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che Dante a questo avrebbe pensato, il Troya lo dice anche nel Veltro allegorico di Dante (cap. LVII).

Entusiasta e convinto seguace del Troya fu Cesare Balbo: il quale inviando allo storico napoletano un esemplare della sua Vita di Dante vi poneva come dedica: «Rimasugli de’ lavori di Carlo Troya raccolti dall’amico di lui» (*). A proposito di queste parole Benedetto Croce scrive che il Balbo «dal Troya tolse molto, anche di ardite fantasie e di arditi giudizi. E ne tolse le congetture e i giudizi su Dante intorno al quale scrisse un grosso volume»! 2 ). Quale efficacia abbiano esercitato sugli animi dei giovani i libri del Troya, dichiarava giá il Carducci nel 1895: «... Carlo Troya al tempo dei romanzi storici compose due libri che nella nostra giovinezza noi leggevamo con rapimento» (3). E accennando alla mutata fortuna di tali libri, seguita poi, aggiunge: «il Todeschini, un accademico svoltosi a critico... d’ingegno tanto minore al Troya e al Balbo, die’ i primi e rudi colpi all’opera dantesca de’ due»; e aggiunge subito subito: «fu tutta una reazione necessaria contro il romanticismo infiltratosi anche nella critica dantesca». Lo scritto del Todeschini a cui con tutta probabilitá si riferisce particolarmente il Carducci, è quello intitolato: Del veltro allegorico (t) Lettera di Carlo Troya da Roma alla madre, i» giugno 1839. V. Del Giudice, op. cit. V. a questo proposito anche F. Barbieri, La «Vita di Dante» di Cesare Balbo, in Datile e il Piemonte, Torino, 1921. (2) B. Croce, La storiografia in Italia dal cominciamento del sec. XIX ai giorni nostri, voi. I, p. 145 (La Critica, 1915, XIV, p. 19). (3) G. Carducci, A proposito di un codice diplomatico dantesco, in Nuova Antologia, a. XXX, terza serie, v. 50, fase. XVI, 15 agosto 1895. — Il Veltro allegorico de’ghibellini rinforzò in alcuni aderenti alle idee del Troya la fede in esse; come, ad esempio in Michelangelo Caetani duca di Sermoneta, il quale inviando al Troya l’opuscolo del Venturi contro la lettera di frate Ilario ( Osservazioni critiche sulla lettera di frate Ilario, ecc. in Giornale are., C. 75 e seg.) scrive: «Riguardo alle prove che potessero pure sortire dalla sospetta scrittura del frate Ilario, io poco ne prenderei cura, per ciò che occorre al suo proposito, dell’essere Ugo della Faggiola stato certamente per alcun tempo nel pensamento, e nell ’affetto di Dante, come uno che doveva sanar le piaghe d’Italia; e che nel lungo spazio di oltre quindici anni in cui Dante scrisse il suo maggior lavoro, mutandosi le condizioni degli uomini e delle cose, potesse pur essere che le speranze del veltro allegorico da Ugo si dileguassero, o si posassero sopra altri possibili, ciò nulla toglie al vero, che la piú ragionevole e forse la piú durevole opinione del veltro, nella mente del nostro poeta, si fosse quella senza meno di Ugo, e tutta la storia, e le prove tutte da lei toccate in questo suo recente libro, apertamente e vittoriosamente il dimostrano» (L. Passerini, Lettere di dantisti. Il duca di Sermoneta al c. C. Troya, Lett. IX: in Giornale dantesco, a. VII, 1899).