Dante Alighieri e il suo secolo
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DANTE ALIGHIERI
E
IL SUO SECOLO
ARTICOLO TRADOTTO
DALL’EDINBURG REVIEW
La critica letteraria, considerata in se stessa qual porzione dell’arte de’ retori, ci sembra assolutamente una scienza vana e di poca importanza. Alcuni ne hanno usato come uno strumento di dominazion pedantesca, e l’hanno fatta servire allo stabilimento di regole fattizie: altri più eruditi, sonosi contentati di paragonar lesti e ammassar citazioni. Ogni celebre autore non si è più mostrato alla posterità senza il corteggio d’un’infinità di comentatori, i quali pretendendo spiegarlo ne hanno oscurato la gloria; di annotatori, i quali invece di schiarirlo, ne hanno inviluppato il testo; di traduttori entusiasti ed inetti che svisato hanno il loro idolo.
Dante, nato in un secolo barbaro e fornito di gigantesco ingegno, più che altri mai ha dovuto soffrire delle conseguenze di questo dotto fanatismo. Di tutti i poemi epici, la Divina Commedia si è quello in cui il più de’fatti sconosciuti e dimenticati si trovano vagamente rimembrati o piuttosto indicati alla sfuggita. Desso considerar si potrebbe, in certa maniera, come l’enciclopedia del secolo decimoquarto. Egli è desso il sunto de’costumi, delle idee, delle passioni, delle rimembranze del medio evo. Fisica, metafisica, scolastica; nuove invenzioni; spiegazioni in que’ tempi alla moda de’naturali fenomeni; menzione degli uomini celebri del suo tempo e degli antecedenti secoli; nulla vi si lascia sotto silenzio. Lo si vede andare innanzi a’suoi contemporanei; additar con giustezza la proporzione dell’angolo d’incidenza con l’angolo di riflessione; profetizzare parecchie delle grandi scoperte che accelerar dovevano la civilizzazione d Europa; antivedere in un verso l’attrazione universale:
Il punto
Al qual si traggon d’ogni parte i pesi
Inf., cant. 34, v. 110.
chiamare il sole «primo ministro della natura, che penetra il mondo della virtù celeste, e la di cui luce forma la misura del tempo1»; presentire la vera natura della via lattea2; e indovinare insino le quattro stelle del polo antartico che Amerigo Vespucci indovinar dovea il primo3. A queste singolari profezie unite a molti errori aggiungasi una immensa quantità di aneddoti contemporanei che è dovere del critico lo schiarire; quest’obbligo immenso, reso ancora viepiù malagevole dall’antiquata favella del poeta, dalla oscurità del di lui stile conciso, dal gran numero d’ignoti aneddoti, ai quali riferisconsi i nomi di che ridonda questa vasta composizione, ha aperto a’ suoi comentatori un’immensa carriera, in cui si sono allegramente precipitati. Le loro fatiche su la grande commedia del fiorentino poeta formerebbero una vasta ed inutile biblioteca.
Alcuni di loro han cercato ne’vecchi romanzi, altri ne’misteri, informi saggi della moderna arte drammatica, le prime sorgenti d’onde questo grand’uomo attinse l’idea e il piano della triplice sua visione. Denina pretende ch’ei l’abbia preso da un cattivo dramma rappresentato in Firenze nel 1304, sul ponte d’Arno. Questo ponte di legno essendosi rotto al finire della rappresentazione, tutti gli attori del dramma intitolato le Anime dannate perirono nel fiume; scena assai tragica che Matteo Villani descrisse ne’suoi annali. Sgraziatamente per gli autori della ipotesi, Dante avea già terminati due anni avanti i sette primi canti del suo Inferno; e allorchè, condannato al bando, egli vide da’ suoi nemici politici, i Guelfi, saccheggiata la sua casa, sua moglie pervenne a porre in salvo il prezioso manoscritto che stava per divenir preda delle fiamme. Sin dal 1295, Dante, che scriveva allora la sua Vita nuova, dava quivi uno schizzo del suo poema, che par sia stato il pensiero di tutta la sua vita. Gli è adunque probabile che lungi dallo avere imitato il dramma rappresentato in Firenze, Dante comunicando a’ suoi amici il principio di una opera meditata sin dalla sua giovinezza, avrà dato loro la prima idea della rappresentazione teatrale eseguita sul ponte d Arno due anni prima che ne fosse partito.
Tutte le visioni infernali alle quali il medio evo ha dato origine sono state allegate da tutti a vicenda quai modelli della Divina Commedia. Si è preteso aver cercato il poeta le sue inspirazioni nel Romanzo di Guerino; nel canto del Trovatore che scende giù all’inferno; nella Visita dell’inferno; nel Viaggio per lo inferno conti divoti e meravigliosi che si appartengono al XII e XIII secolo. Una Visione d’Alberico, monaco di monte Cassino4, ha sovratutto chiamalo l’attenzione dei dotti. Cotest’Alberico non avea che nove anni quando fu rapito da una colomba, che gli fece vedere l’inferno, il paradiso, e il purgatorio. Come una sì formale analogia sarebbe sfuggita a quegli occhi lincei la cui perspicacia scopre tanti rapporti chimerici, trasforma in realità le conghieltture, e non sa farci grazia di veruna ipotesi?
