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una parte degl’italiani, cessassero d’appartenere ad uno stato, non che ne diventassero uno». E trattando se agli italiani era stata lasciata la facoltá di vivere con la legge romana, nota: «È certo che lo stabilimento d’una nazione sovrana e armata in Italia creò, tra questa e i primi abitatori (poiché non furono scannati tutti), delle relazioni particolari; e queste erano regolate, come si fosse, dai soli vincitori. Quando si dice dunque che gl’ italiani avevan la loro legge, non s’intende che questa fosse il limite della loro ubbidienza, e una salvaguardia della loro libertá; ma si badi che, oltre di quella, n’avevano un’altra, imposta da una parte interessata. Il non trovarla scritta, il non conoscerla noi, nemmeno per tradizione, può lasciar supporre che fosse una legge di fatto, sommamente arbitraria ed estesa nella sua applicazione, e ad un tempo terribilmente semplice nel suo principio». E piú avanti: «Riepilogando il detto fin qui, avremo: che una parte della legge romana cadde da sé; che la parte di legge conservata non esentava coloro che la seguivano da ogni altra giurisdizione del popolo padrone; che la legge stessa rimase sempre sotto l’autoritá di questo; e che da esso furono sempre presi i giudici che dovevano applicarla».

Dall’opinione del Trova e da quella del Manzoni s’allontana il Tommaseo? 1 ), non tanto, però, perché ammetta che le condizioni dei vinti romani sia stata, materialmente almeno, migliore: egli pensa anzi che essi, tributari, «dovevano da sé provvedere a tutti i dispendi della vita civile; che la distinzione delle due leggi romana e longobarda non era che un modo di esagerare ai deboli le gravezze, e che le cause miste, le quali dalla prepotenza potevan essere moltiplicate, a talenti, le spese del processo, e i guidrigildi infiniti, non pur criminali ma civili, saranno stati, com’era debito, pagati dal debole». Ma egli ammette la doppia legge ed il doppio magistrato, anche se vede in essi «una miniera inesausta alle voglie longobardiche», ed è naturale che veda anche, dato quel che premette, «il deposito, o come direbbe un ducentista, l’arcile delle italiane franchigie». Ed afferma che «divisi come bestiame, ceduti, angariati, vilipesi, non persero però mai la consuetudine del governarsi da sé, del fare famiglia, dello stringersi nel piccolo comune come in catacomba disagiata ma (I) N. Tommaseo, Intorno ad un passo disputato dí Paolo Diacono, in Arch. stor. it., t. VII, App., Firenze, P. Vieusseux, 1849.