Faggiolano che in Arezzo seminava discordia fra’ ghibellini per farsi tiranno, ed altro ancora che risulta dal Lomonaco, e chiede: «Uguccione macchiato di tirannide, Uguccione goloso, Uguccione lascivo, Uguccione venale, Uguccione amico de’ tradimenti, Uguccione amico de’ tedeschi lurchi, Uguccione amico di Bonifazio, poteva egli essere tanto ammirato da Dante che tutte queste colpe punisce con si gravi flagelli?». Piú avanti, nello stesso fascicolo della rivista fiorentina v’è un’«Appendice al discorso sul Veltro allegorico», in cui si passano in rassegna commenti diversi alla Divina Commedia, ed a proposito del v. io del XX del Purgatorio «Maledetta sie tu, antica lupa», si nota: «La lupa dunque non è la corte di Roma, è l’avarizia in generale, la quale talvolta viene a significare non la chiesa romana ma gl’indegni suoi pastori...»; e s’aggiunge: «Dalle quali cose si viene a conchiudere che all’avido Uguccione, il quale di liberalitá non diede mai saggio, il vaticinio del poeta molto meno si converrebbe che al munificentissimo Cane. E una conseguenza piú importante ancora e piú nobile se ne trae: cioè che nell’opinione di Dante i politici mali avevano una morale e religiosa cagione; che dalla riforma de’ costumi civili ed ecclesiastici la riforma delle repubbliche doveva prendere auspizio... E perché siamo ancora a questo mistico veltro, giova recare l’autoritá di altro anonimo che in lui vede un universale signore, salute d’Italia: parole che al nato principe di cittá famosa, al capo della lega ghibellina potrebbero bene adattarsi, non mai ad Uguccione che sorse quasi capitan di ventura; il cui dominio, quand’ebbe piú [p. 352 modifica] forza, non passò il territorio di due sole cittá; che, chiamato or da questi or da quelli a combattere sovente per causa non sua, fu preludio di que’ condottieri il cui nome ad orecchio italiano suona si doloroso ed infausto». Ed un altro rilievo si fa, in notaU), al Troya; dice lo scrittore: «Debbo ancora notare che il signor Troya nella circoscrizione di umile Italia comprende la stessa Toscana; interpretazione tuttavia alquanto angusta all’animo di colui che piangeva su tutta la serva Italia, e sopra Arrigo venuto a drizzare l’intera Italia».

Nel n. 131 dell ’Antologia (novembre 1831) il Tommaseo torna a nuovi appunti al Troya, il quale non aveva visto che un inganno della fortuna nella caduta di Uguccione, e non si sa su quale documento aveva affermato che papa Clemente aveva fatto scomunicare un’altra volta il poeta perché dimorava col Faggiolano, e aveva detto che Dante raggiunse Uguccione a Verona quando seppe della riverenza dello Scaligero verso Uguccione stesso. Lo scrittore giustifica il Troya, che ha confuso Moroello nipote di Currado l’antico marchese di Giovagallo con Moroello figliuolo di Currado marchese di Mulazzo, e d’aver mandato ad Arrigo nel 1310 Moroello figliuolo di Franceschino, che nel 1321 era ancora pupillo: lo giustifica perché i documenti del signor Gerini intorno ai Moroelli Malaspina non erano stati ancora pubblicati. All’articolo segue poi una nota in cui lo scrittore si dichiara lieto d’aver letto «la memoria del dotto signor cav. De Cesare sul veltro allegorico, detta nel 1829 all’accademia pontaniana». Egli è d’accordo col De Cesare a favore del Feltro friulano e contro Macerata Feltria; non crede però che il veltro misterioso abbia ad essere Benedetto XI, come sostiene il De Cesare; e innanzi tutto perché di lui non è fatto cenno in alcun luogo delle opere di Dante.

Nell’accesa disputa che andava svolgendosi nell’Antologia mutava parere, allontanandosi dall’antica opinione del tutto aderente al libro del Troya, Gabriele Pepe. Questi ricorreva ancora alla forma della lettera pubblica, e la indirizzava a Gino Capponi ( 2 ), (1) N. 19 a p. 137 del fase. cit.

(2) Antologia, n. 134, febbraio 1832, Sul veltro della Divina Comedia, Al marchese Gino Capponi. — Questo ricorrere del Pepe alla forma di lettera per i rilievi che vuol fare e l’indirizzarla al Capponi potrebbe far pensare che non siano stati estranei alla, diremo cosi, conversione, o almeno al mutamento parziale, se non [p. 353 modifica] sostenendo che i futuri usati da Dante nel primo canto a proposito del veltro: verrá, fará, ciberá, sará, fia, caccerá e avrá, indicano che il veltro non esisteva ancora quando il poeta scriveva, ma che doveva, il veltro, «aver l’essere nel futuro», e che quindi Dante «avea presente la lupa, e diceva o sperava futuro il veltro». Era, quindi, inutile, se ancor doveva venire, indagare generale, del pensiero del Pepe intorno al Veltro allegorico dell’amico suo, i giudizi del Capponi stesso. A Firenze, allora, gli amici e i redattori de\V Antologia costituivano come una famiglia di studiosi che il comune amore ai problemi letterari storici filosofici scientifici, tanto piú se confuso con comuni aspirazioni politiche, spingeva naturalmente a discussioni ed a confidenze di pensieri e di giudizio. In una lettera del Pepe al Troya del 23 luglio 1827, ove si parla piú ampiamente di questioni e criteri storici, si trova il seguente periodo: «E qui mi permetterò di dirti ciò che non aveva osato per l’intianzi; ed è che il tuo Veltro sarebbe assai piú piaciuto se qua e lá non vi tralucesse lo spirito dell’autore di rimettere in onore opinioni screditatissime. Non è andata a genio quella violenza che tu fai a’documenti istorici per attribuire solo alle passioni di Dante ciò che egli dice di male di alcuni de’suoi contemporanei. E per addurti un esempio, ti dirò che uori è piaciuto quell’aver tu dipinto l’arcivescovo Ruggieri come un raro esemplare, mentre vi sono memorie le quali ne dicono che esso imprigionò Ugolino figli e nipoti non giá per liberarne Pisa, bensí per estorcere denaro dagli imprigionati». (Zagaria R., Gabriello Pepe e Carlo Troya, App. II, Leti. 4, in Rassegna stor. del Risorga a. XVI, aprile-giugno 1923, fase. II). A questa lettera rispondeva il Troya il 4 agosto seguente (Del Giudick, op. cit., append., doc. XXXII), e riporteremo qui solo ciò che si riferisce al Veltro: «Io sono ripreso, mi dici, e cosi dice il ginnasio di Napoli, io sono ripreso di aver fatto violenza a documenti storici per tassar Dante d’ingiustizia verso i suoi contemporanei, e per rimettere in voga opinioni screditatissime. Delle quali screditatissime adduci unico esempio, quello di aver lodato l’arcivescovo Ruggieri; nel che Repetti nostro mi scrive piú apertamente altri credere che si mostri uno spirito di papismo. È vero, caro Gabriele, io fui papista perché lodai un arcivescovo: ma questo arcivescovo era egli stesso antipapista e l’uno dei ghibellini piú caldi!... Ben mi era noto che vi ha in Italia una scuola di piagnoni, una setta di sdolcinati uomini che giurano pel santissimo petto e per le sacratissime viscere di Dante Alighieri... Questa setta è ignorantissima della storia e della geografia... Non ha guari, l’uno di costoro, vinto dal fatto, dicevami, aver io fatto male, assai male nel Veltro a svelare pudenda pattisi Or cosi dunque io deggio scrivere la storia?... Piú che del suo ingiustissimo esilio il (Dante) compiango io di quel suo aver cangiato parte; di quel suo avere scritto il libro De monarchia in favore dello straniero, sia di Lussemburgo sia di Baviera: Dante fiorentino chiamò contro i fiorentini quei teutonici di Arrigo VII...; quindi l’Alighieri faceva poco appresso quella celebre invettiva contro le sfacciate donne fiorentine perché portavano le poppe scoperte. Si, ma quelle poppe avevano saputo affrontar lo straniero! E i teutonici furono discacciati lungi da quelle nobili murai II villano di Aguglione, il barattiere da Signa, cosi scherniti da Dante potevano essere ignorantissimi ed anche scelleratissimi uomini, ma potevano avere piú senno e piú sapienza civile». [p. 354 modifica] chi dovesse essere il veltro fra i contemporanei di Dante. Riteneva estraneo all’argomento proprio il considerare perché Dante avesse detto che il veltro «misterioso uomo o genio» sarebbe nato fra Feltro e Feltro; ma notava che Dante non poteva sperarlo né dalla Sicilia né dal reame di Napoli né da Roma, mentre la fascia d’Italia «che dall’Appennino medio all’Alpe orientale cerchia l’Adriatico è sempre luogo di scena della Divina Commedia». E finiva dando, di Uguccione e di Cangrande insieme, questo giudizio: «Erano pigmei, che parvero avere qualche statura, solo perché prostrato era l’universale, e quel che è piú, perché non v’era alcun gigante». Lo stesso Troya in una lettera alla d’Altemps del 7 luglio 1832, da noi pure pubblicata in questo volume, ci dice come fosse proposito del Liberatore rispondere alle osservazioni dei redattori de\V Antologia, quando fosse stato dal Troya fornito dei necessari documenti; avrebbe risposto con un articolo sul Progresso intitolato: «Alcuni documenti sul veltro». Ma la risposta veniva invece data dall’autore stesso del Veltro con ampio articolo intitolato: Del veltro allegorico dei ghibellini, sul periodico napoletano, senza nome d’autore(b. Dice il Troya, nel principio dello scritto, di prefiggersi quale scopo particolare non quello di investigare quale fosse il veltro particolare del poeta, ma il veltro sperato «dall’universalitá de’ghibellini quando nel 1308 si pubblicava l’ Inferno». Il Troya, al Tommaseo che stimava colui che piú s’era tenuto nei limiti dell’arte storica, risponde piú ampiamente che agli altri, cercando di dimostrargli come Uguccione, uomo non volgare ma de’ Carpigni feltri, e anche se d’umili condizioni, capace d’innalzarsi per meriti propri, abbia avuto meno colpe di quelle che egli gli ha rimproverato, o agendo, come nel caso degli aiuti ad Azzo d’Este, d’accordo cogli altri ghibellini, o seguendo una politica comunque conforme alla fazione a cui era a capo(b. (1) Venne poi ripubblicato dal Troya, ampliato con nuovi capitoli e nuovi documenti, nel 1855 come appendice al codice diplomatico longobardo, e l’anno seguente fu ristampato in Napoli dalla stamperia Del Vaglio. (2) Il Troya elenca le colpe rimproverate dal Tommaseo ad Uguccione, e ad esse, citando documenti e cronache, risponde cosi: Uguccione si strinse in lega con Azzo d’Este, ma al parlamento d’Argenta v’era, cogli altri capi de’ghibellini, anche Galasso di Montefeltro; fu cacciato da Gubbio e da Cesena dal cardinale d’Acquasparta che riuscí a riformare a parte guelfa le principali cittá di Romagna; ha costretto Dino Compagni e gli altri bianchi ricoveratisi ad Arezzo ad abbandonare [p. 355 modifica]

All’obiezione della predizione del piú breve pontificato di papa Clemente nel canto XIX de\V Inferno risponde il Trova notando innanzi tutto come a giudizio di ghibellini e di guelfi sia stato, tal papa, simoniaco, «e chi credeva cosi doveva desiderare che presto avesse avuto fine lo scandalo»; ed insiste nell’asserire come risulti da documenti diversi e da lettere stesse del papa la malattia di cui egli giá nel febbraio del 1307 soffriva, per la quale giacque infermo un anno intero dal maggio 1307 allo stesso mese dell’anno seguente, né fu poi mai sano; e conclude: «Or chi non vede che la malattia del papa era cronica, e che non facea mestieri d’esser profeta per prevedere assai prossimo il fine di lui? San Pier Damiani, nel quale il poeta studiò e però collocollo nel paradiso, scrisse anche ad un antipapa: Non io t’inganno, e tu morrai fra un annodi. Lo stesso volle dir l’Alighieri: ed o a lui fu noto quel verso, ed e’ lo volle imitare, applicandolo a Clemente: o non gli fu noto, ed un pari zelo in un pari caso gli dettò le stesse parole. Ma, per non errare nel vaticinio, Dante si tenne in larghissimi termini». E nota il Troya ritornando alle accuse del Tommaseo ad Uguccione: «Con quelle accuse i bisogni ed i pensieri del secolo decimo nono sono sovente scambiati co’ pensieri e co’ bisogni del secolo decimo quarto. Gli odii, l’amicizia, il parteggiar di quei tempi sono, è vero, anche ora com’erano allora, ma le forme ne appariscono si diverse che sarebbe un grande inganno il volerle ritrarre tutte ad un modo»( 2 ) E poiché il Tommaseo aveva accusato Uguccione di crudeltá nell’opera svolta la cittá perch’egli era riuscito a portare in essa la pace fra ghibellini verdi e guelfi, né poteva tollerare che fosse turbata; fu costretto a levar l’assedio dal castello di Pulicciano per fame, partecipando alla guerra mugellana quando giá v’era inimicizia fra Bonifacio VIII e Filippo il bello, potentissimo in Firenze; sospette erano le opere di Uguccione, come dice il Compagni, a’Tarlati ai secchi ai Bianchi; porse a Dante, ospitandolo, l’aiuto che potè. Infine Uguccione non abbandonò Corso Donati quando lo vide agli estremi, ma le sue genti tornarono in Arezzo quando sentirono che i fiorentini s’eran sollevati e che Corso era stato ucciso; né egli fu ingrato verso Francesco degli Ubaldini, che l’aveva richiamato in Arezzo, poiché non Ugo, ma i Tarlati scacciarono l’Ubaldini. (1) S. Petri Damiani, Opera. Epistolarum lib. I, ep. 20; Non ego te fallo, coepto morieris in anno. (T.) (2) Come le accuse del Tommaseo, tiene presenti il Troya quelle del Centofanti, che nel 1S4Ó pubblicava una sua Lettera sopra frate Ilario (negli Studi mediti su Dante di vari autori, Firenze) giá composta nel 1834 e nella quale non ammetteva che Dante volesse dedicare ad Uguccione l ’Inferno proprio quando questi «era fautore delle tiranniche libidini di Corso Donati». [p. 356 modifica] a Genova nel 1313, il Trova cita Ferreto da Vicenza che afferma invece come il Faggiolano abbia sedato i tumulti quale rigido giudice «col supplizio meritato dei colpevoli» (0, e non sia stato eletto alla signoria di Pisa per «modo quasi di compenso», ma con pubblico decreto del popolo; e si meraviglia, il Troya, che il Tommaseo asserisca che Uguccione amasse «i lurchi soldati d’Arrigo VII; come se Cane della Scala e Matteo Visconte e tutti gli altri principi ghibellini rimasi fossero privi di quegli stuoli... e come se giá prima della venuta di Ugo non avesse il comune di Pisa comperata l’opera di que’ soldati». Il Tommaseo aveva affermato che Uguccione ha saccheggiato in modo «insolito» Lucca; ed il Troya risponde che «la cittá fu presa con pubbliche armi: non Ugo ma Castruccio era di Lucca; e se tradimento vi fu, solo fu di Castruccio e de’suoi»; e dopo aver parlato della vittoria di Montecatini nota: «Ben Dante a suo dispetto avrebbe dovuto aspettar la vittoria, che si ottenne, da chi solo era in armi contro Roberto: fosse stato pure cotesto Ugo colpevole di tutt’ i vizi!» ( 2 ). Un punto importante su cui il Troya doveva soffermarsi per (1) E peggiori furono, dice il Troya, i modi usati da Cane della Scala a Vicenza, secondo le testimonianze di Albertino Mussato e dello stesso Ferreto, che pure nell’opera sua non fu avanzo di lodi allo Scaligero. (2) E confessa il Troya un errore proprio: quello, cioè, d’aver ritenuto che i versi del c. VI del Paradiso «Che non l’abbatta esto Carlo novello» ecc., fossero stati scritti prima della vittoria di Uguccione, mentre furono scritti dopo, ed egli fu tratto in inganno da copia infedele di un documento rilevante. Torto ha il Tommaseo nel ritenere che i versi «L’uno al pubblico segno i gigli gialli» ecc. possano riferirsi ad Uguccione che teneva legittimamente l’aquila pel consenso de’ ghibellini di tutt’Italia, ma tali versi mordevano i Buonconti, uno de’quali «confessò di avere abusato il sigillo della signoria di Pisa. Al rimprovero fattogli d’aver visto un inganno della fortuna nella caduta di Uguccione e d’aver asserito che lo Alighieri ed il Faggiolano «buona pezza vissero insieme», il Troya risponde citando Andrea Dei, vivente nel 1328 (Dei, Cronica di Siena, Apud Murai., S. R. II., XV, 59), il quale afferma che volendo Ugo «far tagliare la testa a Castruccio per piú robarie e omicidi, perde del tutto la signoria dei pisani ingrati»; citando frate Ranieri «tanto guelfo che atroce chiamava l’infelice Corradino perchè aspirò alla corona di Napoli», e che ai pisani rimproverava l’ingratitudine verso il Faggiolano con le parole «... Oggi lo festeggi, o Pisa feroce; indi lo scaccerai: ma fu egli simile forse al conte Ugolino?» (Raynerius Granchi, Poema Caliginosum, Apud Murat., S R. II., XI, 297); citando «il guelfo e fiorentino Giovanni Villani» che dice della cacciata di Uguccione da Pisa: «Questo fu il guiderdone, che l’ingrato popolo di Pisa rendè a lui che gli avea vendicati di tutte vergogne, racquistato lor castelli e dignitá, e rimessi nel maggiore stato e piú temuti da’ loro vicini che cittá d’Italia» (G. Villani, lib. IX, cap. 76); citando, dopo il Boccaccio (Vila di Dante) [p. 357 modifica] rispondere a diversi suoi contradditori era quello che riguardava il verso: «E sua nazion sará tra Feltro e Feltro». Al Troya, che in Uguccione aveva identificato il veltro anche con la determinazione della sua nascita fra San Leo di Montefeltro e Macerata Feltria, s’opposero ben presto tanto coloro che davano un significato non geografico alle importanti parole, quanto coloro che pur dando ad esse siffatto significato, identificavano le localitá indicate nel poema in Montefeltro ed in Feltre veneta. Dei primi, i piú vedevano il veltro in Benedetto XI (i), e nei due «feltri» le due lane di questo papa, le monastiche dell’ordine dei frati predicatori e le primitive, poiché era nato da un mandriano di pecore; e ad essi il Troya risponde: «Il feltro cioè il non tessuto panno d’un pecoraio, è proprio il contrario della lana tessuta, onde si veste un frate predicatore» ( 2 ). Dei secondi alcuni mettevano in dubbio che il castello della Faggiola appartenesse al e dopo Benvenuto da Imola ( Apud Murai. A. M. Aevi, I, 1226) e il Moratino (Annales Foroíivíenses, Apud Murai., S. R.//., XXII, 183), l’anonimo Italo, scrittore ghibellino: «...i guelfi a Montecatini furono presi come timide rane; ma infine, secondo il costume degl’italiani, vituperosamente Ugo fu discacciato. Pochi sono i popoli che riconoscano il buon servizio dei signori, ma come stolti mutano volontá» ( Anonimus Italus, Apud Murai., S. R. It., XVI, 276; More Italorum). Con un passo del Petrarca risponde il Troya al Tommaseo per provare la riverenza in cui Cane della Scala ebbe Uguccione: «Ugo agitato nell’etá nostra da varie tempeste della fortuna, fu magnificamente ricevuto dallo Scaligero: e non sostenne punto le parti di ospite, ma di padre» (!•’. Petrarchae, Renivi vieviorandarunt, lib. II, cap. 4). K sempre al Tommaseo, che troppo rozzo ed agreste ritenne sia stato Ugo, risponde come il contrario risulti dalle parole del Mussato «che fu ambasciatore de’padovani ad Arrigo VII, e che potè conoscere Ugo in quella corte od in qualche simile occorrenza» (A. Mussati, Apud Murai., X, 61): Naturavi, vultumque viri singularis ingenti Ugucionis de Fagtola paucis dicere Incus admonet. Futi origine mxta (sic) nobilis de Fagiola Comitatus Ariminensis oppido. Caliiditatis incredibilis, quem Radei fiilaritas et omnis facundia fulciebat. Cuius ingenti profundilcs, ut magna quaeque negotia simularci ac dissimulai et studium praebebat, amicitias facile conquii ere. Ingentium facinorum dubium, an aggredi promptius, an in susceptis perseverasse moderai ius- in ambiguoque certatum est, an astutior, an fortunatior. (1) Furono il De Cesare, il Betti, il p. Marco Tonta, il p. G. B. Giuliani, il p. Marchese, per ricordare, per ora, solo quelli a cui potè rispondere il Troya rei Veltro allegorico dei ghibellini.