Ma la visione d’Alberico non è un fatto isolato di cui trar se ne possa alcuna particolare induzione. Dopo lo stabilimento del cristianesimo abbondarono le visioni; san Cipriano e santa Perpetua ebbero le loro. Il genio mistico e ideale della nuova credenza era favorevole a tal genere di composizioni; tutti gli archivii de’conventi e de’monasteri son pieni di queste sacre finzioni, di sì fatte estatiche rivelazioni, il cui scopo è ordinariamente di sanzionare alcun punto di dottrina, professato con ispecialità dai membri di ciascheduna corporazione. San Gregorio Taumaturgo scrivea sotto la dettatura di s. Giovanni evangelista, la visione ove sviluppa distesamente i suoi dogmi particolari; più secoli appresso per mezzo di visioni egli fu che madama Guyon difendeva la sua chiesa; e nelle opere di Bossuet trovasi un’altra visione di certa religiosa5, in manifesta contradizione con le questioni sostenute dall’avversario dell’aquila di Meaux.
La visione d’Alberico è visibilmente destinata a stabilire il dogma del purgatorio, a persuadere ai fedeli che le lemosine fatte alla chiesa abbreviano il tempo delle loro pene, e a gettare le fondamenta dell’importante dottrina delle indulgenze. Il nostro picciol monaco non vide se non di passaggio l’inferno; travide il paradiso; ma ci si fermò appunto nel purgatorio. In Ispagna, in Inghilterra all’epoca medesima occupavansi a fabbricare delle altre visioni tendenti al medesimo scopo; e Matteo Paris ci ha conservata quella di un prete inglese6 dove, del pari che nella Commedia di Dante, trovasi una scala di punizioni divine corrispondente a un’altra scala di peccati degli uomini.
Un’altra supposizione ammessa da Ginguené come una verità pressoché incontrastabile, si è che il Tesoretto poema di Brunetto Latini, maestro di Dante, offrì a quest’ultimo il piano e la contestura della sua opera. Brunetto si perde difatti in un bosco, e Dante in una selva. Il primo rincontra Ovidio che gli fa di guida; gli è Virgilio che s’incarica di condurre il secondo. Già Federigo Ubaldini, che pubblicò il Tesoretto nel 1642, afferma che «Dante imitò il Latini». Fontanini e Cancellieri hanno ripetuto cotesta asserzione. Riguardo a noi che abbiamo avuto il coraggio di leggere il vecchio poema in questione, non possiamo scorgervi che una trista e fredda serie di lezioni morali in cattive rime e incastrate in un’allegoria senza oggetto e senza grazia. Immaginazione, sensibilità, invenzione, energia, arte di versificazione, tutto vi manca: è desso un saggio barbaro e monacale, vera poesia da saltimbanco, poesia di foggia di trottola, siccome molto bene vien detta dall’accademia della Crusca; le oscurità, i barbarismi, e le trivialità vi sovrabbondano. Di quale utilità questo lungo sermone in versi esser potè al nostro poeta?
Sir Hallam, nella sua eccellente storia del medio evo, riproduce anco l’errore del Ginguenè, e lo conferma colle seguenti parole: «Si rimane sorpresi della rassomiglianza del piano del Latini con quello di Dante». Ei fa mestieri che sir Hallam non abbia neppure giammai veduto il Tesoretto, il quale non somiglia che sotto un solo rapporto al triplice poema dell’Alighieri; le due opere, come la maggior parte delle produzioni d’immaginazione dell’età di mezzo, allettano la forma d’una visione. Se non che l’idea primaria, il concetto, i dettagli, tutto vi è differente. Ecco in quai grossolani errori s’inciampa allorchè balordamente si parla di letterature straniere, e sovrattutto d’una letteratura così complessa, così svariata, cosi vasta come la letteratura italiana. La diversità de’ gusti e delle località: i numerosi e bizzarri sistemi adottati da opposte accademie; le rivalità, gl’interessi politici, le credenze religiose, la superstizione, il timore, la vanità hanno gettato sulla storia letteraria d’Italia un denso oscuro velo che è assai malagevole sollevarlo alquanto. Questa antica terra di grandezza e di gloria è divenuta il paese del pregiudizio. Il valore delle espressioni usate da ciascun critico, dipende dal luogo della sua nascita, dal suo stato, da’ suoi costumi, dalle sue amicizie, dal governo sotto il quale è egli vissuto. Il difetto di libertà ha sparso nelle pubbliche abitudini una massa incredibile di ignoranza, di parzialità e di bassezza. La stretta giustizia, il severo e schietto apprezzamento degli uomini e delle cose sono al tutto spariti: si son fatte delle satire e de’panegirici, ma non si è giammai elevati a quella imparziale altezza di ragione, di che l’Alemagna e principalmente l’Inghilterra hanno fornito dei sì rimarchevoli esempli. D’altronde, in Italia, il numero delle persone che leggono è limitato alle stremo; son questi o gli amici, o i rivali, o i protetti del’autore. Come, per esempio il gesuita Tiraboschi, difensore nato della romani curia, avrebbe renduto giustizia a Dante di lei nemico? Era suo dovere il diffamarlo, ed egli non ha omesso di citare il detestabile Tesoretto del Latini qual modello della Divina Commedia. Ginguené che copia quasi sempre Tiraboschi depurandone lo stile, ripetè questa falsità che si è accreditata e che Hallam ci ha trasmessa.
