Pagina:Troya, Carlo – Del veltro allegorico di Dante e altri saggi storici, 1932 – BEIC 1955469.djvu/359

sostenendo che i futuri usati da Dante nel primo canto a proposito del veltro: verrá, fará, ciberá, sará, fia, caccerá e avrá, indicano che il veltro non esisteva ancora quando il poeta scriveva, ma che doveva, il veltro, «aver l’essere nel futuro», e che quindi Dante «avea presente la lupa, e diceva o sperava futuro il veltro». Era, quindi, inutile, se ancor doveva venire, indagare generale, del pensiero del Pepe intorno al Veltro allegorico dell’amico suo, i giudizi del Capponi stesso. A Firenze, allora, gli amici e i redattori de\V Antologia costituivano come una famiglia di studiosi che il comune amore ai problemi letterari storici filosofici scientifici, tanto piú se confuso con comuni aspirazioni politiche, spingeva naturalmente a discussioni ed a confidenze di pensieri e di giudizio. In una lettera del Pepe al Troya del 23 luglio 1827, ove si parla piú ampiamente di questioni e criteri storici, si trova il seguente periodo: «E qui mi permetterò di dirti ciò che non aveva osato per l’intianzi; ed è che il tuo Veltro sarebbe assai piú piaciuto se qua e lá non vi tralucesse lo spirito dell’autore di rimettere in onore opinioni screditatissime. Non è andata a genio quella violenza che tu fai a’documenti istorici per attribuire solo alle passioni di Dante ciò che egli dice di male di alcuni de’suoi contemporanei. E per addurti un esempio, ti dirò che uori è piaciuto quell’aver tu dipinto l’arcivescovo Ruggieri come un raro esemplare, mentre vi sono memorie le quali ne dicono che esso imprigionò Ugolino figli e nipoti non giá per liberarne Pisa, bensí per estorcere denaro dagli imprigionati». (Zagaria R., Gabriello Pepe e Carlo Troya, App. II, Leti. 4, in Rassegna stor. del Risorga a. XVI, aprile-giugno 1923, fase. II). A questa lettera rispondeva il Troya il 4 agosto seguente (Del Giudick, op. cit., append., doc. XXXII), e riporteremo qui solo ciò che si riferisce al Veltro: «Io sono ripreso, mi dici, e cosi dice il ginnasio di Napoli, io sono ripreso di aver fatto violenza a documenti storici per tassar Dante d’ingiustizia verso i suoi contemporanei, e per rimettere in voga opinioni screditatissime. Delle quali screditatissime adduci unico esempio, quello di aver lodato l’arcivescovo Ruggieri; nel che Repetti nostro mi scrive piú apertamente altri credere che si mostri uno spirito di papismo. È vero, caro Gabriele, io fui papista perché lodai un arcivescovo: ma questo arcivescovo era egli stesso antipapista e l’uno dei ghibellini piú caldi!... Ben mi era noto che vi ha in Italia una scuola di piagnoni, una setta di sdolcinati uomini che giurano pel santissimo petto e per le sacratissime viscere di Dante Alighieri... Questa setta è ignorantissima della storia e della geografia... Non ha guari, l’uno di costoro, vinto dal fatto, dicevami, aver io fatto male, assai male nel Veltro a svelare pudenda pattisi Or cosi dunque io deggio scrivere la storia?... Piú che del suo ingiustissimo esilio il (Dante) compiango io di quel suo aver cangiato parte; di quel suo avere scritto il libro De monarchia in favore dello straniero, sia di Lussemburgo sia di Baviera: Dante fiorentino chiamò contro i fiorentini quei teutonici di Arrigo VII...; quindi l’Alighieri faceva poco appresso quella celebre invettiva contro le sfacciate donne fiorentine perché portavano le poppe scoperte. Si, ma quelle poppe avevano saputo affrontar lo straniero! E i teutonici furono discacciati lungi da quelle nobili murai II villano di Aguglione, il barattiere da Signa, cosi scherniti da Dante potevano essere ignorantissimi ed anche scelleratissimi uomini, ma potevano avere piú senno e piú sapienza civile».