(2) Ai sostenitori di Benedetto XI, il Troya fece anche altre obiezioni, e cioè: ohe non potè essere stato il veltro de’ ghibellini o de’ bianchi se non «per soli quattro o cinque mesi, dal 22 gennaio al io giugno 1304:... dal giorno, in cui Benedetto XI spedi suo legato in Toscana il Cardinal di Prato per ricondurre gli esuli a casa, fino all’altro, nel quale il cardinale partissi maledicendo e scomunicando i neri, dominatori di Firenze... Nel seguente mese di luglio 1304 mori l’eccelso pon[p. 358 modifica]

Montefeltro, come il Repetti che lo ravvisò in Cornetob) ed il conte Litta che «trasportò la patria d’Ugo in una Faggiola, vicina di Castel d’Elci e del fiume Sonatello o Senatello»; a questi il Troya risponde con la citazione di diplomi di Ludovico il bavaro a favore di Uguccione e di suoi discendenti, fra i quali il piú importante per la tesi sua è quello del 15 febbraio 1329, dato in Pisa, in cui a Neri, figlio di Uguccione, ed a Paolozzo della Faggiola si conferma il possesso di terre e di castelli. «Il primo de’ molti castelli, onde si fa motto nel diploma del 1329 in favore de’ due cugini è quel di Faggiola in districai* et diocesi Montis/eretri\ fra’ quali confini sono annoverati eziandio Castel d’Elci ed il castello Sernatello, cioè Sonatello o Senatello». A quanti poi sostengono che il veltro fu Cangrande designandone la patria fra il Montefeltro e Feltre, dice fra altro il Troya, aggiungendo osservazioni tefice»; Benedetto XI, con bolla 7 aprile 1304 «assolvè Filippo il bello, assente e non chiedente d’essere assoluto, da ogni censura per gl’infami oltraggi recati a papa Bonifazio», e Filippo, secondo il p. Marchesi sarebbe la lupa del primo canto deU’/n/ifrwo. «Gagliardo veltro per veritá, se Filippo non avesse dovuto d’altri temere che di Benedetto XI!» 11 veltro avrebbe dovuto cacciar la lupa di cittá it» cittá. «Simile concetto conveniva meglio ad un capitano, ad un uomo di spada, il quale fosse andato allora penosamente guerreggiando in qua ed in lá, che non ad un pontefice massimo, la cui potestá universale suscitava idee d’un’operazione piú vasta e non ristretta in cosi brevi e municipali, sebbene svariati confini». E nel discorso «De’ due veltri di Dante Alighieri e de’ suoi affetti verso lo Scaligero», pubblicato nel 1655 risponde il Troya, piú difesamente che non avesse fatto nel Veltro allegorico di Dante agli interpretatori di «feltro» per «cielo», donde la identificazione del veltro in Gesú Cristo. «Scarsa lode» egli dice «per Gesú Cristo, è il dirlo fornito di sapienza, di virtú e d’amore; il dirlo dispregiatore della terra e del peltro; il dirlo infine cacciator della lupa di villa in villa. Gesú Cristo, signor nostro, non verrá mai a regnar di persona sulla terra: e’ verrá solo a giudicare i vivi ed i morti. Allora la lupa, considerata come un vizio, sará sommersa nell’inferno; allora Cristo risplenderá fra Feltro e Feltro, se Feltro significa il cielo. E però il concetto di Dante si ridurrebbe a dire, che il vizio dinotato dalla lupa finirá col inondo e con la razza umana. Grande scoperta e magnifica rivelazione di sconosciuta veritá! Ma com’ella s’accorderebbe con la speranza di salvar solamente l’umile Italia?... La lupa dunque, ovvero uno dei vizi umani, dovrebbe discendere in inferno e morir di doglia non prima delia fine del mondo? No, Dante non apri una cosi gran bocca per dir queste inezie, nel bel principio del suo poema. Quanto piú al Feltro e Feltro si vogliono attribuir qualitá ignote, stragrandi, soprannaturali, astratte, nebbiose, che alcuni credono essere le sole degne della contemplazione d’un Alighieri, tanto piú si dimagra e si rappiccinisce il concetto e si scolora la poesia, togliendo l’uomo vivo di mezzo e le forze dell’uomo vive per sostituirvi desideri e vaticini filosofici».

(1) Repetti, Dizionario geografico toscano, sotto le voci Corneto, Vergareto, et passim. [p. 359 modifica] a quelle del Veltro allegorico di Dante, od ampliando queste ultime: «Or chi mai potrebbe volere, che Verona si dovesse poeticamente ricordare, dicendola situata... tra una provincia intera, come quella di Montefeltro, ed una delle non principali cittá della Venezia, come Feltre?». Mentre «. ogni luogo di quella provincia può con molta proprietá ed eleganza da ogni qualunque rimatore dirsi collocato tra Feltro e Feltro, nella stessa guisa in cui tutti dicono elegantemente in Toscana tra Arno ed Arno, s’e’ vogliono dinotare un luogo vicino all’unico Arno, che nasce in Falterona, od anche un tratto bagnato da quel solo e non da due fiumi» (A.

In uno degli ultimi capitoli del Veltro allegorico de’ghibellini, il Troya preannunzia, diremo cosi, la tesi che sosterrá nel suo scritto seguente De’due veltri di Dante Alighieri, ed a proposito della lotta fra il Cardinal del Poggetto ed i capi ghibellini nel 1320, scrive: «Non s’appartiene a noi di qui narrare simili avvenimenti; ma ben parlonne Dante Alighieri nel vigesimo settimo canto del Paradiso, quando era per terminar la sua vita; e volendo pur consolarsi, e non potendo piú sperare nel suo perduto amico Uguccione delia Faggiola, si fece a sperare in uno, che era stato comune loro nemico, cioè in Castruccio» (A. Del resto (1 ) Ed aggiunge poi, particolarmente rispondendo al Tommaseo ed al canonico Brutione Bianchi, “recentissimo chiosatore della Divina Commedia», e riferendosi sempre al territorio indicato dall’espressione «tra Feltro e Feltro», per i sostenitori di Cangrande: «Non è questo per avventura un vasto spazio, che comprende una metá d’Italia, e nel quale trovasi, al pari di Verona e di Trevigi, situati anche i castelli di Faggiola, tanto del Sonatello quanto del Conca? L’esser nati nell’estremitá della provincia di Montefeltro, non diversifica le condizioni di chi venne al mondo nell’una o nell’altra estremitá, del settentrione o del mezzodi. E però Uguccione il grande ha dr itti uguali a que’ di Can della Scala; e nacquero entrambi, chi voglia dilettarsi di tal geografica leggiadria, tra Feltro e Feltro. Rimane a sapersi quale de’ due fu il veltro de’ ghibellini e de’ bianchi usciti di Firenze». (2) Questa sua opinione viene egli poi svolgendo ampiamente nel discorso: De’ due veltri di Dante Alighieri, pubblicato pure nel 1855 in appendice al Codice diplomatico longobardo. Nel cap. XL riporta la terzina del XXVII del Paradiso-. «Ma l’alta provvidenza che con Scipio — soccorse a Roma la gloria del mondo, — soccorra tosto, si come io concipio»; e sostiene in questo e nei seguenti capitoli, appunto che, morto ormai Uguccione, Dante vide questo «soccorritore» in Castruccio. E nella conclusione afferma: «Del rimanente, se Dante non seppe o non volle dire qual fosse il suo veltro, tal sia di lui: a me basta l’aver trovato, che prima Uguccione della Faggiola e poi Castruccio Castracani furono, dopo l’esilio di Dante, i veltri de’ ghibellini e massimamente di Fazio degli Uberti, e degli altri bianchi, usciti di Firenze». [p. 360 modifica] che Dante a questo avrebbe pensato, il Troya lo dice anche nel Veltro allegorico di Dante (cap. LVII).

Entusiasta e convinto seguace del Troya fu Cesare Balbo: il quale inviando allo storico napoletano un esemplare della sua Vita di Dante vi poneva come dedica: «Rimasugli de’ lavori di Carlo Troya raccolti dall’amico di lui» (*). A proposito di queste parole Benedetto Croce scrive che il Balbo «dal Troya tolse molto, anche di ardite fantasie e di arditi giudizi. E ne tolse le congetture e i giudizi su Dante intorno al quale scrisse un grosso volume»! 2 ). Quale efficacia abbiano esercitato sugli animi dei giovani i libri del Troya, dichiarava giá il Carducci nel 1895: «... Carlo Troya al tempo dei romanzi storici compose due libri che nella nostra giovinezza noi leggevamo con rapimento» (3). E accennando alla mutata fortuna di tali libri, seguita poi, aggiunge: «il Todeschini, un accademico svoltosi a critico... d’ingegno tanto minore al Troya e al Balbo, die’ i primi e rudi colpi all’opera dantesca de’ due»; e aggiunge subito subito: «fu tutta una reazione necessaria contro il romanticismo infiltratosi anche nella critica dantesca». Lo scritto del Todeschini a cui con tutta probabilitá si riferisce particolarmente il Carducci, è quello intitolato: Del veltro allegorico (t) Lettera di Carlo Troya da Roma alla madre, i» giugno 1839. V. Del Giudice, op. cit. V. a questo proposito anche F. Barbieri, La «Vita di Dante» di Cesare Balbo, in Datile e il Piemonte, Torino, 1921. (2) B. Croce, La storiografia in Italia dal cominciamento del sec. XIX ai giorni nostri, voi. I, p. 145 (La Critica, 1915, XIV, p. 19). (3) G. Carducci, A proposito di un codice diplomatico dantesco, in Nuova Antologia, a. XXX, terza serie, v. 50, fase. XVI, 15 agosto 1895. — Il Veltro allegorico de’ghibellini rinforzò in alcuni aderenti alle idee del Troya la fede in esse; come, ad esempio in Michelangelo Caetani duca di Sermoneta, il quale inviando al Troya l’opuscolo del Venturi contro la lettera di frate Ilario ( Osservazioni critiche sulla lettera di frate Ilario, ecc. in Giornale are., C. 75 e seg.) scrive: «Riguardo alle prove che potessero pure sortire dalla sospetta scrittura del frate Ilario, io poco ne prenderei cura, per ciò che occorre al suo proposito, dell’essere Ugo della Faggiola stato certamente per alcun tempo nel pensamento, e nell ’affetto di Dante, come uno che doveva sanar le piaghe d’Italia; e che nel lungo spazio di oltre quindici anni in cui Dante scrisse il suo maggior lavoro, mutandosi le condizioni degli uomini e delle cose, potesse pur essere che le speranze del veltro allegorico da Ugo si dileguassero, o si posassero sopra altri possibili, ciò nulla toglie al vero, che la piú ragionevole e forse la piú durevole opinione del veltro, nella mente del nostro poeta, si fosse quella senza meno di Ugo, e tutta la storia, e le prove tutte da lei toccate in questo suo recente libro, apertamente e vittoriosamente il dimostrano» (L. Passerini, Lettere di dantisti. Il duca di Sermoneta al c. C. Troya, Lett. IX: in Giornale dantesco, a. VII, 1899). [p. 361 modifica] della «Divina Commedia» e del tempo in cui furono scritti i versi 101-105 del canto Idell’Inferno che vi si riferiscono ( 0. In esso l’autore ricorda e, in parte, svolge piú ampiamente obiezioni al Troya giá rivolte da altri, diverse delle quali il Troya stesso aveva preso in considerazione e combattute negli scritti posteriori al Veltro allegorico di Dante Alighieri. Ritiene provato che la Faggiola nulla avesse a che fare col Montefeltro, non crede alla lettera di frate Ilario, in cui sente «assai meglio il tuono di un romanzo, che lo stile di un frate del milletrecento», né crede alla dedica át\VInferno ad Uguccione. Il Boccaccio nella Vita di Dante «non... registra» tale fatto «che per raccogliere una voce popolare, di cui egli mostra far poco conto; e nel Comento intrapreso da lui sulla Commedia (opera di piú matura etá e di piú sano giudizio, che la Vita di Dante) egli non ne fa piú veruna menzione». Il non credere che Cangrande fosse il veltro si «appoggia sul falso supposto, che la cantica dell’ Inferno fosse terminata nel 130S, o in quel torno»; né ha valore il fatto che lo Scaligero non combattè mai fuori di Lombardia «per le cose di Toscana e di Romagna, e per conseguenza dell’Alighieri...», perché «Dante non cercava nel campione disegnato sotto il nome di veltro un guerriero che pugnasse intorno al focolare, da cui egli era stato scacciato; bensí cercava un uomo, che infondesse speranze all’Italia di esserne la salute». Ha torto il Balbo quando scrive: «Non ciberá terra né peltro, è lode convenientissima, o se si voglia adulazione linissima ad Uguccione, signorotto povero e quasi senza terra, quantunque capitano e podestá di ventura felicissimo; ma sarebbe sconveniente, falsa e per falsitá ingiuriosa ad uno qualunque degli Scaligeri, signori giá vecchi di terre, e ricchi anzi magnifici principi»; ha torto, perché tal verso «non vuol giá dire non possederá, ma sibbene, coni’è spiegato dal Monti, non fará cibo delle sue brame». Per cacciar la lupa di villa in villa e rimetterla nell’inferno «non si richiedeva forse un uomo, che fosse (1) Iti Scritti su Dante di G. Todeschini, raccolti da Bart. Bressan, voi. I, Vicenza, tip. G. Burato, 1872. In un altro de’ suoi scritti discute il Todeschini particolarmente col Troya, in quello, cioè, che ha per titolo: Relazione di Dante con Alessandro da Romena; in esso mentre accetta l’opiuione che Dante si sia staccato dai bianchi fin dal marzo 1303 prevedendo le calamitá della guerra mugellana, combatte decisamente l’altra svolta dal Troya particolarmente in De’ due veltri di Dante Alighieri che Dante si sia recato nel 1302 o 1303 ambasciatore a Verona per conto di Bonifacio VIII. [p. 362 modifica] signore di numeroso popolo, padrone di molte terre, provveduto di grandi ricchezze?». La considerazione ch’egli ritiene piú grave contro il Troya è, però, che Uguccione ha perduto ogni dominio nel 1316 e che la Divina Commedia non usci alla luce se non dopo la morte dell’Alighieri; questi, quindi, avrebbe dovuto cancellare i versi del primo canto se in essi avesse parlato di Uguccione. «Dante non scriveva un poema a semplice sfogo di bell’ingegno: egli aspirava a dominare le opinioni, ad influire potentemente sui sentimenti degli uomini, e massimamente degli italiani. Tutte le sue parole adunque, e sopratutto la introduzione del suo poema dovevano acquistargli fede, dovevano conciliargli autoritá. Ma quale fede, quale autoritá sarebbesi meritato Dante appo gl’italiani, se avessero inteso annunziarsi da lui come speranza della nazione una meteora malefica, e giá bruttamente dileguata?» (1) Infine, secondo il Todeschini, Feltro e Feltro stan bene ad indicare la patria di Cangrande, per Lombardia, la quale, come dice il Boccaccio a proposito di «li parenti miei furon lombardi», è «provincia situata tra il monte Appennino e l’Alpi, e il mare Adriano».