Durante il medio evo, come per lo innanzi si è provato, nulla di più comune che le visioni: una stabilita abitudine, risultante dai costumi e dalle idee cristiane, una sorte di luogo comune poetico e divoto, una specie di mitologia popolare che consecrava le fantasmagorie celesti ed infernali, le offerivano alla credula ammirazione del volgo. Dante ha egli consultate le visioni monacali che gli pullulavano d intorno? Pensò egli imitarle? Io non lo credo. Sottomesso come tutti gl’uomini di genio all’influenza del suo secolo, egli adottò il pensiero più universale, più accreditato, più comune: ei se n’è servilo come Omero ha fatto uso del politeismo ellenico. Il capo d’opera del genio, la più alta prova di sua possanza consistendo nel carpire così l’anima istessa e l’intimo pensiero di un’epoca, per indrizzarli, ingrandirli, e trasmetterli sotto una forma immortale all’ammirazione de’secoli avvenire. All’umana fievolezza non si appartiene il creare; basta al genio di vincere il tempo, perpetuare alcune fuggitive memorie, rappresentare per sempre il suo secolo, dare un’immortale realità a quelle idee variabili che la serie degli avvenimenti e le rivoluzioni del mondo moraleFonte/commento: 460 non cessano di trascinare e metamorfizzare nel loro corso.
Che il poeta italiano abbia chiamato il gran verme il diavolo7, che questa singolare espressione si rincontri in Alberico; che Dante facciasi innalzare da un’aquila, e Alberico da una colomba: non sono queste delle prove concludenti, degl’indizi manifesti, che l’autore della Divina Commedia abbia consultato, imitato, copialo il monaco di monte Cassino. Nella vecchia favella italiana, verme e serpente sono sinonimi; e non è a sorprenderci che il poeta ed il monaco abbiano scelto, per visitare il purgatorio, lo stesso cammino e la guida medesima, di cui Ezechiello8 e Abbakuk9 si sono serviti. Una più importante quistione ci si presenta. Si tratta di esaminare se Alberico e Dante hanno impiegato gli stessi mezzi onde conseguire il medesimo scopo; se il poeta adottando questa mitologia allora in voga, non abbia voluto che comporre dal suo canto un maraviglioso, terribile e divoto racconto. Qui si svela la sublime originalità di Dante. Più non iscorgi in lui un narrator di miracoli, ma il riformatore, il rivendicatore del suo secolo, il flagello dei delitti, il messaggero della collera e del perdono. Questo gran teatro «al quale ha posto mano e ciclo e terra10, questa santa opera a cui cooperati si sono l’inferno, il ciclo e il purgatorio, la è per gli uomini una gran lezione. Ivi si rendon palesi tutti i mali e tutte le magagne dell’Italia. Ivi rinvengonsi a nudo tutte le invecchiale sue piaghe. È la voce di Dio medesimo che viene ad avvertire il potere, a minacciare i troni, ad annunziare il fulmine inevitabile di sua vendetta. Pontefici vacilla la vostra grandezza, se tradite i vostri sacri doveri, e la maledizione de’secoli vi attende! Uomini di stato il nome vostro trasmesso e condannato all’ignominia de’secoli, rimembrerà eternamente le vostre bassezze e i tradimenti vostri! Italiani che spalancale le vostre porte alle armate straniere, la servitù in questo mondo e il cordoglio nell’altro, ecco la vostra sorte! Chiunque voi siate, se all’esercizio dell’equità, preferite i temporali piaceri, se la virtù vi è meno cara della voluttà, tremate a così grande spettacolo! Tale si è il vero carattere di questo lavoro ammirabile; dramma, sermone, satira, epopea ed inno insieme; tale si fu lo scopo cui aspirar volle quest’uomo straordinario, creatore della poesia e della lingua italiana.
Per compiere un tal sublime disegno, servissi Dante dei soli mezzi che offrì a lui il suo secolo. Non parlò egli a suoi contemporanei l’inutile linguaggio di quella morale filosofia che non avrebbero capito non che udito. Ei fece uso per colpirli delle stesse armi loro, e non mise in opera che i materiali somministratigli dalle idee e da’costumi del suo tempo. Mostrò loro il cielo con tutti i suoi godimenti, l’inferno con tutti i suoi terrori. La teologia, scienza trascendente, che nel medioevo, occupava il posto destinato oggigiorno alle scienze esatte, fu la sua musa e la sua guida; l’importanza del suo dramma sì fu l’eternità... e l’eternità vendicatrice.
