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Il Bartoli, dopo aver deplorato che nei tempi a lui piú vicini fossero cominciate le stravaganze, poiché ogni studioso di Dante si era fabbricato «un nuovo veltro, a seconda delle proprie opinioni politiche o religiose, ed anche a seconda del proprio luogo di nascita», affermava: «Non vorrò dire che fosse stravaganza, ma fu certo errore quello del Troya, di vedere il veltro in Uguccione della Faggiuola, e fu cocciutaggine, dopo la confutazione stringente del Tommaseo, ostinarsi in tale opinione, e difenderla con una costanza e una dottrina degne di causa migliore. E non pochi, pur troppo, furono i convertiti dal Troya, il Borghi, per esempio, il Malagoli, il Repetti, il Balbo, l’Andreoli, che anche oggi ripete disinvolto e sicuro che il veltro è il Faggiolano». Afferma ancora, poi, il Bartoli (0 che nessuno ha risposto alla grave obiezione, egli dice, del Tommaseo: come avrebbe potuto Dante dire del veltro «e sua nazion sará» se esso fosse giá nato nel 1300? «Un’altra importante osservazione è quella giá fatta dal Pepe, e ripresa poi dal Del Lungo, il quale esaminati i versi che al veltro si riferiscono giustamente domanda se non sia questo il linguaggio di chi parla di cosa non solamente futura, ma lontanamente futura»(*). Quindi, il Bartoli, dopo queste ed altre considerazioni, conclude che «il veltro non può essere che una persona indeterminata, o un imperatore o un papa... L’indeterminatezza è appunto uno dei caratteri di tutte le profezie; e quello che c’ è di indeterminato nella profezia del veltro prova... che indeterminato, vago, incerto era pure il concetto che il poeta aveva di questo sperato salvatore d’Italia e di tutta la cristianitá» ( 3 ). teressa risale però al 1857) e dice: «Per certi punti speciali, per esempio sull’essere il veltro non nato ancora, sul non potersi dire Dante vero ghibellino, non che in generale sul doversi in quel simbolo riconoscere un auspicato pontefice, il Del Lungo avrebbe potuto utilmente confortarsi dell’opinione del chiaro giureconsulto e filosofo napoletano». (1) A. Bartoli, Storia della letteratura italiana, VI, 1, p. 209 e segg., n. r, Firenze, Sansoni, 1887.

(2) Al Pepe, invero al «suo» Gabriele, a cui rimproverava d’esser passato dalla opinione storica a quella poetica, il Troya aveva risposto nell’introduzione al Veltro allegorico dei ghibellini, per quanto brevemente, con queste parole: «Ma il sará d’un poeta che si avvolge fra nubi allegoriche, non va giudicato con le regole ordinarie della comune sintassi, e sovente nello stile poetico il passato divien futuro, dal quale non si ricava nulla in favore né della ipotesi poetica né della storica». (3) Per non pochi altri giudizi intorno alle opere dantesche del Troya, rimandiamo al Del Giudice, op. cit.