È combattuta pure l’opinione del Troya, che Uguccione sia il veltro, in uno scritto giovanile del Vigo( J ), il quale si domanda: «... fino a questo anno (1308) quali speranze aveva date Uguccione piú di altri signori ghibellini alla fazione imperiale?... s’egli avesse creduto Uguccione della Faggiuola il liberatore d’Italia, come mai poteva dire la patria nostra priva d’ogni speranza..., esaltare di tanta straordinaria letizia alla discesa di Arrigo?». E dopo aver affermato che «il divino poeta non ha voluto indicare nissuno particolarmente» e che la «solenne restaurazione doveva farsi nel mondo colla pace e coll’amore, per mezzo di uno cioè che ispirato dalle istituzioni evangeliche volgesse il mondo ad una vera prosperitá», conclude che «nondimeno le imprese del duce ghibellino poterono senza dubbio far risorgere il divino poeta (1) Il Todeschini riporta qui in nota un passo della lettera diretta dal prof. Blanc di Halla a Cesare Balbo e pubblicata nella Rivista Europea (fase..1-2, a. 1S42), in cui si legge la stessa obiezione svolta piú ampiamente dal Todeschini: e cioè: «Questo condottiere (Uguccione) aveva perduto stato, possanza e vita, avanti che la Divina Commedia fosse terminata od almeno data alla luce». (2) P. Vigo, Uguccione della Faggiola potestá di Pisa e di Lucca, Livorno, F. Vigo ed., 1679; app. c. Ili, Uguccione della Faggiuola e Dante Alighieri. [p. 363 modifica] da quell’abbattimento in cui lo aveva improvvisamente precipitato la morte di Arrigo VII di Lussemburgo: a chi ben l’osservi il Faggiolano pare il continuatore dell’opera di Arrigo VII..., allorché Uguccione della Faggiuola rinfrancò alquanto gli spiriti dei ghibellini colla sottomissione di Lucca, il poeta venne quivi e vi dimorò per quasi due anni... Ora, e questo sembra indubitato, nel suo soggiorno in Lucca dovette l’Alighieri stringersi sempre piú al guerriero ghibellino, e fors’anche lo spronò a tentare l’impresa contro Firenze...». Del Veltro trattava il Del Lungo nella IX Appendice della edizione del 1879 della Cronica di Dino Compagni, intitolata appunto: Uguccione della Faggiola ed il veltro dantesco. Per il Del Lungo è arbitrario e pericoloso il sistema del Trova, che potrebbe dirsi geografico, «di supporre cioè la presenza del poeta via via in quei luoghi che nei canti del poema rammenta e descrive», e fallace è il metodo, in cui «la parte congetturale è confusa con quella di fatto, e spesso un tessuto tutto di congetture è vestito non della forma sua propria, che sarebbe la critica o dissertativa, ma della storica addirittura e narrativa, e poi questo racconto, nato di congetture, serve come punto di partenza e fondamento ad altre congetture e ad altri racconti». Né Arrigo né Uguccione né Cane né Benedetto XI sembrano avverare in sé totalmente ed esattamente le enigmatiche designazioni dantesche. Non può essere il veltro un eroe ghibellino che avrebbe dovuto non volgersi solo contro la lupa, che in senso politico è la curia romana, ma anche contro la lonza, che in senso politico è Firenze, e contro il leone, che in tal senso è la Francia. Ma le belve oltre che simboli politici sono simboli morali, e dir di Uguccione che avrebbe fatto morire la lupa morale sarebbe ridicolo, come sarebbe sconveniente dirlo dello Scaligero, e poco o punto probabile d’un imperatore. Né possiam dire, riferendoci a uno di questi tre che il veltro non pascerá terra né peltro. 11 veltro, pertanto, dice il Del Lungo, era per Dante un futuro pontefice (! ). (1) L’ipotesi del Del Lungo sembra «la piú probabile fra quante sono state proposte» per l’interpretazione dell’oscuro simbolo dantesco anche al D’Ancona, il quale ne parla in un’ampia recensione dello scritto del Del Lungo (// veltro di Dante, in Varietá storiche e letterarie, s. II, Treves, Milano, r&8,s). In essa ricorda anche, fra coloro che giá avevano sostenuto la stessa tesi del Del Lungo, il Pessina (Filosofia e diritto, discorsi vari, Napoli, Classici, 1S68; lo scritto che qui in[p. 364 modifica]

Il Bartoli, dopo aver deplorato che nei tempi a lui piú vicini fossero cominciate le stravaganze, poiché ogni studioso di Dante si era fabbricato «un nuovo veltro, a seconda delle proprie opinioni politiche o religiose, ed anche a seconda del proprio luogo di nascita», affermava: «Non vorrò dire che fosse stravaganza, ma fu certo errore quello del Troya, di vedere il veltro in Uguccione della Faggiuola, e fu cocciutaggine, dopo la confutazione stringente del Tommaseo, ostinarsi in tale opinione, e difenderla con una costanza e una dottrina degne di causa migliore. E non pochi, pur troppo, furono i convertiti dal Troya, il Borghi, per esempio, il Malagoli, il Repetti, il Balbo, l’Andreoli, che anche oggi ripete disinvolto e sicuro che il veltro è il Faggiolano». Afferma ancora, poi, il Bartoli (0 che nessuno ha risposto alla grave obiezione, egli dice, del Tommaseo: come avrebbe potuto Dante dire del veltro «e sua nazion sará» se esso fosse giá nato nel 1300? «Un’altra importante osservazione è quella giá fatta dal Pepe, e ripresa poi dal Del Lungo, il quale esaminati i versi che al veltro si riferiscono giustamente domanda se non sia questo il linguaggio di chi parla di cosa non solamente futura, ma lontanamente futura»(*). Quindi, il Bartoli, dopo queste ed altre considerazioni, conclude che «il veltro non può essere che una persona indeterminata, o un imperatore o un papa... L’indeterminatezza è appunto uno dei caratteri di tutte le profezie; e quello che c’ è di indeterminato nella profezia del veltro prova... che indeterminato, vago, incerto era pure il concetto che il poeta aveva di questo sperato salvatore d’Italia e di tutta la cristianitá» ( 3 ). teressa risale però al 1857) e dice: «Per certi punti speciali, per esempio sull’essere il veltro non nato ancora, sul non potersi dire Dante vero ghibellino, non che in generale sul doversi in quel simbolo riconoscere un auspicato pontefice, il Del Lungo avrebbe potuto utilmente confortarsi dell’opinione del chiaro giureconsulto e filosofo napoletano». (1) A. Bartoli, Storia della letteratura italiana, VI, 1, p. 209 e segg., n. r, Firenze, Sansoni, 1887.

(2) Al Pepe, invero al «suo» Gabriele, a cui rimproverava d’esser passato dalla opinione storica a quella poetica, il Troya aveva risposto nell’introduzione al Veltro allegorico dei ghibellini, per quanto brevemente, con queste parole: «Ma il sará d’un poeta che si avvolge fra nubi allegoriche, non va giudicato con le regole ordinarie della comune sintassi, e sovente nello stile poetico il passato divien futuro, dal quale non si ricava nulla in favore né della ipotesi poetica né della storica». (3) Per non pochi altri giudizi intorno alle opere dantesche del Troya, rimandiamo al Del Giudice, op. cit. [p. 365 modifica]

Le questioni di cui il Trova affermò o suggeri la soluzione nell’opera sua furono tante che, anche non accettando la principale, che cioè il veltro fosse proprio Uguccione, moltissimi, per non dire i piú degli studiosi di Dante, si trovarono necessariamente a doverlo ricordare, consentendo o dissentendo in quel dato particolare, e anche dopo le opere del Todeschini, del Del Lungo e del Bartoli non tutti quelli che affrontarono la questione principale lo trascurarono. Tutt’altro. Ne accenneremo qui alcuni. Il Fiammazzo, a proposito dell’iscrizione del monastero dell’Avellana in cui si dice anche: in eodem (monasterio) habitavit Danthes Aligherius, scrive: «Fra tutte le tradizioni (ahimè, troppo numerose!) relative alla vita di Dante, questa, chi ripensi la fede profonda il carattere mistico e l’animo esacerbato del divino poeta, sembrerá la piú verosimile; senza di che il breve ma sicuro accenno alla postura del cenobio, che è nella Commedia, se è proprio il rovescio della descrizione che ci vide il Troya, è anche troppo piú significativo che non si richieda per avvalorare l’ipotesi d’una perfetta conoscenza e quindi d’una reale visita del poeta all’Avellana e al Catria» ( 0. Il Pasqualigo, recensendo l’opera del Bartoli e notando come questi insista nel combattere il Troya, il quale, non ostante la predizione del canto XIX dell ’Inferno sulla dannazione di papa Clemente, ha posto come termine alla composizione della cantica il i3oS, ripete e sviluppa le ragioni giá dette a tal proposito dal Pepe nell’ Antologia e poi dal Troya stesso nel Veltro allegorico (1) A. Fiammazzo, Da Senigallia al Catria. flora subcesiva, Udine, G. B. Dòretti, 1891. E non seppe neppure G. L. Passerini ( La Vita Piuova di Dante Alighieri seconda la lezione del cod. Strozziano, VI, 143, con un sommario della vita di Dante, e brevi annotazioni per uso delle scuole, Torino, G. B. Paravia e C., 1897) liberarsi dal conforto di credere, poiché nulla lo rinnega, che Dante, come ha detto il Troya, sia stato lassú, sul Catria. «Ma almeno in questi faticosi errori, in queste lontane ascensioni a recessi solitari, dove l’anima grande dell’esule fiorentino avrebbe trovato d’ora in ora inspirazione e conforto, la poesia prende il luogo della storia e la reverenza che al poeta è dovuta non perde, nel cambio, niente del suo. Tutt’altro. Che anzi, in omaggio al vero, non ci è possibile affermare (come non si può negare, del resto) che Dante salisse il Catria gigante dell’Appennino, non ci lamentiamo per questo di vederne raccolta, come di un fatto possibile, la tradizione, e volentieri ci raffiguriamo con Carlo Troya la pensierosa figura del poeta ramingo, che di sulla vetta selvosa dell’alto monte pensa e contempla la patria non lontana e concepisce alcuni sereni canti del Paradiso». Si veda anche G. Vitalhtti, Il» rifugio Dantesco» di Fonte Avellona in Giornale dantesco diretto da L. Pietrobono, voi. XXIV, quad. I, 1921. [p. 366 modifica] dei ghibellini, e notando quanto scrive il Villani nella Cronica (IX, 58), e che la voce popolare giá aveva anticipata la dannazione di quel papa simoniaco, e, infine, che Dante poteva benissimo far profetizzare da Niccolò III la dannazione di lui fin dai primi anni del suo pontificato, aggiunge: «Che bisogno c’era di aspettare che egli morisse? E anche morto sappiamo noi di certo che Clemente V piombò all’inferno? Dante pose nel suo inferno altri dannati mentre erano ancora in vita e mangiavano e beveano e vestivano panni; or perché non poteva far fare questa profezia, che è assai meno, a Niccolò III? La conclusione, adunque, del Bartoli, non mi sembra escludere qualche dubbio. Il canto XIX poteva essere scritto anche nel 1307, ed in tal caso l’asserzione del Troya sarebbe esatta, come sarebbe ragionevole la sua coniettura sull’epoca in cui fosse compiuta la prima cantica» (ri. Ulisse Micocci parlando de La fortuna di Dante nel sec. XIX dice che «Carlo Troya scrivea il suo Veltro allegorico con tale acume storico ed erudizione, che se l’illustrazione della vita dell’Alighieri non può dirsi nata con il libro del Troya, deve peraltro riconoscersi che da esso lui ricevesse impulso nuovo e gagliardo. E poco dopo il Balbo dettava una Vita di Dante unica nel suo genere»(ri.

G. L. Passerini pensa che sia stata «affermata con critica piuttosto leggera» dal Troya e dal Balbo la notizia che Dante sia stato nel Friuli durante il patriarcato di Pagano della Torre, perché fu divulgata da «Giovanni Candido, il quale compilava i suoi commentari aquiliesi nel 1521, cioè due secoli precisi dalla morte del poeta», e che dal Platina ebbe «la notizia che accenna alla dimora di Dante in Udine». Ma giudica «assai probabile» la supposizione di Carlo Troya che Dante si trovasse a Verona, dopo la cacciata del Faggiolano da Lucca, quando fece il nobile rifiuto di ritornare in Firenze (3).

Il De Leonardis, il quale sostiene che il veltro fu papa Benedetto XI, nota che il Balbo «infatuato del Veltro allegorico, di Carlo Troya» non sapeva persuadersi come Dante neppure avesse (1) C. Pasqualigo, L’Alighieri, a. I, 1890, p. 253. (2) U. Micocci, La fortuna di Dante nel secolo XIX, in L’Alighieri, a. II, 1S91, p. 82.

(3) G. L. Passerini, Del casato di Dante Alighieri, in L’Alighieri, a. II, 1891, [p. 367 modifica] fatto cenno di tal papa, né l’avesse mai «tocco dell’ira sua», (Vita di Dante, p. 253); ricorda, quindi, il De Leonardis, che le battaglie date precedentemente da Federico II, da Manfredi e da Farinata degli Uberti non erano valse a riformare la Chiesa, e dice che «a disingannare o a far ricredere prima il Troya e poscia il Balbo, avrebbe dovuto bastare quell’unico verso: Questi (cioè questo simbolico veltro) non ciberá terra (ossia territorio o dominio temporale) né peltro (danaro). Or, che principe sarebbe stato costui senza principato e senza mezzi pecuniari? Sarebbe stato un miserabile; e tale non fu mai quell’Uguccione della Faggiola, cui sarebbe stata dedicata la prima cantica. La opinione che il veltro fosse un duce di parte ghibellina, adunque, non reggendo al lume della critica storica, ora dominante, cade; né piú varrebbero i nomi di due istoriografi insigni per tornarla in onore o per farla risorgere; essa è morta e sepolta, senza speranza di resurrezione... Ed un’altra considerazione avrebbe dovuto far avvertito il Balbo che il suo Troya era in errore. A chi, di fatto, Cristo avea conferito la potestá di sciogliere e di legare, e però di respingere la colpa nell’inferno, lá onde invidia prima dipartila se non a Pietro, e, quindi, al papa, suo successore?... Se il Troya prima e il Balbo poi, scambiandolo con un duce, perciò equivocarono nella interpretazione, ciò non si potrá certamente imputare a Dante, che vuol essere studiato piu seriamente ancora, e con animo superiore ad ogni umano riguardo, tutto obbiettivamente ne’suoi tempi e nell’anima sua»b).