Gettiamo ora uno sguardo sulla situazione dell’Europa a quest’epoca: il quadro della sua politica e de’suoi costumi, dal decimo al decimoquarto secolo, è desso il solo commentario che sparger possa qualche chiarezza sull’opera di Dante ed iniziarci negli arcani di questo grande poeta.
Di mezzo alla loro profonda ignoranza ed alla loro miseria gli uomini non avevano allora che un solo conforto; la fede religiosa. Schiavi attaccati alla gleba, servi appena osavano sollevare la testa; i signori feudali non riconoscevano che un vero padrone e sovrano, Iddio; e il terrore inspirato dai fulmini celesti era il solo contrapeso della loro tirannide. La forza regnava nella sua schifosa nudità; il potere formava il diritto. Ombre di monarchi sedevansi sopra pericolosi e mal fermi troni; e per ogni dove compressi dalla calca de’ loro grandi vassalli ubbidivano in vece di comandare. Ma questa sociale organizzazione, che non era in fondo che una armata aristocrazia, riconosceva un’altra sovranità, quella della religione. Il clero depositario della legge canonica senti ben presto ch’egli era il padrone, e che questi re, questi vassalli, questi cavalieri, questi borghesi, questi schiavi tremanti al nome di Cristo e della celeste sua Madre, non componevano che un solo popolo cristiano di cui i ministri dell’Altissimo potevano a grado loro dirigere i movimenti. Quindi nacque l’onnipotenza de’papi. S’avrebbe torto a dinotarla come funesta. I pontefici cominciarono dal secondare i progressi della civilizzazione. Una violenta brama di libertà, d’equità, d’indipendenza, covava nelle città d’Italia, fu desso il clero che aiutò i loro sforzi e sodisfece a’loro bisogni. I due secoli che scorsero dopo il pontificato di Gregorio VII insino all’epoca in cui visse Dante, furono testimoni di questa grande rivoluzione, risultato de’costumi giganteschi di questo papa, uno dei più ragguardevoli uomini che siano comparsi nell’istoria moderna.
Gregorio VII fondò la sua potenza con questa sola parola Io li scomunico: questo vecchio papa cangiò così il mondo intero: con questa sola arma forzò i principi a cedere al papa i dominii destinati alla sussistenza del clero ed al suo sostentamento. In un istante la milizia romana trovossi ripartita in tutti i punti di cristianità. Tutte le proprietà dei monaci, proprietà estese e ben coltivale divennero di pertinenza del sovrano pontefice. I preti in qualsivoglia luogo si fossero, divennero sudditi del papa, l’opulenza dell’Europa intera venne a riempire i forzieri del Vaticano, e Gregorio, monarca universale ebbe a così dire, un piede in tutti i regni cristiani.
Dopo aver tolto a tutti i re una porzione del loro retaggio, Gregorio volle rassodare la sua potenza sulle proprie truppe. Obbligando rigorosamente i preti alla legge che vieta loro il matrimonio, egli fece del clero una sacra armata, isolata dalla terra straniera alle affezioni e agli umani sentimenti; non vivendo che per se stessa e pel suo proprio potere. Gli si fè resistenza: il clero italiano principalmente a gran fatica piegossi a questa legge del celibato; si sa come da indi in poi ha cercato di eluderla. Ma vinto una volta l’ostacolo, la conquista operata mercè di quest’unica istituzione fu immensa, inapprezzabile e d’una fecondità di cui è difficile calcolare i risultamenti. Il clero, il papato, la stessa Italia divennero ad un tratto il punto centrale dell’Europa cristiana. D’allora in poi Roma fu la patria comune del sacerdozio; questa vasta confraternita ecclesiastica, ricevendo direttamente dal Vaticano il suo potere, il suo lustro, la sua fortuna, non più si appartenne ad alcun re, ad alcun paese. Roma dettò la legge al mondo.
L’estremo progetto di Gregorio, progetto che dovea porre il suggello a questa immensa intrapresa, e ch’ei non potè compiere in sua vita, quello si fu delle Crociate. Due fra le sue lettere provano11 che egli ne aveva già maturato il piano e disposto i preparativi quando il sorprese la morte. Fu per questo mezzo, di cui i suoi successori non trascurarono di prevalersi, che i re divennero semplici generali, ubbidienti alla corte romana, che pel corso di un mezzo secolo gli ordini del Vaticano regolarono la marcia delle armate; e che l’Occidente scuotendosi come una sola persona alla voce del papa precipitossi sull’Oriente.