Ma Vittorio Cian pubblicava l’anno dopo uno studio Sulle orme del veltro (*), in cui affermava: «Ormai, dileguatasi quella schiera di pretendenti o di candidati, i dantisti sono d’accordo nell’ammettere che l’Alighieri non poteva avere dinnanzi alla mente, sin da principio e sempre, una persona ben determinata; che, invece, egli dovette vagheggiare un tipo ideale, astratto, indeterminato di futuro liberatore, quasi novello redentore del mondo dai peccati che lo traevano «a triste ruina», primo di tutti l’avarizia — cupidigia di papi e di principi e di comuni, cagione di disordine religioso e morale e politico —; non si per altro che, a (1) G. De Leonardis, Figure dantesche, in Giornate dantesco, III, 1896, r- 3S4 e segg. (2) Messina, Principato, 1897. [p. 368 modifica] seconda delle occasioni, dei vari momenti e condizioni, dell’attimo fuggente della storia, anche a seconda delle disposizioni dell’animo suo, il poeta non si illudesse di vederlo incarnato nell’uno o nell’altro di quelli che furono i protagonisti sulla scena storica del suo tempo»(i). Additando l’indirizzo del Dòllinger riguardo alla critica del veltro dantesco, di cui s’era giovato parzialmente il Medin, egli esamina la tradizione profetica anteriore e contemporanea all’Alighieri, e conclude che sia quella «guelfa che ghibellina ci mostra... come alla mente di quegli uomini balenasse di preferenza l’ideale d’un principe laico, distruttore dei vizi, instauratore dell’ordine morale e politico e religioso». A proposito delle tre fiere, dice il Cian, in una nota (35), che gli «par evidente che... l’Alighieri abbia di preferenza l’occhio a tre luoghi e, indotto da motivi facili a comprendersi, tenda a localizzarle, per dir cosi, in tre regioni, corrispondenti per lui a tre centri d’infezione politica: Roma, la Toscana, specialmente il suo capo, Firenze, e la Francia». Afferma ancora il Cian che i critici, quand’egli scriveva, si accordavano nell’ainmettere «che Dante non cominciasse a comporre ordinatamente il poema prima del 1308, cioè poco innanzi all’impresa di Arrigo e poco prima d’aver compiuto (secondo l’opinione piú probabile) ma quando oramai aveva maturato nella sua mente il De monarchia». E combattendo il Fenaroli, si propone di dimostrare che il veltro per Dante «poteva, anzi doveva, essere un imperatore o un grande e virtuoso personaggio laico, un eroe ghibellino nel significato piú largo ed elevato della parola»; e in seguito afferma ancora «che sarebbe supremamente arbitrario escludere... dall’allegoria principale... la tesi politica che scaturisce e vibra e lampeggia in tutto il poema» ( 2 ). (1) Alla nota (58) dice: «Credo giustissima, conforme alla logica e alla storia, conforme alle attestazioni serbateci nelle opere di Dante, l’idea propugnata da Giacomo Ferrari xxé\V Elruria del 1851, e citata dal Frenaroli (p. 23), che cioè il poeta avrebbe successivamente pensato a piú d’un eroe». (2) Del Cian si può vedere anche: Dante e Cangrande della Scala, in Dante e Verona, Tip. coop., 1821. Inoltre egli accenna alla questione del veltro anche nella recente sua recensione dell’opera dello Zingarelli, La vita, le opere e i tempi di Dante, Milano, Vallardi, 1931, nel Giornale slor. della lett. il., Voi. L, f. 295-296, marzo 1932. Notando come lo Zingarelli ritenga probabile la spiegazione dell’espressione. «Tra feltro e feltro» data dal Regis (Studi Danteschi, v. IV, 1921), che situati cioè di accenno profetico ad una regolare elezione con le urne foderate di feltro, (con cui dice il Regis, si elegeva e si votava nella vita pubblica dei comuni. [p. 369 modifica]

Un lavoro volto a far ricordare il Veltro del Troya fu anche quello del Bassermann, Dantes Spuren in Italien, in cui piú d’una opinione particolare dello storico napoletano viene accolta, e nel quale pare che il Bassermann sia stato mosso da certa affinitá di riflessione e di convincimento col Troya («). A questo, poi, non poco si andarono accostando, per la questione cronologica della composizione della Divina Commedia, questione di importanza essenziale anche per le altre tesi sostenute dal Troya, diversi studiosi del secolo attuale; cosi il Barbi ritiene che VInferno fosse ormai composto (non pubblicato, però) nel 1308, ammettendo che due soli passi siano stati aggiunti posteriormente (quello del canto XXVIII vv. 75-90, e quello del XIX vv. 79-87), e pone la fine della composizione del Purgatorio nella seconda metá del 1314 (*). Ed in gran parte s’accorda col e anche a Firenze), commenta il Cian: «Tutto è possibile nel mondo degli enigmi: senonché il personaggio misterioso era straordinario e doveva balzare sulla scena in modo eccezionale e operare con mezzi rivoluzionari, come quelli accennati nei versi in esaltazione di Cangrande (Parati. XVII, 89-90). Altro che venire al mondo della politica con votazione regolare!».

(1) Il Bassermann scrive che Dante, insieme a molti altri libri «uno soprattutto ne ha avuto dinanzi, in cui egli continuamente ha letto, il libro della natura. L’autoritá del quale noi possiamo fiduciosamente collocare accanto a quella degli archivi e delle biblic.teche». (Dantes Spuren in Italien, YVanderungen und Untersuchungen von A. B. Ideine Ausgabe. Munchen und Leipzig, 1898. L’opera fu tradotta in italiano da E. Gorra, Bologna, Zanichelli, 1902). Si veda ciò che il Troya dice nelle lettere da noi citate al principio della presente Nota. Vittorio Rossi, nella recensione che dell’opera del Bassermann ha fatto (Bull, della Soc. Dant.lt., N. S., v. V), rimprovera al Bassermann d’aver rinfrescato «una vecchia fantasia del Troya e del Balbo, quando immagina che all’assedio di Caprona (1289) Dante apprendesse da Nino Visconti la storia miseranda del conte Ugolino e riporta a quel tempo il primo abbozzo dell’episodio famoso»: e notando come la critica dantesca «dopo le eccessive negazioni, pare ritinti i giá vietati confini del romanzo biografico», dice: «...ben venga il romanzo biografico, dacché, come fu iricfragabiimente dimostrato, una biografia di Dante fondata su basi obbiettivamente sicure sará impossibile farla; ben venga e sia sintesi disegnata con tocco delicato, di tanti studi belli e profittevoli compiutisi in questi ultimi decenni, sia esposizione víva, sobiia ed efficace di quanto giudichiamo vero n "i enti’ di questo scorcio di secolo. Probabilmente i futuri terranno diversa sentenza in ciò thè si attiene ai fatti particolari della biografia del poeta, ma il nostro «romanzo» avrá sul vecchio romanzo architettato dal Troya e dal Balbo e dalla nostra etá quasi distrutto, il vantaggio di rendere un’ immagine del poeta tanto piú fedele e compiuta quanto piú oggi sono progrediti gli studi sulla vita e sulla cultura medievali». (2) Recensione del Dante dello Zingarelli, Bull, della Soc. Dant. II., N. S., XI. [p. 370 modifica]

Barbi il Parodi (*), che suppone la profezia del dxv scritta nel momento delle maggiori speranze in Arrigo VII all’impresa del quale crede che essa alluda, e che come s’accosta al Barbi per il tempo della composizione dell’ Inferno, cosi s’accosta al Moore, pel quale il dxv è Enrico VII, e che ritiene il Purgatorio composto dal 1308 all’agosto 13131 2 ).

Il Gorra, riferendosi alla lettera di frate Ilario, e ricordando una recente pubblicazione del Rajna, ch’egli ritiene non definisca la controversia prò o contro tale documento, diceva, pur mostrando di non sentirne davvero il desiderio, che «è forse prossimo il giorno in cui la opinione del Troya risorgerá non solo in parte, il che è giá avvenuto, ma nella sua interezza» ( 3 ). E accostandosi per la (1) La data della composizione e le teorie politiche Inferno e del Purgatorio di Dante, in Studi Romanzi, 1905. Il Parodi ritiene sia meglio non occuparsi della questione se Dante abbia cominciato l’ Inferno o piuttosto un Inferno prima dell’esilio; lo ritiene probabile, come ritiene probabile che il racconto del Boccaccio sul ritrovamento dei primi sette canti de\Y Inferno «contenga un nocciolo di vero». Crede che abbia avuto ragione il Troya negando l’allusione al 1314 a proposito della predizione di Niccolò III, e a proposito del passo discusso del canto XXVIII Ae\V Inferno, nota: «Quanto al tradimento di Malatestino (che «tiene» non «terrá» Rimini), lo stesso Luigi Tonini, che propose la data 1312, non escluse il ^04-1306; e Carlo Tonini, nel Compendio della Storia di Rimini, I, 323 segg., negò da capo che il fatto sia posteriore al r305». E dando valore ai «dati negativi» afferma che «in tutto l’ Inferno Dante non mostra di saper nulla degli avvenimenti fiorentini e toscani posteriori al 1304, o forse al 1306. Per esempio, la morte di Corso Donati sará predetta soltanto verso la fine del Purgatorio; eppure se si pensa che nei primi anni dopo la morte d’Arrigo gli sdegni di Dante dovevano essere piú vivi ed operosi, sembrerebbe naturale ch’egli non lasciasse sfuggir le occasioni di accennare, fin dal principio del suo poema, alle vendette che avesse giá fatto il destino su coloro che piú, avevano colpa della rovina dei buoni». (2) Ed. Moore, The DXV Profecy (in Studies in Dante, serie III, Oxford, 1903). (3) E. Gorra, Quando Dante scrisse la «Divina Commedia», Rend. del R. Ist. Lomb. di scienze e lettere, S. II, v. XXIX, p. 668. — La pubblicazione del Rajna a cui si riferisce il Gorra, è: La lettera di frate Ilario, in Studi Romanzi, II, 1904, p. 123 e segg. Il Rajna, riprodotta la lettera piú esattamente che non nelle precedenti sei edizioni fattene, ritiene che «quando il documento venne ad allogarsi nel codice laurenziano aveva giá dietro di sé un passato, che non c’è alcuna necessitá di ritenere lungo, ma che neppure si potrebbe senza grave imprudenza pretendere brevissimo». Sta poi inconcusso che il documento non potè essere fattura di chi lo trascrisse in quel codice». Per lui la scrittura è la boccaccesca; ma «il Boccaccio prendeva non foggiava la lettera: la quale viene cosi ad essere riportata piú addietro e di un tratto... non troppo breve, da quella metá del secolo, a cui lo zibaldone vuole assegnarsi». E conclude: «Verrá a ravvivarsene in taluno la credenza, o un tentativo di credenza, che la lettera sia genuina. Altri invece — ed io con [p. 371 modifica] questione cronologica al Kraus! 1 ), al Pascoli(2), allo Zingarelli(3, che pongono la composizione del poema dopo la morte di Arrigo VII f 4 ), notava che come il Barbi, il Moore ed il Pascoli «risalgono, per via piú o meno diretta al sistema del Troya», cosi «chi rimanda la composizione del poema agli ultimi anni della vita di Dante (1316-1321)» sembra a lui «che ritorni ancora, senza avvedersene e per altra via, al tanto vituperato sistema del Troya, poiché agli accenni geografici attribuisce tutto quel valore esclusivo che questi dava agli accenni storici». Quanto al veltro, ricorderemo ancora soltanto che per il Parodi esso «non è neppure in Dante una forma concreta, bensí soltanto il solito vaporoso fantasma che, fra gl’incerti e strani bagliori del misticismo e della leggenda, compare nelle profezie medievali» (5); che per il Chiurlo non può essere né Cangrande né qualche altro duce ghibellino «per la ragione che soltanto dalle due guide può derivare al mondo salute! 6 )»; che per Lorenzo Filomusi-Guelfi, il veltro «non è né Benedetto XI, né Arrigo VII, né Uguccione della Fagiuola, né Cangrande della Scala, né Castruccio Castracani, né lo stesso Dante, né alcuno de’ molt’altri personaggi determinati, a cui si son rivolti, dal sec. XIV ad oggi, gli sguardi indagatori degl’interpetri: ma non è neppure un indeterminato pontefice; né, come i piú dei moderni inclinano a credere, un indeterminato imperatore o principe ghibellino. Tutte queste ipotesi urtano, a mio parere» (egli dice) «in una grave difficolta, oltre le minori, proprie di ciascuna ipotesi: il non cibar essi — ne dedurranno la prova, che dei falsi danteschi se n’ebbero assai di buon’ora, non parendo sufficiente il supporre che frate Ilario abbia mentito. Ma Tesserci stati dei falsi precoci (in questo caso s’abbia ben presente che cose contenute nella lettera non hanno per il Boccaccio altro valore che di un si dice), non dá punto il diritto di essere corrivi a cercarne e vederne dappertutto». (1) Dante, sein l.eben, ecc., Berlin, 1S97. (2) La mirabile visione, Messina, 1902. (3) Dante, F. Vallardi, Milano, 1904.

(4) Fa però una riserva, e si chiede: «Non è verosimile che negli anni 13081314 un disegno dell’opera fervesse nella sua (di Dante) mente e ch’ei ponesse mano a segnarne le linee?». E risponde: «In questo caso la catastrofe di Arrigo avrebbe non soltanto aggiunto un nuovo elemento all’opera, ma indotto il poeta a rimaneggiare il disegno e le parti giá scritte». (5) Op. cit.

(6 ) Chiurlo U.. Le idee politiche di Dante Alighieri e di Francesco Petrarca, in Giornale dantesco, a. XVI, 1908. [p. 372 modifica]

CARLO TROYA terra né peltro, ma sapienza, amore e virtú, aver, cioè, gli attributi della Trinitá, sapienza, amore, potenza; il ricacciare per sempre nell’inferno l’avarizia, venuta al mondo co’ primi uomini, non convengono a un uomo, ma a Dio. Resta dunque che il veltro sia Dio»; e piú particolarmente lo Spirito santo. Infine, il Pietrobono ritiene che nel veltro il poeta personifichi «la sua grande e ferma speranza nella redenzione morale, civile e religiosa dell’ Italia e del mondo» (0. Né sappiamo se, fatta eccezione delle veramente stravaganti, per dirla col Bartoli, non sarebbe troppo ardito dichiarare definitivamente sepolta e dimenticata anche una sola delle molte opinioni da noi brevemente richiamate ed esposte! 2 ). II Le lettere del Troya a Cesare Balbo, che ripubblichiamo togliendole dalla raccolta del Mandarini (?), appartengono al periodo, ricco di operositá fervida, in cui lo storico napoletano attendeva (1) Nel commento alla Divina Commedia, Torino, Internazionale, 1927. (2) S’iintende che vogliam dire di quelle che furono sostenute in buona fede da studiosi a cui una profonda coltura non permetteva voli eccessivi di fantasia. Ci si permetta di fare un confronto. Vento poco favorevole, scriveva il Rajna ( Per l’andata di Dante a Parigi, in Studi danteschi, II, 1920) spirava alla credenza nell’andata di Dante a Parigi. 11 Rajna, analizzando e spiegando i versi 46-48 del canto XXIV del Paradiso, e notando come in essi vi sia, non solo la prova della conoscenza d’una terminologia «un paragone di carattere intimamente spirituale», conchiude: «Bisogna di necessitá che qui s’abbia una similitudine vissuta, Dante fu propriamente a Parigi». E quanto al tempo, considerando ciò che dice il Boccaccio da cui «non è da scartarsi senza validi motivi», lo indica al cadere del 1310 e al principio del 1311». Ma in una breve relazione di conferenza tenuta all’Ambrosiana da Francesco Orestano, nel n. del 26 aprile 1932 del Corriere della Sera (Una nuova interpretazione dantescaJ, si legge: «L’oratore ha rilevato nelle tre cantiche quattro diversi modi di concepire le anime; di piú nei primi 50 canti non v’è traccia alcuna della metafisica di Aristotile. Il primo timido accenno si ha nel XVII del Purgatorio; nel XXV si è in pieno aristotelismo e la terza cantica ne è poi la professione sistematica completa. Questo fatto ripropone anche un importante problema biografico: quando, dove, come e da chi Dante apprese la metafisica di Aristotile, e rimette in nuova luce l’ipotesi del soggiorno di Dante a Parigi»! (3) Della civile condizione dei romani vinti dai longobardi e di altre questioni storiche. Lettere inedite di C. Troya e di C. Balbo, con pref. di E. Mandarini, Napoli, tip. degli Accattoucelli, 1S69. [p. 373 modifica] allo studio di tutta quella serie di questioni storiche importanti e difficili che dovevano essere svolte nelle sue opere sul primo medio evo e sulla preparazione di esso. La materia che nelle lettere tratta doveva poi dall’autore essere ordinatamente esposta nel suo discorso: Della condizione de’romani vinti da’ longobardi e della vera lezione d’alcune parole di Paolo Diacono intorno a tale argomento, pubblicato dapprima, come 5 a parte del voi. I della sua Storia d’Italia, nel 1841, e poscia nel 1844, con osservazioni di Francesco Rezzonico ed appendice dell’autorei 1 ). Molte delle obiezioni che su non pochi punti della questione generale e delle particolari furono mosse alle conclusioni del Troya, furono dapprima presentate dal Balbo, nelle risposte alle lettere che pubblichiamo, e lo storico napoletano potè, quindi, prenderle in considerazione, discuterle, rielaborare il pensiero proprio, e determinarlo in modo piú preciso. Il Balbo dimostra subito pel Troya grande ammirazione ed altissima stima, ma fin dalla risposta alla prima lettera, (risponde da Torino il 19 novembre 18.30), chiede anche francamente maggiori chiarimenti, ed espone dubbi. Scrive, infatti: «i° La spiegazione da lei datami alle due leggi di Liutprando è ingegnosissima, e feconda poi di conseguenze. ( 2 ) Fra queste non sará certo a lei sfuggito il nome di Romagna, molto meglio giustificato cosi che in qualunque altra (1) Milano, Dalla soc. tip. de’classici italiani. (2) Le due leggi 37 e 74 di Liutprando tanto ricordate dal Troya, sono le seguenti: L. 37. — 1. De scribis hoc prosperimus, ut qui charlotti scripserit sive ad ledetti Lougobardorurti, quac aptúiima et pene omnibus nota est, sive ad legetn Domano» urti, noti aliter faciant, itisi quomodo in illis le gibus continetur. 2. Nam contro Longobat dorum aut Domano uni non scribatil. 3. Quod si nesciverint, intertogent alia; et si rem potuerint ipsas leges piene scire, non scribant ipsas chartas. 4. Et si aliter praesumpserit fattere, ccmponat Wigt igild suum, excepte si aliquid mter eonhbet tos convenerit. 5. F.t si unusquisque de lege sua descendere voluerit, et pactiones alque convcntioncs mter se fecerint, et atnbae partes consenso ini, islud non reputatili - conira legati, quod atnbae partes volontarie facilini. 6. Et liti qui tales chartas scripserint, culpabiles non inveniantur esse. 7..Va/M quod ad heteditandoci perlinet, per legetn scribant. L. 74. Si Doinanus homo tnulieretn Longobat dorimi tulerit, et mundiunt ex ea feceiit, et post eius decessum ad aliutn maritimi ambulava it, sine voluntate beredum prioris mariti, faida et anagrip non requiratur. Quia posi quatti marito Romano se copulavent, et ipse ex ea tnutidiutn fecent, Romana effecta est; et flit, qui de e matrimonio nascuntur, secundutn legetn patris Domani situi, et lege patns vivant; et ideo faida et anagrip minime componete debet qui catti postea tulli, siculi, nec de alia Dotti atta. [p. 374 modifica] ipotesi; rimanendo esso a questo modo precisamente dei soli paesi ai quali ella lascia l’uso delle leggi romane. Ma potrá ella dare a quelle due leggi una interpretazione veramente soddisfacente per sé stessa, indipendentemente dalla spiegazione per cosi dire estrinseca? Mi sembra specialmente difficile a intendersi fatta per romani stranieri al regno longobardo la legge 74 che spetta al mundio, uso tutto longobardo, che non doveva estendersi fuori del regno. Dice la legge che faida et atiagrip non requiratur dagli eredi del primo marito romano. Era egli mestieri dirlo se questi eredi non erano sudditi? Pare almeno che sarebbesi detto altrimenti. 2° La legge dei gargangi può indurre a credere, esistessero fin dal tempo di Rotari altri diritti distinti dal longobardo. Perché, sarebbesi egli fatta una eccezione cosi importante, cosi incommoda, cosi nuova per pochi avventizi? All’incontro se era eccezione giá fatta per altri, giá volgare, ella si capisce. 3 0 Ella risponde al noto argomento delle lettere di san Gregorio con due spiegazioni: I. Niuna di quelle lettere non può provarsi diretta a cittá longobarda, II. quando anche fossero, ciò non dimostrerebbe l’esistenza degli ordini in quelle cittá; tal parola sulla soprascritta non è che una formola dei libri diurni dei pontefici romani serbata a mal proposito. La prima ragione mi par molto buona; anzi tanto migliore che avendo nuovamente cercato di quelle lettere non vi ho trovata nessuna diretta a cittá che io sappia positivamente essere stata allora longobarda... Rispetto poi alla seconda ragione confesso che non la trovo molto forte. San Gregorio non era di quegli uomini tanto timidi di novitá, che non ardisse mutare un formulario; ed oltre all’aver mutato, se non m’inganno, il rituale della Chiesa romana, ei mutò certo appunto le relazioni di questa Chiesa col regno longobardo. Quindi se si scoprisse mai che una lettera di lui è chiaramente diretta all’ordine d’una cittá longobarda, questo mi parrebbe argomento bastante a provar 1’esistenza dell’ordine in quella cittá, e per conseguenza nelle cittá longobarde... 4 0 Parmi vi sieno parecchi esempi dei romani chiamati grandi o nobili nelle cittá longobarde. Or mi ricordo della bella Teodote, puellam ex nobilissimo Rotnanornm genere ortam, dice Paolo Diacono (V, 37). Or come avrebbero potuto dirsi nobili gli aldi o figliuoli di aldi? E da uno scrittore longobardo? 5 0 Ben accenna ella che l’uso delle professioni di legge incominciò solamente dopo Carlomagno. Tuttavia qualche specie di tali professioni o qualche uso supplente a quello pur [p. 375 modifica] dovette essere al tempo dei longobardi almeno pe’ gargangi della legge 390 di Rotari. Del resto delle professioni posteriori a Carlomagno, molte sono certamente di legge romana, e fatte in paesi dell’antico regno longobardo, molto lontani dalla Romagna. Ora vorrá ella supporre tutti questi professanti di legge romana venuti ultimamente da quella Romagna? Ovvero dire che Carlomagno concedette l’uso di quella legge nel regno longobardo? Ma trova ella memoria di tal novitá? E se non la trova, può ella assomigliare il regno longobardo con una legge unica, agli altri stati di Carlo dove giá si crede che fosse l’uso di molte leggi insieme? 6° Se gli ingenui romani furono senza eccezione ridotti allo stato degli aldi, dunque anche lo furono i cittadini, anche i non possidenti, anche i numerosi operai liberi, di che si trovano tante memorie negli ultimi e pur negli antichi tempi romani. Ma a tutti questi mal s’adatterebbe allora il nome di aldi, o almeno l’etimologia ch’ella approva. Ancora a costoro come sarebbe applicato il tributo del terzo eorum frugami Forse levavasi il terzo del loro lavoro, o del prezzo di questo? Ma ecco allora difficoltá e combinazioni di tributi indiretti, excises, gabelle, che mi paiono del tutto contrarie agli usi di tutti i barbari, forse senza eccezione. 70 Finalmente noto qui per memoria solamente, benché non mi paia difficile a sgomberare, quella nota difficoltá che viene dalla lettera dell’esarca a Childeberto (t. II, p. 61 della mia Storia) dove pare accennarsi una differenza di terre longobarde e romane» ). Cosa rispondesse il Troya alle obiezioni del Balbo si legge nelle lettere seconda e terza da noi riprodotte. Questi poi a sua volta risponde l’8 dicembre 1830, affermando che la seconda lettera da lui avuta gli ha dato ancor maggiore soddisfazione della (il La lettera con cui l’esarca chiede al re dei franchi aiuto contro i longobardi, dal Balbo pubblicata nella sua Storiti e da lui qui ricordata, termina cosi: «Sopra ogni cosa speriamo che nello scendere felicemente l’esercito de’ franchi, i romani per cui domandiamo vostri aiuti non saranno messi a sacco né tratti in prigionia; e che anzi farete rilasciare e restituire a casa quelli portati via per lo addietro. Cosi emendando il passato, dimostrerete quello che per l’avvenire abbiano i vostri a custodire. Ancora non fate incendiar gli edilizi affinché si conosca, come ella è una nazione cristiana che viene in aiuto e difesa d’Italia». Ed il Balbo fa seguir subito nella Storia queste parole: «Ed ecco qui una pruova che i romani, od italiani avevano terre e possessioni proprie nel regno longobardo; perché i franchi non aveano corso se non questo, né l’esarca si lagnerebbe de’ sacelli che fossero stati dati ai poderi de’longobardi». Balbo, Storia d’Italia, Torino, G. Pomba, 1830. [p. 376 modifica] prima, perché gli ha mostrato come anche il Troya «apprezzi al giusto valore le passioni attuali e gli storti giudizi che fanno storpiare da tanti la storia dell’ VIII secolo, le origini del dominio temporale, e in generale tutte le questioni dei papi». Gli ultimi scrittori tedeschi, ch’egli sta leggendo, diversi di paesi di lingua di religione, sono pure «per lo piu non che moderati», egli dice, «ma favorevoli a quelle mie opinioni. Che vergogna, che ignoranza non parrá la nostra, se non sappiamo nemmeno seguire il loro esempio». E passa poi alle piú particolari osservazioni fattegli dal Troya. Accetta di usare romani invece che italiani, e servi invece di schiavi. E nota: i° Il paragone dei romani con i crociati e gli ebrei «non par che stia. I crociati e gli ebrei eran prigioni trasmigrati, trasportati fuori del paese loro in quello del vincitore, e, pochi, eran tenuti da molti. All’ incontro i romani erano anzi essi a casa loro, sul proprio suolo; e in numero sterminatamente maggiore che i longobardi». Supposta 1 ’esistenza d’una lettera di Gregorio magno a qualche cittá longobarda coll’intitolazione Ordini et plebi sarebbe assurdo ammettere che fosse indirizzata ad un organo non esistente, e preferibile supporre che i romani, anche aldiati, avessero mantenuto la curia. 2° Non si vede la necessitá che vi fosse una concessione legislativa dei longobardi perché i romani mantenessero cittadinanza romana e diritto romano. Presso i longobardi dovette avvenire come presso i franchi, i burgundi, i visigoti, gli ostrogoti; i titoli di consoli e di patrizi presso alcuni re di questi popoli non significavano piú che quello di flavio portato dai re longobardi. 30 «... non massimamente dalla non ammissione della legge bavarese, si può dedurre che... non durasse la legge romana... I longobardi furono sempre pochissimi. Piú pochi ancora gli altri germani venuti con essi. Quindi non parvero degni né capaci di serbar legge diversa. Ma ad abolir le leggi dei romani potè ostare appunto la loro gran moltitudine...». In attesa d’aver dal Troya la «piú intrinseca spiegazione delle leggi 37 e 74 di Liutprando», il Balbo dichiara: «Confesso che su ciò, e sulla esistenza della legge romana anche nel caso che i romani fossero tutti ridotti ad aldi, io mi sono fatto in capo mio tutto un sistema alquanto diverso dal suo». Nella lettera del 21 gennaio 1831, dopo, cioè, la quinta del Troya, pare che il Balbo si accosti all’opinione dell’amico sulla non esistenza «dei romani ingenui (tranne le eccezioni)», ma pare anche che, immerso com’era negli studi degli scrittori tedeschi [p. 377 modifica] ch’egli cita (Savigny, Eichorn, Leo, Woigt, Praumer, Suden, ecc.) non sia per lui scomparsa ogni incertezza, e dice: «Io sono qui il piú capacitato delle sue ragioni, gli altri a cui, valendomi della sua licenza, ho mostrato le sue lettere, lo sono meno di me; ed ella n’ ha potuto aver una prova nell’articolo dello Sclopis inserito nell’ Antologia, lettomi da lui prima di mandarlo, e mandato a malgrado della mia protesta d’essere oramai piú della opinione di lei, che della mia stampatalo». E nella seguente lettera del 7 febbraio, quindi dopo la sesta del Troya: «E sia che la legge romana non fu altro mai che un sussidio (buonissima espressione) della longobarda. Ma chi mi prova che tal sussidio non fu usato mai prima di Rotari, mai tra Rotari e Liutprando, mai nei principi di Liutprando, prima della conquista delle provincie romane, e della promulgazione delle leggi 37 e 74? Chi mi prova che questo sussidio incominciasse ad usarsi pei gargangi, e per gli ecclesiastici, (questo, se ben intendo, è il sistema vostro) ed indi, s’estendesse ai longobardi, o non anzi che fin da principio, fin dalia conquista, fin dall’introduzione delle leggi non iscritte, cioè dagli usi longobardi, e contemporaneamente ad essi pur si usassero le leggi romane, quasi lateralmente, egualmente in tutto ciò che spettava ai romani cives o aldi, e sussidiariamente fin d’allora anche tra longobardi? E perché di questo cives ne volete voi fare un errore degli scribi, e noi prendereste voi anzi letteralmente come una pruova di romani non advenae, non ecclesiastici ma liberi e cittadini, come s’è inteso fin qui?»( 2 ). (1) Qui si riferisce il Balbo alla lettera del 15 novembre 1830 inviata dallo Sclopis al direttore déiV Antologia, intitolata: Intoino alle istituzioni longobardiche, ove faceva attcíie elogi al Balbo per l’interpretazione della voce «aldi». Sará superfluo ricordare che lo Sclopis della questione longobarda aveva trattato in una lezione tenuta l’S febbraio 1S2; a Torino riguardante particolarmente lo stabilirsi del popolo in Italia ed i suoi ortiini di governo; altre due lezioni sarebbero state da lui tenute s’egli non si fosse dedicato ad altri studi. (F. Sclopis, Ve’ longobardi in Italia, Torino, Starr.p. reale. iS 1-). (2) 11 Balbo nella Storia fi. II), dopo aver detto che i romani vinti, sotto Alboino, Clefi e i duchi, si trovarono in condizioni peggiori, per quanto la quantitá delle sostanze usurpate fosse la medesima che sotto Odoacre e Teodorico, per il modo molto peggiore con cui si procedette alle usurpazioni, e perché costretti a dare il terzo dei frutti anziché delle terre, si che nessuna proprietá e nessun uomo rimaneva libero, ritiene che colla restaurazione della monarchia i longobardi abbiati seguito l’esempio dei barbari predecessori, facendosi dare il terzo delle terre; e con ciò il Balbo mette in relazione il fatto, per cui «nel seguito delle storie e nelle leggi, [p. 378 modifica]

Quali fossero le opinioni degli studiosi che giá avevano pubblicato opere intorno alle questioni che il Troya affronta, risulta dai riferimenti e dai richiami che sono nelle lettere stesse che pubblichiamo, e da ciò che dovremo dire in seguito parlando delle discussioni intorno alle idee del Troya stesso. Solo ricorderemo qui come avesse contribuito a fare tali problemi piu presenti in Italia il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia del Manzoni, uscito la prima volta nel 1822. Ma la discussione si fece piú generale con la stampa del Discorso del Troya. Recensiva ampiamente il lavoro in un primo articolo, e ne discuteva in un secondo le conclusioni, il Rezzonico (*). Questi ritiene che il tributo dei vinti romani ai longobardi «... fu piuttosto segno di soggezione ed inferioritá nazionale che marchio di dipendenza servile da persona a persona, quale fu quella degli aldi»; perciò dura fatica ad ammettere che i romani resi tributari siano stati spogliati di terre, e non può «supporre troppo di leggieri che i longobardi, non contenti delle parziali usurpazioni a cui si erano abbandonati nei primi momenti della conquista, abbiano poi voluto e potuto aggiungervi poco dopo un’usurpazione generale di tutte le terre e l’assoggettamento individuale di tutte le persone». I conquistatori «anche dopo la conquista continuavano piú o meno a vivere a foggia di esercito; e quasi in campo collocati nelle terre dei vinti, da essi ricevevano l’alloggiamento ed il vitto...; il passaggio dall ’hospitalitas alla divisione delle terre riusciva molto agevole e quasi insensibile in un paese ed in un’epoca in cui le terre erano quasi tutte coltivate per mezzo di coloni addetti alla gleba, i quali pagavano e ne’documenti privati sopravvissuti, si trovano frequenti menzioni fatte di romani, ossieno italiani liberi, e di terre liberamente possedute da essi», Dal Sommario delia Storia d’Italia, di cui la prima edizione è del 1S46, non risulta che la discussione col Troya e gli studi degli storici stranieri e nazionali abbiano tolto del tutto il Balbo da quella specie d’incertezza o di prudenza di giudizio che pur appare nella Storia. Del resto basti riportare dal Sommario la conclusione a cui giunge: «Ad ogni modo essi (gli italiani) civilmente e politicamente rimaser certo servi molto piú che non sotto a’ goti. Di magistrati propri essi ebber tutto al piú alcuni giudici, dati forse anche qui dai vescovi, e sofferti da’ longobardi che non volean per certo imparar le leggi romane; ma non piú conti propri pari a’ grafioni, come sotto ai goti, e men che mai ministri romani, come Cassiodoro ed altri anche in Francia e Spagna».

(1) Giornale dell’I. R. Istituto Lombardo ecc., Milano, 1842, s. 1, 4; 1843, s. I, 6. Ripubblicato in appendice alla 2• edizione del Discorso del Troya. [p. 379 modifica] ai proprietari una parte determinata dei frutti, cosicché riusciva assai lieve mutamento se questi frutti si percepissero piuttosto a titolo di proprietá che a titolo di tributo». Non può spiegarsi secondo il Rezzonico il numero dei liberi non appartenenti alla schiera dei longobardi coi guargangi. Tale oscuritá ed incertezza sono poi nella questione del guidrigildo, che «pare... si debba astenersi dal fondarvi sopra alcun positivo sistema...; un guidrigildo proprio dovettero avere in generale i vinti romani, giacché la legge de scribis lo presuppone». E «... non sembra potersi ammettere quella sospettata impossibilitá della coesistenza delle due leggi; ma doversi piuttosto credere che la legge romana, conservata in vigore per la generalitá dei casi e specialmente per gli affari civili, cessasse in quel punto ove rendevasi incompatibile colle leggi e coi privilegi dei longobardi precipuamente nella materia criminale». Gravissimi argomenti che spingono ad ammettere in via di induzione la continuazione del diritto romano sono, per il Rezzonico, la gran massa di gente che vivono secondo la legge romana durante la dominazione dei franchi e la grande influenza che assai per tempo le leggi romane esercitano sulle leggi e sui costumi dei longobardi. E riguardo all’esistenza dei comuni romani, egli conclude affermando di non poter aderire né al parere del Trova, «che ammette soltanto un comune longobardo a cui si accostassero a poco a poco i romani emancipati, né all’opinione di Savigny o di Pagnoncelli che fanno assolutamente o quasi esclusivamente predominare nelle cittá il comune ed il popolo romano; ma essere tratto a sospettare che nella campagna abbia predominato un comune longobardo, e che in alcune cittá prevalesse il comune romano in altre il longobardo, e talvolta ambedue stessero a fronte l’uno dell’altro nella stessa cittá»! 1 ).