In questa maniera elevossi l’Italia sino a un grado di potenza morale e politica, non men repentina che meravigliosa. Già l’anatema di Gregorio, scagliato contro il re de’ Romani, avea sciolto l’Italia da que’ vincoli di vassallaggio che la incatenavano all’impero. La sua popolazione crebbe ben presto colle sue ricchezze e il suo credito. Là dove trovavansi sparse alcune capanne, abitate da selvaggi, fabbricaronsi palagi, residenze di magistrati indipendenti: nascono delle repubbliche come per magia. II bifolco reso libero per le indulgenze delle Crociate, coltiva la sua propria terra a ne raccoglie i frutti. Più non si geme sotto alla spada de’ signori che si battono in Asia pel conquisto del santo Sepolcro. La preponderanza feudale è affievolita. I legni necessari alle sante spedizioni vengono costrutti negli arsenali delle città italiane. Le classi tutte de’cittadini sentono il pericolo a cui questo attacco gli espone: tutto si anima e si sublima, la navigazione apre uno sbocco ai prodotti delle manifatture, cresce l’industria, la ricchezza e la massa delle cognizioni europee. L’Italia empie tutti i suoi porti de’suoi vascelli, tutti i magazzini delle sue mercanzie. I drappi di Firenze e le armi fabbricate a Milano bastano ai bisogni di tutti i popoli e ad equipaggiare tulle le armate di Europa. I tesori di cui il commercio arricchì l’Italia dividendosi all’infinito, spargonsi insino negli ultimi ranghi della società ed accrescono il numero degli utili cittadini interessati al loro ben essere. La ineguaglianza delle fortune addiviene meno sensibile: e la preponderanza dei nobili viene contrabbilanciata dall’influenza de’ grandi capitalisti. Epoca gloriosa in cui si videro i Pisani conquistar le isole Baleari, e scoprir le Canarie; Genova cingersi di torri, di fortificazioni, e di muraglie in meno di due mesi; i Milanesi, cacciati dalla loro città ridotta in cenere, passar due anni senz’asilo, in mezzo a’campi, ripigliar poi le armi, tagliare a pezzi le truppe di Federigo Barbarossa, e forzarlo a riconoscere la loro indipendenza.
Gli è vero, che durante questa luminosa epoca, la più parte delle italiane repubbliche erano in preda alla guerra civile; ma il nemico comune veniva egli a presentarsi? queste armate, così spesso impiegate contro i concittadini e i fratelli rivolgevansi contrai usurpatore. Una lunga contesa cominciò tra i papi, difensori dell’indipendenza italiana e gli imperatori di Germania. Il papa ed il clero trovavasi alla testa d’una specie di crociala in favore della libertà, l’Italia riconoscente attaccossi maggiormente a’ suoi pontefici. Ma come avviene quasi sempre, così utili alleati divennero formidabili. Il Vaticano volle usurpare questa medesima indipendenza che avea protetta, scagliò nuovamente l’anatema onde assicurar la sua potenza. Finalmente vennero a logorarsi i suoi fulmini, messi in opera or contra gli amici or contra i nemici, le scomuniche perdettero la loro forza. I papi sorpresi della decadenza loro, si videro costretti ad aver ricorso all’armi straniere. La santa Sede e la corte di Francia formarono tra loro stretta alleanza: i cavalieri francesi inondarono l’Italia; e usurpando in nome del sovrano pontefice la suprema autorità, promettendo libertà, predicando concordia recarono con queste lusinghiere parole e con queste lusinghiere menzogne la schiavitù, il tradimento e la discordia. La fazione popolare e democratica, temendo la dominazione imperiale, attaccavasi alla Francia e serviva gli interessi della santa Sede. Le classi superiori preferivano al contrario la sovranità del re de’Romani. Gli uni sotto nome di Guelfi, favorivano una democrazia sottomessa al Vaticano e protetta dal re di Francia. gli altri sotto nome di Ghibellini, volevano che il governo venisse affidato a’ più ricchi cittadini e sotto l’imperial vassallaggio: questione assai complicata che la maggior parte degli storici non hanno bene capita.
Dante, pel suo personale carattere non che per le sue relazioni, era ghibellino. Ei temeva meno la sovranità lontana dell’imperio che il giogo teocratico di Roma e le estorsioni della Francia: avea d’altronde avversione per la democrazia. Quest’anima fiera e riottosa sdegnava egualmente il popolare governo, le pretensioni di Roma e l’ambizione de’re di Francia. Quando Bonifacio VIII volle aprire a un principe di sangue francese le porte di Firenze, Dante ricusò di ammetterlo; ciò fu cagione del suo esilio. Fedele a’ suoi dogmi politici, tentò indi provare, nel suo trattalo De monarchia, che l’ascendente de’ papi e la loro ostinazione a pigliar parte negli affari temporali dell’Italia aveano insino allora cagionato le calamità del suo paese. Di poi, quando la traslazione della santa Sede nel contado di Avignone e la nominazione successiva di parecchi papi francesi ebbero assicurato il vantaggio alla fazione de’Guelfi, il poeta bandito scrisse ai cardinali12 una lunga lettera nella quale gli scongiurava, in nome dell’indipendenza nazionale, a premunirsi contra le seduzioni dell’influenza francese, e da ora innanzi a non iscegliere che papi italiani. Di mezzo a tai movimenti politici egli fu che coll’anima ulcerata dalle sofferenze dell’esilio, assediata da tristi presagi e abbattuto vedendo il suo partito, Dante scrisse il suo poema. Innanzi l’epoca della sua proscrizione ed allorché esercitava egli una magistratura in Firenze, fu veduto comportarsi con equità e con rigore verso ambedue le fazioni che straziavano la sua patria, infligere lo stesso gastigo ai capi si de’ Ghibellini che de’ Guelfi. Ma quando i suoi concittadini l’ebbero colpito di bando e di nullità politica, quando si vide costretto a condurre di città in città povera ed aspra vita, a tollerare un nome infame per ingiusta sentenza e in balia dell’odio de’ vincitori, tutto svegliossi lo sdegno suo, e le colpe, i delitti che lo accerchiavano d’intorno, dipinti nel suo poema, giunsero a rimbombare nella posterità.