Entra pur sollecito a discutere delle questioni ripresentate dal Trova Gino Capponi, il quale le tratta sotto forma di lettera a Pietro Capei, a cui chiede anche l’opinione sull’argomento! 2 ). Il Capponi incomincia col notare come il famoso passo di Paolo Diacono: Poti) Al Rezzonico rispondeva, confermando le opinioni proprie, il Troya in Appendice al Discorso, ed all’ Appendice stessi, faceva Brevi cenni, in altro articolo del Giornale dell’/. R. /si. Lotnb. (t. VII II, il Rezzonico. L’uno e l’altro scritto furono ripubblicati nella 2* ed. del Discorso cit. (2) G. Capponi, Sulla dominazione dei longobardi in Balia, lett. 2 al professor P. Capei, in Arch. stor. il., t. 1, app., 1S42-44. [p. 380 modifica] pulí tatnen, ecc., nell’interpretazione del Troya, non abbia trovato fortuna neppure in Napoli, né presso un savio pensatore, Luigi Blanc», né presso Antonio Ranieri, che nel libro Istoria d’Italia da Teodosio a Carlotnagno, «acremente propugnò l’interpretazione contraria» (1). Egli non vuole «argomentare ad un tratto un’assoluta diversitá d’origine dall’essere i goti e pressoché tutti i primi invasori (come opina molto ragionevolmente il Troya) a noi venuti di verso l’Asia per dritto cammino, laddove sappiamo per certo, che i longobardi, popolo allatto settentrionale, ben cinque secoli innanzi l’entrata loro in Italia ebbero stanza presso il Baltico...», Invero le violenze con cui i longobardi nei primi anni si procacciarono terre a sufficienza costituirono un modo insolito d’imporre il terzo, modo che dovette tornare «agl’ italiani piú duro, e altresí rendere meno intrinseca la mescolanza de’ popoli». Il Capponi non accetta la lezione patiuntur del Troya. Crede anzi che nella restaurazione del regno, le condizioni dei romani «in qualche modo si avvantaggiassero». I longobardi divisero fra sé le possessioni degli italiani e questi furono assegnati a ciascun individuo o a ciascuna famiglia o a ciascuna tribú, «fuori di ogni comunanza legale con la nazione dominatrice». Mancarono «le istituzioni fondamentali capaci di confondere il nuovo popolo coll’antico». E poiché durante il dominio longobardo «la vita pubblica della nazione italiana fu tutta estinta... sarebbe da considerare solamente quali fossero le condizioni del vivere materiale». Dice il Capponi che «il destino dei tributari dipendeva per la maggior parte dalla benignitá de’ signori», e non crede «che dopo cessate le prime furie della invasione, i longobardi si comportassero molto aspramente cogl’italiani; e quella noncuranza di loro che apparisce dalle leggi» è per lui «indizio d’un popolo semplice, non addottrinato nelle finezze politiche; d’un popolo che non sa pacatamente ed a bell’agio sfruttare la possessione, e che non sa mantenersela». A lui i longobardi appariscono come una razza di valorosi, ma trascurati ed iinprovidi; feroci talvolta ma non pensatamente crudeli». E «per l’andamento naturale delle cose, non pochi» dei tributari «pigliarono qualitá di livellari, come portava la convenienza o la benignitá de’ padroni: di modo che i (1) Delle interpretazioni del passo di Paolo da parte del Troya parliamo anche piú avanti a proposito del Discorso del Manzoni. Il Troya ne tratta ai paragrafi XLV e CCLXXXVI e segg. del suo Discorso. [p. 381 modifica] livellari, ed inoltre gli affrancati, ed i maggiori artefici nelle cittá, formarono quello che si chiamerebbe terzo stato, e del quale pare al Trova di rinvenire le tracce nell’etá di Liutprando». Fin qui nella prima lettera; nella seconda dice che ai vinti romani «non può assegnarsi che uno stato intermedio tra libertá e servitú». Non crede però che la prova del non essere gli italiani liberi si debba dedurre dalla mancanza d’un guidrigildo per loro fissato dalla legge; crede invece «che i longobardi intorno alla condizione degl’italiani non provvedessero legalmente nulla». Dice che «tra gl’italiani le relazioni private di famiglia e di possesso, le case rurali e le usanze cittadinesche si governavano sempre come per l’addietro»; ricorda punti di leggi longobarde ove s’accenna a legge diversa, e non gli sembra che «altra potesse essere che la legge romana». Contrariamente al Troya, ritiene che i guargangi non fossero solo romani, ma anche rimasugli di orde barbariche venuti tratto tratto dalla Germania; e per lui la famosa legge degli scribi è un riconoscimento, non una formale introduzione del gius romano. E per quanto riguarda i giudici che la legge romana applicassero, dice «che è verosimile rimanesse un qualche simulacro delle prische forme, per le quali si eleggessero privatamente que’giudici inferiori; o che in luogo di questi fossero degli arbitri, rendendosi allora piú che mai frequenti i giudizi arbitrali de’ vescovi». Il Capei 0, a proposito del passo di Paolo Diacono, risponde che, virgoleggiandolo nel seguente modo: populi tamen, aggravati per langobardos hospites, partiuntur, egli lo spiega «come il Gibbon e molti altri i quali eransi fatti a interpretarlo; cioè, i popoli per altro (i tributari) aspreggiati con avarie piú gravi (aggravati) dagli ospiti longobardi, partirono; che è quanto dire, si videro costretti a partire o dividere le loro terre e pertinenze con quegli ospiti maledetti». E trae dalla prima questione che tratta «la conclusione: i° che tutti i liberi e cittadini romani d’ogni condizione, scampati alla furia o alla aviditá de’ longobardi, durassero ad esser liberi della persona, e non giá divenissero né aldi né censili; o vogliam dire presso che servi. Nondimeno la loro libertá fu per dignitá inferiore a quella dei longobardi; libertá di sudditi o provinciali, non giá di concittadini al popolo i P Capei, Sulla dominazione dei longobatdi in Italia, in Arch. stor. cit., app, II, Firenze, 1S45. [p. 382 modifica] vincitore... z° e in particolare poi che i romani proprietari di suolo, dopo essere per breve tempo stati semplici tributari ai longobardi per un terzo dei frutti di loro terre (suarum fmgutn), cessarono dal tributo e liberaronsi dalle avanie dei vincitori nel riscuoterlo, rilasciando ad essi una metá delle terre medesime; onde il piú ricco degl’italiani diventò si povero come il piú meschino e tristo dei longobardi». Per il Capei i terziatori de’ documenti non sono antichi proprietari ridotti alla condizione di aldi, ma coloni dei padroni di terre soggette a tributo, che in luogo e vece di questi consegnavano ai nuovi ospiti il terzo de’ frutti che nell’etá imperiale avevano consegnato al fisco. Quanto all’esistenza della legge romana, ritiene che il diritto pubblico e criminale abbia avuto fine alla venuta dei longobardi, e che l’editto di Rotari debbasi ritenere «pressoché tutto, e di fatto almeno» territoriale. Crede alla «durata del gius romano privato appresso ai vinti italiani». Il riapparire del popolo vinto non potrebbe attribuirsi a pochi romani di un paio di cittá dell’ Esarcato, «o a pochi romani delle Gallie o delle altre italiche provincie, che, prima in figura di guarganghi e poscia dietro le orme di un altro conquistatore, sarebbero venuti a dimorare nelle parti d’Italia giá dai longobardi tenute». Tutte le ordinazioni dell’editto di Rotari spettanti al guidrigildo non riguardano i soli longobardi, ma tutti i liberi come prova con diverse altre la legge 377 «in cui si comanda che qualora venga ucciso uno sculdascio o un attore del re, «si estimi come uomo libero secondo la sua nazione», e se ne paghi il guidrigildo intero». Le leggi dei franchi sono contemporanee alle loro vittorie, mentre l’editto di Rotari è di 76 anni dopo la conquista, quindi «il principio intorno alla composizione delle offese recate alle persone dei vinti italiani doveva essere giá stato diffinito dalle usanze dei vincitori o dalle leggi dei re predecessori, né... occorreva che specificatamente si ripetesse dal longobardo legislatore». Infine «unica novitá» della legge degli scribi «è di aver Liutprando regalmente autenticato e regolato l’uso delle due diverse schiatte abitatrici del regno, di abbandonare ne’ privati negozi la propria legge per seguitare quella dell’altro popolo». E quanto alle magistrature ritiene il Capei che nelle cittá poterono «serbarsi quelle... di epoca piú recente o imperiale, la cui elezione dipendeva o in tutto o in parte almeno dal beneplacito sia dell’ imperatore, sia dai rettori delle provincie, ai quali succedevano i re, i duchi ed i gastaldi [p. 383 modifica] dei longobardi. Tali sono, a cagion d’esempio, il loci servator, e il defensor civitatis s. loci». E «appunto... perché i gastaldi soprintendevano innanzi tutto ai romani, veggonsi tal fiata nelle carte gastaldi che sembrano di romana stirpe... i quali per certo avrebbono potuto di persona amministrar giustizia ai vinti italiani». Al Capei s’accosta in un punto il Manzoni (), nell’interpretazione cioè della frase ut tertiam parlati suarum fnigum; solo, però, in quanto si debba ritenere che Paolo Diacono abbia voluto riferirsi a frutti, e quindi anche a fondi, che erano allora dei romani. Poiché il Manzoni per le condizioni dei vinti romani distingue due momenti che cosi rappresenta: «Da principio, con la conquista barbarica un tributo barbarico; poi, con lo spoglio e con la strage di molti, lo spoglio e la servitú degli altri... Ma chi furono precisamente quelli a cui, per grazia e invece della morte, toccò la servitú? Il rimanente, risponde Paolo,... di quelli ch’erano stati assoggettati all’imposizione del terzo». Il Manzoni non accetta le due interpretazioni del Trova del passo di Paolo, ed alla prima, che ammette una nuova divisione dei romani fra i vincitori al ristabilirsi della monarchia, risponde: «Che i tributari fossero stati ridotti a una servitú piú bassa e piú gravosa, s’intenderebbe; ma come potevano esser divisi di nuovo, quando erano giá diventati proprietá di tali e tali longobardi?»; e per la seconda, in cui il Troya sostituisce a partiuntur la lezione paliuntur, ritiene la lezione errore d’un amanuense e nota la contraddizione che ne verrebbe fra tamen e patiuntur\ nondimeno... patirono ( 2 ). Ma per lo piú il Manzoni, col Troya, si trova d’accordo, e dell’opera di questo grandemente si giova nella seconda edizione del suo Discorso per confortare con nuovi argomenti le affermazioni proprie ed aggiungere prove nuove. Per lui «la conquista, fece che gl’italiani o, per parlar piú esattamente, (1) A. Manzoni, Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, 2 1 ed., 1845.

(2) Il Manzoni considera populi aggravati come genitivo, e cosi traduce il passo: «I duchi cedono al re la metá delle loro sostanze; e nondimeno dividono tra i longobardi gli ospiti del popolo aggravato»; dá ad hospites il significato di «poveri erranti, senza ricovero», e in questo modo interpreta la frase: «e nondimeno provvedono a quel miserabile sciame di sbandati, distribuendoli tra i longobardi, cioè assegnandoli ripartitamente e proporzionalmente ad essi, da mantenere e da ricoverare sulle terre e nelle case delle quali erano diventati possessori di fatto». [p. 384 modifica] una parte degl’italiani, cessassero d’appartenere ad uno stato, non che ne diventassero uno». E trattando se agli italiani era stata lasciata la facoltá di vivere con la legge romana, nota: «È certo che lo stabilimento d’una nazione sovrana e armata in Italia creò, tra questa e i primi abitatori (poiché non furono scannati tutti), delle relazioni particolari; e queste erano regolate, come si fosse, dai soli vincitori. Quando si dice dunque che gl’ italiani avevan la loro legge, non s’intende che questa fosse il limite della loro ubbidienza, e una salvaguardia della loro libertá; ma si badi che, oltre di quella, n’avevano un’altra, imposta da una parte interessata. Il non trovarla scritta, il non conoscerla noi, nemmeno per tradizione, può lasciar supporre che fosse una legge di fatto, sommamente arbitraria ed estesa nella sua applicazione, e ad un tempo terribilmente semplice nel suo principio». E piú avanti: «Riepilogando il detto fin qui, avremo: che una parte della legge romana cadde da sé; che la parte di legge conservata non esentava coloro che la seguivano da ogni altra giurisdizione del popolo padrone; che la legge stessa rimase sempre sotto l’autoritá di questo; e che da esso furono sempre presi i giudici che dovevano applicarla».

Dall’opinione del Trova e da quella del Manzoni s’allontana il Tommaseo? 1 ), non tanto, però, perché ammetta che le condizioni dei vinti romani sia stata, materialmente almeno, migliore: egli pensa anzi che essi, tributari, «dovevano da sé provvedere a tutti i dispendi della vita civile; che la distinzione delle due leggi romana e longobarda non era che un modo di esagerare ai deboli le gravezze, e che le cause miste, le quali dalla prepotenza potevan essere moltiplicate, a talenti, le spese del processo, e i guidrigildi infiniti, non pur criminali ma civili, saranno stati, com’era debito, pagati dal debole». Ma egli ammette la doppia legge ed il doppio magistrato, anche se vede in essi «una miniera inesausta alle voglie longobardiche», ed è naturale che veda anche, dato quel che premette, «il deposito, o come direbbe un ducentista, l’arcile delle italiane franchigie». Ed afferma che «divisi come bestiame, ceduti, angariati, vilipesi, non persero però mai la consuetudine del governarsi da sé, del fare famiglia, dello stringersi nel piccolo comune come in catacomba disagiata ma (I) N. Tommaseo, Intorno ad un passo disputato dí Paolo Diacono, in Arch. stor. it., t. VII, App., Firenze, P. Vieusseux, 1849. [p. 385 modifica] sacra». Egli dice che i longobardi lasciarono «a’latini il dovere del municipio», e che ciò facendo, «ne lasciarono insieme il diritto; diedero una fiaccola che ardesse perpetua nella lunga notte settentrionale onde questo cielo era ingombro» (*). In diverse opere e diffusamente trattò delle questioni intorno a cui riferiamo Francesco Schupferl 2 ), il quale a proposito del passo di Paolo Diacono: «populi tamen», nota che son frasi «il cui valore, chiaro e preciso in quel tempo, mal si potrebbe oggi valutare». Egli pensa «che ai tempi di Autari, appunto dopo restaurato il reame, si compiesse la partizione tra gii ospiti longobardi, press’a poco come la partizione iniziata da Odoacre venne compita soltanto da Teodorico parecchio tempo dopo. Forse restavano i piccoli possessori di terre, certo rimanevano i plebei che non avevano terre, ed era naturale che, in cotesto riordinamento del regno, si pensasse anche ad essi, assoggettandoli essi pure agli hospites longobardi». Ma egli non nega, come il Troya e 1’ Hegel ed altri che si son messi «sulle loro traccie» la liberta dei romani: perché da designazioni che si trovano nell’editto di Rotari (sicut adpretiatus fuerit; qualiter in angargathungi i. e. secundutn qualitatem personae; secundum nationem suatn seu generositatem) «appare chiaro che anche i romani potevano avere un guidrigildo, e veramente attivo, ben distinto da quello dei servi e aldi, che tornava solo a prò dei padroni. Ma né tampoco l’onere di un tributo può dirsi incompatibile con la libertá; il significato che la voce tributario aveva costantemente presso i barbari, e che ebbe giá presso i romani, era quello di un uomo che pagava un tributo; e poteva accennare tanto a un rapporto di diritto privato quanto a un rapporto di diritto pubblico». E infine, «Paolo ha pur rilevato, che i vinti furono divisi tra gli ospiti perché pagassero il tributo ai longobardi; cioè non a questo o a quello, ma a tutti, ossia alla nazione. Che se gli (1) Il Tommaseo, ricordando come il Capponi sospeiti, non affermi però, che i longobardi fossero progenie slava, desidererebbe prove per ciò che il Capponi arguisce: «che la longobardica sia forse un misto delle due nazioni», e conclude: «Dal ramo germanico ebbero forse i longobardi l’eterodossia e la ferocia, dallo slavo la condiscendenza e la discordia; da entrambi il valore: come germani incorsero ed uccisero; come slavi lasciarono vivere e s’accasarono». (2) F. Sciiupfer, Delle istituzioni politiche longobarde, 1S63; Aldi, liti e ro mani, in Enc, giur. it., I, 2, 1S92; e: Il diritto privato dei popoli germanici, Cittá di Castello, Lapi, 1907. [p. 386 modifica]

386 CARLO TROYA hospites Io dovevano riscuotere per la nazione, tali non potevano essere i privati, ma alcuni capi od ufficiali longobardi a cui i vinti sarebbero stati assoggettati come ad ospiti: forse i gastaldi, la cui radice gast ricorda appunto V hospes». L’uso della legge romana che «si sa positivamente» essere stata presso i vinti nei rapporti fra loro, «è una prova di libertá»; e lo Schupfer è convinto che questi vinti «tranne la dipendenza», che egli ammette, «in faccia al diritto pubblico..., nel resto hanno conservata intera la loro condizione di uomini liberi». Non sopravvisse il municipio, ma neppure vuol asserire lo Schupfer «che siano stati messi a parte della cittadinanza dei vincitori. Certamente la esistenza politica di questi vinti non fu quella dei longobardi», il re dei quali mantenne i diritti che avevano avuto gli imperatori, si che la condizione politica loro si conservò pressapoco com’era stata sotto l’impero. Essi erano sudditi, non cittadini, perché tali nel vero senso della parola erano solo i longobardi; potranno essere stati oppressi (e Paolo Diacono ciò nega) «ma ad ogni modo la libertá fu salva»(*). Chi piú s’è accostato all’opinione del Troya, ed anzi, come ha notato il Romano( 2 ) «è (stato) anche piú reciso» dello storico napoletano giudicando del modo severo con cui i longobardi si sarebbero comportati verso i soggetti, fu l’Hartmann ( 3 ). Ed infatti questi afferma che i longobardi trattarono i romani come cosa di conquista, che i vinti furono espropriati dei beni propri, ed i coloni, i soli risparmiati, con i servi, nelle campagne, diedero ai longobardi quei tributi che prima avevano dati ai romani; come nelle cittá una parte della popolazione operaia, la sola risparmiata insieme cogli schiavi, divenne tributaria dei longobardi, come lo era stata dei romani ( 4 ).