Questa satira politica raggiunto non avrebbe il suo scopo, nè avrebbe fatto veruna impressione sugli spiriti, ove mischiate non vi fossero idee di religione. Il clero, a malgrado dei suoi vizi e della sua ambizione, non era ancor riuscito a distruggere quella enorme possanza di che armossi la religione nell’età di mezzo. La più credula superstizione regnava tuttora: si attendeva la fine del mondo: da ogni parte nascevano nuove sette: al fervore della devozione univansi tutte le follie dell’ignoranza. Onde formarsi un’idea dello stato morale d’Europa, è d’uopo leggere il seguente racconto, che noi riportiamo letteralmente dello storico Leonardo Arretino, testimone, di questo strano avvenimento che ebbe luogo l’anno 1400, e di cui parecchi cronicisti italiani fanno menzione.
«Di mezzo agli spaventi e alle turbolenze della guerra civile (dice quest’esatto annalista, la cui sagacità non è minore de’suoi lumi) si vide alcun che di straordinario. Tutti gli abitanti d’ogni città vestironsi di bianco, si riunirono, in bande e s’incamminarono pel paese, recitando de’salmi, intonando cantici, nè d’altro cibandosi che di pane ed acqua. Egli invocavano la clemenza dell’Altissimo, e a lui chiedevano d’obliare i peccati degli uomini e accordar la pace all’Italia. Immantinente tutti gli italiani senza veruna distinzione, vestirono quella divisa di santità e d innocenza. Cessò ogni guerra; non più nimicizie, non più litigi. Le città nemiche che, poche settimane avanti, facevansi una guerra a morte, posero giù le armi. Non si rammenta una sola offesa, un solo tradimento commesso nello spazio di questa triegua, che durò due intieri mesi: altro pensiero non era che onorar Dio e perdonare. Non ben si sa l’origine di tale avvenimento. Dicesi che i primi pellegrini bianchi scesero dall’Alpi nella Lombardia, e che nel loro cammino, trascinando tutta la popolazione che seguiva il loro esempio, penetrarono fino a Venezia. Gli abitanti di Lucca furono i primi che adottarono il vestimento bianco e si rendettero a Firenze; la loro presenza vi eccitò un fervore di devozione sì ardente, che coloro i quali gli aveano dapprima scherniti e censurati, non tardarono ad adottarne la foggia del vestire e ad unirsi alle processioni, come se fossero stati subitamente ispirati. Il popolo fiorentino si divise in quattro squadre, che seguirono varie direzioni, furono da per tutto accolti come lo erano siati i Lucchesi in Firenze e percorsero l’Italia. Nondimeno calmossi questa gran divozione e nuovamente si corse all’armi13».
Tale si era allora il potere della religione. Alcune sette di manichei, aspirando alla pretesa purità e santità, abbandonavansi, se vuolsi prestar fede a’ cronicisti di quel tempo, alle più infami sconcezze. S. Domenico istituiva la inquisizione e portava ferro e fuoco da per tutto ove credea scorgere l’empietà. I frati minori e predicatori, degenerati ben presto, vivendo ancora i lor fondatori, non rassomigliavano in nulla a’ cistercensi, a’ benedettini, che erano vissuti come i santi Patriarchi da severi asceti o da signori feudali. Eglino introducevansi nelle famiglie, mostravansi in tutti i luoghi, coprivano l’intiero paese, facevansi venerare, odiare e temere, e davano al popolo impaurito lo spettacolo della loro orgogliosa umiltà, dei loro cenci, delle austerità loro, e de’ roghi accesi dalle loro mani. Apransi gli annali dell’inglese benedettino Matteo Paris scrittore di quei tempi, là dove egli parla de’ frati mendicanti. «Il popolo, dic’egli, gli chiama ipocriti, furbi, traditori, adulatori de’ re, consiglieri interessati de’ principi e de’ magnati, predecessori dell’anticristo, falsi apostoli, nemici della vera religione, prevaricatori, tesorieri, violatori del segreto della confessione, usurpatori di province, ambiziosi che nascondono i loro vizi sotto il velo della pietà14».