(1) Le idee dello Schupfer furono sostanzialmente accolte dal Crivellucci ( Le chiese cattoliche e i longobardi ariani in Italia, in Studi storici, IV, 405), il quale dice che i vinti romani perdettero «il beneficio maggiore che un popolo possa avere, l’uguaglianza civile e politica», ma che materialmente, dopo le prime spogliazioni che colpirono soltanto la vecchia nobiltá e i ricchi, «si ha ragione di credere che in paragone del governo greco, se ne avvantaggiassero». (2) G. Romano, Le dominazioni barbariche in Italia (395-1024), 1. Ili, c. Ili, Milano, F. Vallardi. (3) Hartmann, Geschichte Italiens, II.

(4) All’Hartmann fa diverse osservazioni il Cipolla (Cipolla C., Della supposta fusione degli italiani coi germani nei primi secoli del medioevo, in Rend. della R. Acc. dei Lincei, s. V, voi. IX, f. 5, 6 e seg.). Il quale trova una contraddi[p. 387 modifica]

Meglio il Miliari (0 distingue nettamente piú momenti del dominio longobardo e nota per ciascuno di essi una diversa condizione dei romani sottomessi. Da principio la venuta dei longobardi, «non ostante la violenza della conquista, assai poco contrastata del resto», avrebbe «portato qualche sollievo, liberando le popolazioni dalla insopportabile oppressione fiscale dei bizantini, costituendo una forma piú stabile di governo, dando una maggiore sicurezza». La divisione delle terre si fece poco dopo, ed «è possibile supporre che i vincitori incominciassero ad impadronirsi dapprima solo di quelle che dai goti erano passate al fisco bizantino, e del danaro da essi raccolto». Ma, «le cose, durante l’interregno, peggiorarono assai», ed i duchi, «ciascuno a suo modo, taglieggiarono assai». Dei ricchi possessori di terre alcuni furono uccisi ed i longobardi s’impossessarono de’ loro beni, gli altri furono costretti a dare il terzo de’ frutti. «E questo», dice il Viilari, «possiamo osservare, era peggio che dare un terzo delle terre, perché non restava agl’italiani nessuna libera proprietá». Con la restaurazione della monarchia, restava sempre ai duchi un terzo delle terre possedute dai romani; ed «essendo poi negli ultimi anni cresciuto non poco il numero delle provincie occupate dai longobardi, è assai probabile che si procedesse ad una divisione delle nuove terre, a vantaggio di coloro che avevano dovuto cedere al re parte dei propri averi». Il Villari (a differenza di ciò che pensava lo Schupfer, il quale riteneva che Paolo Diacono torni oscuro a noi, ma per espressioni chiarissime al tempo suo) crede che forse lo stesso storico longobardo conoscesse imperfettamente l’argomento a cui si riferiva, «essendo vissuto due secoli piú tardi», e conclude che non può dedursi dal passo: populi tamen, ecc., «che i romani non solo peggiorarono assai la zione fra ciò che dice l’Hartmann asserendo che giá dal IV secolo la nazionalitá italiana fosse costituita da una miscela di schiatte e che i barbari in grosso numero si fossero costituiti sul suolo italico, e alcune frasi in cui l’Hartmann afferma che le popolazioni germaniche trovavano nel clima italiano un nemico mortale, per cui esse vi si andavano, con maggiore o minore rapiditá, estinguendo, per lasciar posto soltanto agli elementi indigeni. E nota poi un’altra contraddizione deU’Hartmann, quando questi dice che i romani furono espropriati senz’altro dei loro beni, ed aggiunge poi che se anche i longobardi fecero dei martiri tuttavia furono in generale tolleranti.

(1) P. Villari, Le invasioni barbariche in Italia, Milano, Hoepli, 2» ed., 1905. (La prima edizione è del 1900). [p. 388 modifica] loro condizione, ma furono ridotti allo stato di schiavi o quasi»; poiché questo contraddirebbe alle parole dello storico. Ma il Cipollai»), dopo aver notato che nei tempi trascorsi era comunemente accettata l’opinione che gli italiani fossero una mescolanza di antichi latini e di invasori germanici, ed aver detto che tanto crebbe la potenza dei Germani nell’amministrazione nell’ultima etá dell’impero che fra i membri del senato essi erano assai numerosi! 2 ), e come gli italiani siano rimasti «in qualche maniera» estranei alla lotta fra goti e bizantini, aderisce all’opinione del Manzoni: «che la politica ostrogota, fondata sulla conservazione della individualitá distinta dei due popoli, fu per necessitá anche la politica dei longobardi». Ma afferma anche che «l’accostamento fra longobardi ed indigeni fu per altro piú forte, che non fosse stato fra indigeni e goti, ancorché tutto faccia credere che la fusione delle due stirpi germaniche, intuita dal Manzoni, sia veramente un fatto storico». Dalla condizione che i longobardi fossero hospites «secondo il diritto militare», e che l’ordinamento militare fosse «la base dell’ordinamento civile, la condizione civile dei romani... sofferse. L’amministrazione provinciale e la comunale del tempo classico avevano perduto assai della loro efficacia fino dall’etá ostrogota. Può facilmente credersi che esse siano coi longobardi definitivamente cadute. Certamente l’editto di Rotari e le prescrizioni dei re posteriori ammettono la persistenza della libertá personale, ancorché in un grado che è difficile apprezzare» ( 3 ). E parlando dell’infiltrazione del diritto romano nelle leggi longobarde, e dei raffronti fatti dagli studiosi di diritto, il Cipolla dice che «è lecito dubitare che i critici abbiano forse talvolta esagerato in siffatti raffronti, ma non si può porre in dubbio che, almeno dopo l’inizio del VII secolo, realmente ci sia stato un contatto abbastanza forte fra la tradizione giuridica nazionale dei longobardi e quella del popolo civile sopra il quale essi comandavano...». Pel Cipolla, la conversione (1) Op. cit.

(2) Ricorda a questo proposito la monografia di V. Di Gianlorbnzo, / barbari nel senato romano, ecc., in Studi e doc. di storia e diritto, XX, 127 segg., ove l’argomento viene trattato.

(3) A questo proposito il Cipolla ricorda, con altri storici che giá abbiamo richiamati, Th. Hodgkin, Itaty and her invaders, VII, Oxford, 1899, il quale ammette che il romano si trovasse sotto re Desiderio in migliore stato che non sotto Alboino. [p. 389 modifica] dei longobardi al cattolicesimo non ha segnata la fusione dei due popoli, e neppure tale fusione era avvenuta alla fine del regno longobardo; soltanto «in qualche punto erasi determinato un ravvicinamento; i longobardi... avevano accettato dai vinti qualche principio giuridico; avevano forse dato alla organizzazione dello stato alcunché dell’aspetto romano; ne avevano adottato qualche consuetudine. Ma la divisione netta e precisa tra i due popoli erasi mantenuta». E per quanto riguarda la durata del diritto longobardo, il Cipolla conclude cosi: «Il diritto longobardo accompagnò gli ultimi residui del popolo, fino al loro completo assorbimento nella massa preponderante della popolazione latina» (*). Pure ampiamente tratta dell’argomento Giacinto Romano (*). Egli, riportati i due controversi passi di Paolo Diacono, fa propria l’opinione dell’ Hegel, che essi «hanno servito piuttosto ad oscurare la questione che a rischiararla». Nota come, fatta eccezione del Troya e del Manzoni, «per citare i piú noti», in generale gli studiosi italiani siano «tutti inclinati ad ammettere che i romani furono liberi, d’una libertá piú o meno condizionata; viceversa da C. Hegel a L. M. Hartmann, è opinione dominante in Germania che i longobardi ridussero gl’italiani alla condizione di aldi». Ed esposta l’opinione dello Schupfer, si chiede se il (1) In un altro suo scritto (Per la storia d’Italia e dei suoi conquistatori, Bologna, Zanichelli, 1855), il Cipolla, riferendosi al documento, edito dal Troya, dell’ottobre 746, in cui si ricorda come YValprando, vescovo di Lucca, aveva immesso nei possessi della chiesa di San Pietro in Mosciano certo prete Lucerio cum consetisu Rat petti et Barbuta centenariis, vel de totani plebern congrecata, osserva: «Qui i centenari appariscono quali officiali del comune longobardo, per adoperare la frase del suo editore, il Troya, che a dir vero può parere non poco ardita. Parlare di comune nel sec. VIII sembra, ed è forse in fatto, una inesattezza per lo meno. Se esistevano cives al tempo longobardo, può ammettersi tuttavia che una qualche organizzazione popolare si venisse fin d’allora formando, e ciò è tanto piú a presumersi in quanto che nella prima etá carolingia abbiamo ormai evidenti i segni dell’interiore lavorio, che da lontano veniva preparando quello che non fu l’opera di un giorno, il Comune. Il Troya intende ad ogni modo, di parlare degli officiali della gau longobarda. L ’ordo romano, nel suo pensiero, sarebbe sostituito d ii centenari longobardi. Qui faccio le mie riserve davvero, poiché non è affatto chiara l’origine, neppur remota, del nostro comune dall’organizzazione romana. L’origine ideale dal principio romano sta bene; ma l’origine effettiva da una determinata amministrazione antica, è tutt’altra cosa. Volendo abbondare ne! senso del Troya, si potrá tutt’al piú concedergli che la tradizione dell ’ordo fu accettata e rinnovata dalle nuove magistrature». (2) Op. cit. [p. 390 modifica] quadro da questo delineato «piuttosto che all’Italia longobarda del VI e del VII secolo, non convenga all’Italia del sec. VIII, quando le mutate relazioni tra longobardi e bizantini, la frequenza de’ matrimoni, l’unitá religiosa e l’azione sempre crescente della civiltá romana, modificando sensibilmente i rapporti tra conquistati e conquistatori, permisero al diritto dei vinti d’insinuarsi tra’ vincitori e alterare le primitive sembianze dello stato longobardo». Manca ogni documento che dimostri 1 ’esistenza anche d’un solo proprietario romano che viva con la propria legge, o l’uso pubblico della legge romana prima di Liutprando. Il quadro poi tracciato dall’ Hartmann è, per il Romano «a tinte troppo rigide ed uniformi, perché la conquista longobarda non penetrò, non si svolse in modo eguale dappertutto, e il modo potè variare a seconda delle condizioni locali e delle maggiori o minori difficoltá e resistenze che incontrò. Come non tutti i longobardi divennero egualmente proprietari, cosi non tutti i possessori romani furono uccisi o scacciati, né tutti i liberi vennero ridotti alla condizione di aldi». I romani delle localitá che si diedero ai longobardi per trattati è probabile che conservassero la loro libertá; cosi coloro che passarono dalle terre bizantine alle longobardiche, e certo gli ecclesiastici. Tutti costoro, però, divenivano senz’altro longobardi, e vivevano secondo le leggi di questi.

Non dello stesso parere è il Salvioliri), poiché egli ammette che ai romani sia stato lasciato, colla libertá e le terre, l’uso delle loro leggi; ma afferma: «bisogna però intendere ciò in un senso limitato, cioè nel senso che rispettarono il diritto romano nelle relazioni dei romani tra loro, ma che in tutto ciò che concerneva il diritto pubblico, penale e procedurale sottoposero i romani all’editto, il quale cosi ebbe per alcuna parte carattere territoriale. Ciò spiega perché l’editto sia chiamato lex italica, consuetudo regni, perché quanti vivevano nel territorio longobardo dovevano rispettarlo nei loro rapporti collo stato e nelle loro relazioni coi vincitori». Il diritto romano fu poi riconosciuto esplicitamente coll’andar del tempo, e ciò è provato dalla legge de scriòis del 727.

Un giudizio generale dell’opera storica del Trova, e dell’importanza sua, poiché ne considera pressoché tutta la produzione. (1) Storia del diritto italiano, Torino, U. T. E. T., 8» ed., 1931. [p. 391 modifica] e pone in rilievo, con il carattere dell’uomo, i principi dello storico, e ne fa quasi il capo d’una scuola storica, fu dato da Benedetto Croce (J). Questi, ricordato come il Manzoni avesse dissipato quella sorta d’idillio che s’era prima ritenuto si fosse stabilito fra longobardi vincitori e romani vinti, mettendo in dubbio «T immaginata rapida fusione» fra i due popoli, dice come proprio il Manzoni avesse fatto vacillare la teoria che guardava i longobardi «con ammirazione e rimpianto come la caduta speranza di una forte Italia indipendente, e si era portato a dare altro giudizio sull’opera che i papi spiegarono di fronte ad essi». E nota il Croce: «Ciò che pel Manzoni fu solo un «episodio storico» divenne il compito di tutta la vita di Carlo Troya, che mori senza portarlo al termine prefisso». Il Croce, riportando passi dalle opere del Troya, in cui piú si rivela l’animo dello storico, scrive: «Si vede. quale animo ardente avesse il Troya, e come in quella sua concitazione, egli venisse presentando la storia per immagini vive e in grandi scene e gruppi maestosi»; e ricorda come «l’astronomo padre Piazzi, che lo ebbe a sé accanto giovinetto» avesse «vaticinato in lui che sarebbe riuscito o un gran poeta o un grande storico». Rileva il Croce come «ammirevole» sia il vigore polemico della sua prosa e come «certi suoi tratti scultori» rimangano «fissi nella fantasia»: e parlando degli storici maggiori della scuola cattolico-liberale dice che «lo spirito del Capponi era meditativo, di squisita sensibilitá estetica e morale quello del Troya... tra poetico e religioso, rivelatore della religione della stirpe. Cesare Balbo fu diverso dall’uno e dall’altro, sebbene dell’uno e dell’altro partecipasse l’indirizzo politico, e con l’uno e con l’altro fosse in ispirituale scambio di pensieri e di propositi». Nota ancora come tale scuola abbia avuto gran favore nel suo tempo e nel periodo consecutivo, ed afferma: «La tendenziositá della scuola cattolicoliberale era duplice... verso la difesa della fede religiosa e verso la difesa del sentimento nazionale; sebbene le due tendenze confluissero in una mercé l’immaginosa concezione dei rapporti del papato con l’Italia». Ma guardando il «lato positivo, quello per il quale quegli scrittori fecero avanzare la scienza storica» si vede che «erano essi, si, uomini di passione e di fede, avvolti nella (l) La storiografia in Italia dai cominciamenti del secolo decintonono ai giorni nostri, VI. La scuola cattolico-liberale c la storia d’Italia e del mondo, voi. I, p. 125 segg. (La Critica, a. XIV e segg.). [p. 392 modifica] sfera luminosa dei loro ideali; ma erano anche uomini di meditazione e di pensiero, di esperienza politica e morale, eruditi, studiosi, indagatori». E dice ancora il Croce che «agli storici di quella scuola si deve l’aver data opera, rischiarati dal Vico e dal moto recente delle idee in tutta Europa, a investigare la vita sociale d’Italia...; e questa storia sociale d’Italia intraprese il Troya». E dopo aver notato che «moltissime sono» le costruzioni ed i giudizi degli storici cattolico-liberali «chela scienza ha accettati e che, mutatis mutandis, tutti ora ripetiamo», conclude: «Il Troya, certamente, come il Manzoni, reagendo contro idee convenzionali, aveva finito quasi con l’odiare personalmente i longobardi; ma, ciò nonostante, molti tratti che egli notava, erano veri e sono rimasti, e, quando non sono rimasti come sicuramente sicuri, agitano sempre la mente come dubbi gravi»(0. Ili Carlo Troya, lo studioso de’ problemi storici dell’antichitá e del piú remoto medioevo, che a tali studi era guidato da forza d’amore a questioni fondamentali per la conoscenza della storia d’Italia, e (i) Basterá appena ricordare, che alcuni punti delle lettere del Troya al’Balbo in cui non si discutono questioni storiche medievali, rispondono a confidenze personali o ad espressioni di sentimenti o a proposte del Balbo al Troya. Cosi nella «Lettera quinta» del 15 del 1831, questi risponde aH’aniico torinese, che il 26 dicembre 1830 gli aveva dato notizie di sé e del proprio passato, ed anche della propria nomina a segretario della giunta istituita dopo l’annessione degli stati romani all’impero napoleonico. Il Balbo aveva scritto: «Me ne dolsi, me ne desperai, non celai nemmeno molto il mio dolore, ma non dissi quel —no, non andrò, — che avrei dovuto dire. Questa è la sola colpa di mia vita, che conobbi allora, che conosco, e riconoscerò sempre». E nella «Lettera sesta» il Troya rispondeva ad una proposta del Balbo e di amici di questo riguardo alla pubblicazione delle lettere sulla condizione dei romani sotto i longobardi. Il Balbo, poi, gli scriveva il 7 febbraio 1831: «Badate, che io nel confortarvi anch’io a lasciar accademizzare e pubblicare le vostre lettere, parlai piú delle future da me domandatevi che delle passate. Queste, compresa l’ultima del 31 gennaio, utili a me, ma giá difficili ad intendersi da me, che bene o male, molto o poco, ho pur lavorato sul medesimo assunto; queste dico, (e vedete quanto poco io faccia complimenti) non sarebbero stampabili se non postume, che Dio ce ne guardi gran tempo». Sará poi opportuno tener presente, anche a proposito del carteggio del Troya e del Balbo, delle questioni che vi si trattano, e dell’accoglienza che le opinioni del primo avevano fra gli studiosi a Torino, R. Zagaria, Gli amici torinesi di C. Troya, in Rassegna star, del Risorgimento, a. XV, luglio settembre 1928. [p. 393 modifica] per ciò stesso ardue ed oscure (»), contribuiva a fondare in Napoli, in un tempo che sembrava esigesse anche dagli uomini di scienza una attivitá pei problemi immediati del presente, il giornale II tempo. Il primo numero di questo giornale «quotidiano, politico e letterario» usciva il 21 febbraio; è superfluo notare che si era ad undici giorni dalla promulgazione della costituzione. Il comitato di direzione era composto del Trova, di Saverio Baldacchini, di Achille A. Rossi, di Camillo Caracciolo e di Ruggero Bonghi (*). Il programma enunciato dal giornale era del tutto conforme alle idee neo-guelfe o liberali-cattoliche o giobertiane, e moderatissimo: infatti si diceva: «La concordia della libertá e della religione, l’indipendenza sovrana degli stati italiani, collegati a difesa della nazionalitá, non ad offesa de’ diritti di alcuno, l’incremento della civiltá cristiana, la quale ha a giungere anche piú oltre nelle riforme sociali che non gridano le sette, ma per sentiero diverso, la santa guerra contro le esorbitanze di alcune opinioni oltremontane, l’esplicamento intero della libertá stessa..., questa è la causa che la presente effemeride prende a difendere». Nello stesso numero si promettevano alquanti articoli del Troya intorno «alle quistioni politiche attuali della Sicilia», poiché s’affermava: «I piú gravi interessi non pur dello stato nostro ma d’Italia, interessi di nazionalitá, e d’indipendenza ora si agitano nella quistione della Sicilia».

Di questa «questione della Sicilia» sosteneva una soluzione alquanto diversa e con diverso spirito dai sentimenti e dalle vedute del Troya il padre Gioacchino Ventura, siciliano residente a Roma ed ex generale dei teatini. Il primo opuscolo da lui pubblicato ( 3 ) porta nella dedica a Ruggero Settimo «presidente del (1) li Mamiani, a proposito degli studi storici del Troya intorno alle et: piú remote, disse: «... a Carlo Troya non giunsero mai i tempi fortunati di Nerva e di Traiano da poter narrare come l’annalista romano con sicurezza e quiete le miserie trascorse; quindi si fe’ a raccontare etá remotissime e non piu sospette ai regnanti, sperando di essere tra le sue ptrgamene dimenticato e in parte ancora dimenticare sé stesso». Carlo Troya, discorso del conte Terenzio Mamiani ministro della pubbl. istruz, letto alla reale Accademia della Crusca nell’adunanza solenne del 2 di settembre 1860. (z) Si possono leggere nell’opera citata del Del Giudice anche i nomi dei redattori straordinari.

! 3) La questione siculo nel 1848 sciolta nel vero interesse della Sicilia, di Napoli e dell’Italia dal Reno padre don Gioacchino Ventura, ex generale dei [p. 394 modifica] quarto comitato di governo in Sicilia» la data del 12 febbraio 1848 e può presumersi che nou fosse ignoto al Troya, se non quando scrisse il primo articolo, almeno in seguito, dato il carattere di propaganda dell’opuscolo; certo al Troya ignota non poteva essere la corrente di opinioni di cui il Ventura si rendeva interprete. Nel titolo stesso del primo paragrafo è enunciata la tesi che il Ventura sostiene: Antico dritto della Sicilia ad avere una costituzione sua propria; poiché il programma suo è che nella lega degli stati italiani che si costituirá, la Sicilia debba entrare come parte a sé; mentre a Napoli «si vorrebbe spogliare definitivamente quell’isola di un regime suo proprio, di un suo particolare parlamento, e ritenerla nella dura ed umiliante condizione cui è stata da trentadue anni ridotta per una misura tanto dispotica quanto insensata: giacché la Sicilia non si rassegnerá mai ad essere nulla piú che una baronia, un feudo del ministero napolitano». Rievoca il Ventura la storia siciliana rifacendosi da re Ruggero, per affermare che con l’abolizione della costituzione del 1812, abolizione fattasi per «semplice decreto» che dichiarava «senz’ai tra forma, senz’alcuna ragione, Napoli e Sicilia unico regno», la stessa sovranitá che della Sicilia «avea giurata due volte la indipendenza e la libertá... questa sovranitá imprudente stracciò essa stessa lo strumento della legittimitá dei propri dritti sulla Sicilia: giacché la dinastia di Borbone», affermava il Ventura, «in Sicilia non regna se non in forza della costituzione sicula, e del voto libero ed espresso della nazione». Concludendo, però, egli sembra mostrarsi piú conciliante, di quel che a tutta prima farebbero credere certe sue premesse; egli dice che poiché la Sicilia è abbastanza forte per formare un popolo a parte, ma non per formare uno stato assolutamente indipendente, deve dipendere dalla corona di Napoli e dalla stessa dinastia; ma deve avere costituzione, governo, ministero propri, ed un proprio viceré o luogotenente.

Il Troya chiamato ai primi d’aprile a presiedere il ministero napoletano interrompeva la serie degli articoli nel giornale II CC. RR. Teatini, Roma, coi tipi di G. Battista Zampi, a spese dell’ed. F. Cairo, pp. 51 colPind. A questo primo opuscolo tennero dietro altri due; il secondo del maggio; il terzo quando giá la rivoluzione siciliana era in pericolo. Si veda anche E. Di Carlo, G. Ventura e la rivoluzione siciliana del 1S4S, in Rassegna storica del Risorgimento, a. XVIII, 1S31, suppl. al f. I. [p. 395 modifica] tempo, pei quali, come si vede da quelli pubblicati, aveva tenuto presente non poco l’opera di Niccolò Palmieri: Saggio storico e politico sulla costituzione del regno di Sicilia infino al 1816 con una appendice sulla rivoluzione del 1S20 (1).

Gli avvenimenti del 1820 erano rievocati dal Troya a proposito di quelli d’interesse immediato e pratico, dei primi mesi del 1848; per la stessa ragione il Troya riassumeva la storia della Sicilia, per la parte riguardante le condizioni politiche e costituzionali dell’isola nelle diverse etá. Come è noto l’insurrezione del 12 gennaio aveva procacciato a Palermo la libertá dalle truppe napoletane e la costituzione del governo a capo del quale era Ruggero Settimo. Dagli articoli del Troya, che noi ripubblichiamo, si vede quale era la soluzione che la questione siciliana, secondo lui, avrebbe dovuto avere: i diritti della Sicilia ad un proprio parlamento nessuno potrebbe negare siano nel ’48 «rimasti illesi... Ma se i diritti della Sicilia son certi, giova forse ad essa l’usarne?». Senonché su due punti non aveva consentito il re ai voti del parlamento del 1812: la «cessione» che avrebbe dovuto fare, alla riconquista di Napoli, dell’isola al suo «regai primogenito», e «la scelta di chi regnar dovesse in Sicilia, se il re se ne allontanasse». Quindi non avendo consentito il re su quei due punti «piena ed intera si manteneva... la regia prerogativa». La quale regia prerogativa aveva portato poi alle disposizioni della legge dell’xi dicembre 1816, dal Troya ricordata, nell’articolo quinto della quale stabiliva il re: «Il governo dell’intero regno delle due Sicilie rimarrá sempre presso di noi»( 2 ).

Il Troya, come si è notato, non completò la serie degli (1) Losanna, S. Bonainici e C., 1847.

(2) L’articolo seguente specificava poi quanto alle aspirazioni dei siciliani si concedeva: «Quando risederemo ne’nostri naturali domini al di qua del Faro, vi sará in Sicilia per nostro luogotenente generale un reai principe della nostra famiglia, o un distinto personaggio, die sceglieremo tra i nostri sudditi. Se sará un principe reale, avrá... presso di sé uno de’nostri ministri di stato, il quale terrá la corrispondenza co’ ministeri e segreterie di stato residenti presso di noi, ed avrá inoltre due o piú direttori, che presederanno a quelle porzioni de’detti ministeri e segreterie di stato, che giudicheremo necessario di far rimanere in Sicilia. Se non sará un principe reale, il luogotenente di Sicilia avrá egli medesimo il carattere di nostro ministro e segretario di stato; corrisponderá egli medesimo co’ministeri e segreterie di stato risedenti presso di noi; ed avrá presso di sé per l’oggetto indicato i mentovati due o piú direttori». Nell’articolo quinto dicevasi lo stesso riguardo ai domini al di qua del Faro per caso di residenza del re in Sicilia. [p. 396 modifica] articoli propostisi e quindi non trattò compiutamente della soluzione della questione siciliana secondo il pensiero suo, perché divenuto capo del ministero del 3 aprile. Interrompeva, però, la collaborazione sua al giornale, pieno di fiducia, come si vede dall’ultimo articolo, che la Sicilia non volesse rinunziare alla propria italianitá chiedendo d’essere retta da un principe straniero. Il 13 aprile, il parlamento di Palermo votava la decadenza dei Borboni in Sicilia. IV Dallo stesso carteggio del Troya a Margherita Fabbri d’Altemps che noi pubblichiamo risultano la stima e l’affetto dello storico napoletano per la gentildonna romagnola, della quale egli tanto ammirò l’ingegno e la cultura. Era stato suo ospite a Castel Gandolfo nel 1829, e di lei egli scriveva al Balbo da Roma il 15 gennaio 1831: «Una dama che conosce la lingua di Livio e le piú arcane bellezze della lingua di Dante, va leggendo con piacere grandissimo la Storia d’Italia. Ospite in casa sua, io ne parlo sovente con essa, ed il nome di Balbo è assai sovente sulle nostre labbra. Cosi l’inferma salute permettesse a donna Margherita Fabbri dei duchi di Altemps d’attendere alla correzione di alcuni suoi scritti! Cosi le sue sventure domestiche il permettessero...» («). Certo quando il Troya scriveva di queste sventure domestiche della d’Altemps pensava, innanzi tutto, alla disgrazia toccata alla figliolina della duchessa di cui parla subito dopo, ma doveva il pensiero suo correre anche ad Eduardo Fabbri, che da sei anni ormai era prigioniero politico dei pontefici. A lui era Margherita legata da affetto particolarmente intenso, si che leggiamo nel libro Sei anni e due mesi della mia vita: «Nulla dico della so(1) Margherita Fabbri era nata a Cesena il 21 settembre 1791; il 1823 aveva sposato don Giovanni dei duchi d’Altemps di cui doveva rimanere vedova con due figli nel 1834. Alle stampe diede una Lettera sull’educazione, Roma, 1828; la traduzione d’una Lettera di Porfirio filosofo, nel 1832; quella di Quattordici lettere di Plinio, nel 1833, e un Apologo, nel 1835; scritti quasi tutti pubblicati in occasioni di nozze. [p. 397 modifica] rella... che, minore per anni d’altri due parimenti di me piú giovani, vinse tutte per le grandi prove che mi die’ sempre, e piú nella circostanza della prigionia, di sviscerato amor fraterno» (»). Eduardo Fabbri aveva avuto cariche ed uffici diversi durante il periodo repubblicano ed il napoleonico, ultimi dei quali quelli di colonnello comandante la guardia nazionale di Cesena dal maggio 1812, di viceprefetto del ginnasio di Cesena dal gennaio dell’anno seguente, e di viceprefetto della sua cittá durante il breve periodo del tentativo di riscossa nazionale di Gioacchino Murat. Arrestato dalla polizia pontificia piú perché questo suo passato poteva giustificare ogni sospetto ed ogni denunzia di confidenti che per azione svolta contro il governo dopo la restaurazione, se almeno vogliamo credere al Fabbri stesso, arrestato proprio nella casa della sorella Margherita, veniva liberato il 26 febbraio del 31, dopo che appena erano incominciate le agitazioni ed i moti liberali di quell’anno in Emilia, in Romagna ed in cittá d’altre regioni dello stato pontificio. Accolto con attestazioni di grande affetto da tutti i luoghi di Romagna per cui passava nel ritorno dalla prigionia, era nominato dal governo delle Provincie unite viceprefetto di Cesena il 16 marzo, dopo ch’egli aveva rinunziato alla nomina di prefetto d’Ancona. Il Fabbri dice che «dal 21 di marzo al 16 di luglio, in che gli austriaci lasciarono le legazioni, ove tutto quel tempo rimasero in occupazione, il governo di questo paese (la Romagna) fu tedesco papale rivoluzionario. I delegati, prèsidi delle provincie romagnole, erano pontifici; gli atti si facevano tutti in nome del papa; le finanze servivano a pagar gli stranieri, che aveano la polizia; l’ordine interno era mantenuto da forza cittadina, che costantemente negava di usare le insegne del principe e del governo» U). Il Fabbri invitato dalla magistratura cittadina e dal governatore pontificio ad assumere il comando della guardia urbana rifiutava, ed il 16 luglio sconsigliava l’inizio di moti rivoluzionari in Cesena; a proposito di tal sua condotta egli scrive: «Del mio contegno ebbi elogi non cercati dalle autoritá pontificie, ma dichiarai apertissimamente che io non avea inteso altro che di servire il mio paese, e che quegli elogi non mi apparte(1) E. Fabbri, Sei anni e due mesi delia mia vita, a cura di Nazzareno Trovanelli, Roma, Bontempelli, 1915, p. 4S. (2) lbid., p. 263 e seg. [p. 398 modifica] nevano perché non avevo aspirato ad ottenerli» u). Ad ogni modo, questo abbiamo riferito perché ci sembra sia bene tenerlo presente leggendo gli elogi del Troya per la condotta politica del Fabbri, nelle lettere alla d’Altemps. Aveva inoltre il Fabbri, pel Troya, meriti letterari, per opere che questi ammirava, e delle quali è pur cenno in alcuni punti delle lettere che ripubblichiamo, come in quella dell’8 aprile 1826, ove a proposito della tragedia Stefania o la bella penitente, che pur è rimasta inedita, egli dice: «Io sono tutto allegro per due o tre scene, le quali mi fecero gridar pel piacere. In tutto il lavoro mi sembrò scorgere in generale i costumi dei mezzi tempi» ( 2 ). (1) E. Fabbri, op. cit., p. 268. Si veda anche la n. 460, ove il Fabbri narra in una lettera alla sorella Margherita del colloquio suo col governatore pontificio e coi due «signori assai bruschi» a lui ignoti, che affermavano, in Cesena, essere scoppiati moti rivoluzionari in altre cittá di Romagna e chiedevano che ci si associasse. (2) Le opere, edite ed inedite, di Eduardo Fabbri sono ricordate in Sei anni e due mesi delia mia vita cit.: Notizie preliminari, pp. ctv, CV; fra esse la Marnatine, pubblicata nel 1822, di cui è cenno nelle lettere del Troya. Per altre notizie intorno a persone ricordate nelle lettere del Troya alla d’Altemps si veda: Nella Belletti, Di un carteggio inedito di Carlo Troya a Margherita Fabbri d’Allemps, in Rassegna slor. del Risorg., a. V, fase. x«. Di questo carteggio fanno appunto parte le lettere che ripubblichiamo.