Allora malgrado il pubblico grido che attaccava quest’armata ambulatoria di mendicanti, malgrado i suoi vizi e le sue colpe, i suoi membri godevano un immenso potere. I domenicani moltiplicarono gli Auto-da-fès a tal segno che Benedetto XI tutto che domenicano egli stesso, fu obbligato di reprimere, con un breve minaccevole, il loro zelo ed ardore a bruciare gli eretici15. Un francescano, fra Giovanni di Vicenza, cambiava le costituzioni della Lombardia. Vedevasi a ciascun mese perir nelle fiamme parecchi astrologi o fattucchieri. Di mezzo a questi abusi della superstizione l’ateismo osava mostrarsi alla scoperta. Pietro d’Ascoli negava l’esistenza degli esseri immateriali; Guido Cavalcanti pubblicava le sue meditazioni contro l’esistenza di Dio. Era questo uno strano caos di fanatismo, d’empietà, di baldanza, di credulità, di barbarie, di licenziosità, di barlumi, d’incertezze, di scetticismo e di dogmatismo; turbine oscuro e procelloso il cui punto centrale era sempre quel pensiero religioso, così barbaramente profanato, oggetto d’un culto così cieco ed ardente.
Riuniscansi ora nello spirito tutti questi elementi di che veniva composto lo stato politico, religioso e morale dell’Europa, e sopratutto dell’Italia; nascer vedrassi, a dir cosi, dalla spontanea loro fusione, il capo-lavoro che ha reso Dante immortale. La fonte del patetico ch’egli impiega con tanto successo, si è la religione; per lei egli è, e pel mezzo de’ terrori e delle speranze della medesima ch’egli ha mosso le passioni, toccato il cuore, spaventato le immaginazioni, esercitato la sublime funzione di punitore e di rimuneratore, di distribuitore di ricompense e di pene. Onde inculcare con più «lì forza questa solenne lezione, egli ha messa l’azione del suo dramma in quella settimana di giubileo quando dugentomila forestieri ciascun giorno giungevano a calca alle porte di Roma16, e l’Europa affluiva nella capitale della cristianità per ottenervi le indulgenze plenarie. Indi aprendo agli sguardi storditi dei suoi contemporanei un’immensa e triplice scena, vi ha sparsa la intera storia dei suoi tempi; letteratura, scienza, costumi, teologia, astronomia; personaggi ben noti; delinquenti ed eroi; uomini celebri per le loro virtù o le loro colpe; tutto quello insomma che eccitava l’interesse, il timore, l’odio o l’amore. Veruna delle umane passioni è da lui dimenticata: tutte le religioni, tutte l’età, tutti i sessi, tutti i popoli sono gli attori del suo dramma. Non gli offre giammai per masse; individualizza mai sempre. Gigantesco per lo insieme della composizione, sorprende il lettore per la precisione dei dettagli. Tutte le idee, tutte le azioni, tutte le emozioni, vengono caratterizzate da questo grand’uomo con ammirabile profondità: ei le classifica, le divide, le ripone a vicenda in mezzo alla celeste gloria, agl’Fonte/commento: 460infernali tormenti, e alle speranze del purgatorio. Ciascheduno de’ suoi personaggi è per lui un oggetto di studio. Egli ripete il loro linguaggio, osserva i loro tratti, riproduce la loro fisonomia, parla con esso loro, loro risponde, li compiange, li biasima, o gli maledice: e per un prodigio, che egli solo ha potuto produrre, tutte queste allusioni, così maestose e così numerose, che spargono una sì gagliarda luce sui caratteri ch’egli osserva, sono non meno rapidi che vivi. Un sol motto a lui basta per compiere la sua analisi, un tratto per dipingere un uomo, un sol colore a rammentare un fatto. I più sublimi suoi tratti passano come il baleno.
Questa energica concentrazione del suo pensiero lo inalza al di sopra di presso che tutti gli scrittori già noli. Shakespeare e Tacito, l’uno con un’abbondanza più poetica e una varietà più brillante, l’altro con un’eloquenza più studiata e più oratoria, soli si ravvicinano a quella forza d’intelligenza che caratterizza il fiorentino. Ma presso quest’ultimo vi ha più di passione che in Shakespeare, più di grandezza che in Tacito, e sotto il rapporto della schietta semplicità, a me pare ch’ei sorpassi e l’uno e l’altro.
Vuol egli dipingere quel Sordello, che dopo lunghi ed inutili sforzi per assicurare la indipendenza dell’Italia, dopo una vita attiva ripiena d’inutili sacrifici, morì accuorato di disperazione! Egli situa quest’amoroso cittadino nel purgatorio, dove lo mostra in disparte dell altre ombre, silenzioso, in sul pensare, immobile. Tutte le anime, curiose di saper novelle della loro patria, si uniscono ai passi di Dante. Sordello rimane solo al suo posto:
Esso non ne diceva alcuna cosa,
Ma lasciavane gir, soloFonte/commento: 460 guardando
A guisa di leon quando si posa.
Purgat., c. vi, 64.
Il poeta trova anche il mezzo onde far conoscere, in alcune parole, un grandioso carattere, non per la sua attività e lo sviluppo di sua forza, ma per la sua inazione e il suo silenzio. A lui avviene assai volte di restringere in tre versi o anche in un solo tutta la vita d’un principe, d’un guerriero, d’un papa. Quando si ragiona di s. Pier Celestino, che rinunziò il papato e cedè ai suggerimenti del suo successore Bonifacio VIII, egli nol nomina; e si contenta dinotar
Colui
Che fece per viltade il gran rifiuto.
Inf., c. iii, 60.
Ricorditi di me che son la Pia.
Siena mi fè; disfecemi maremma;
S’alzi colui che inanellata pria
DisposandoFonte/commento: 460 m’avea colla sua gemma.
Purgat., c. 5, ult.
La tenera melanconica melodia di questo ammirabile passaggio ne accresce l’effetto. Dapprima Madonna già vuole che si faccia di lei memoria; nulla di più tenero che il desio che ella esprime di vivere ancora nella rimembranza degli amici. La timidezza di sua domanda; la maniera con che fossi conoscere, senza scusare se stessa, nè biasimar l’autore di sua morte; il rammentar suo marito ch’ella dinota soltanto facendo allusione alle prime promesse di sua fede e non alla di lui crudeltà; queste dolci idee di felicità e di gioie domestiche, che ricordate rinvengonsi nell’ultimo verso formano il più patetico insieme, nel suo laconismo e nella sua semplicità.
Forse il singolar talento del poeta, il tratto caratteristico del genio, non consistono che in quell’arte misteriosa, in quel potere che concentra in un sol punto assai di sentimenti, d’idee, d’immagini e di memorie. Il genio non procede per analisi, ma per sintesi. Presso i gran poeti non v’ha un solo verso rimarchevole, che non sia il risultato d’una lunga serie di pensieri, d’emozioni, d’ispirazioni, di meditazioni; la loro fusione quasi sempre si opera senza che il sappia l’autore medesimo. Presso Dante le impressioni hanno maggior forza, i movimenti dello spirito sono più rapidi e più numerosi; tutte le evoluzioni della intelligenza, se così fia lecito esprimermi, sono più potenti e più facili. Ei combina più agevolmente i sentimenti colla riflessione e la riflessione co’ fatti. Egli è nato con le medesime facoltà degli altri uomini; non deferisce da loro che per l’attività, l’ardore e il movimento di cui queste facoltà sono dotate.
Se il poeta e l’uomo eloquente devono la loro forza a questo concentramento che ho procurato di spiegare, e di cui Dante mi ha offerto si curiosi esempi, il critico segue un cammino assolutamente diverso. L’uno compone, decompone l’altro. Ciò che ha creato il primo per ispirazione, s’occupa il secondo a disfarlo, per cosi dire, di pezzo in pezzo. Allorchè, in tempi d’una più avanzata civilizzazione, le facoltà del critico e del poeta vengono a combinarsi ne’ medesimi spiriti, nasce allora una novella poesia meno franca, meno schietta, più brillante, mista di metafisica e di conoscenza del mondo; dessa è la poesia di Pope, d’Orazio, di Voltaire; le mediocri intelligenze la preferiscono, e le elevate immaginazioni la disdegnano. Di tutti i poeti primitivi, che hanno cantato, a cosi dire, per istinto e per ubbidire al movimento della loro anima, Omero e Dante sono i primi e i più grandi. La società che era loro d’intorno trovasi riflessa ne’ loro poemi, ed i popoli non che i re, il presente non che l’avvenire , vi hanno trovato de’ grandi insegnamenti.
Io non isvilupperò a di lungo le analogie e le deferenze clic si rinvengono fra il greco rapsodo e il cantor ghibellino. Come il primo rappresenta la beltà Ellenica nella suo originale purità, il secondo offresi a noi simbolo terribile del genio del medio evo. Gli sì è rimproverato17 una tal quale austerità dura e crudele: uno spirito altiero e inflessibile che, dicesi, si fa sentire insino ne suoi versi, un’asprezza insomma che Schlegel chiama ghibellina. Noi riguardiamo questa critica come ingiusta e dettata dalla brama dello scrittore alemanno di vendicare i romani pontefici malmenati da Dante. Indigente, bandito, avea dritto l‘ Alighieri di lagnarsi: in faccia alle calamità della sua patria, egli avea diritto di maledirne gli autori; ma l’anima la più gagliarda e la più sensibile si svela ad ogni istante nella di lui opera. Egli v’ha disseminato deliziose comparazioni, tratte dalla vita campestre o che vi si riferiscono; e sotto l’allegorico velo ch’egli ha tessuto, la sincerità del di lui amore per Beatrice, compagna della prima sua infanzia, oggetto della passione di tutta la sua vita, costantemente ci comparisce, onde moderar l’ira sua e raddolcire il sentimento delle sue pene. Gli è vero che la memoria degli oltraggi ch’egli ha ricevuti lo perseguita nelle stesse regioni dell’eterna luce, ch’ei dice insieme al suo secolo,
Che bell’onor s’acquista in far vendetta18.
Che in mezzo agli angioli e ai santi, il nome di Firenze gli è cagione di una emozione trista, penosa e funesta; ma in questi passaggi si manifesta l’ardore, la delicatezza, la bontà del di lui cuore così grande, così passionato? Leggete la sua opera in prosa che egli intitola il Convito; e’ vi parla della sua patria colla più profonda tenerezza. Rammenta l’ingiustizia de’suoi concittadini, come un errore e non già come un delitto; prega Iddio che le sue ossa riposar possano un giorno in questa patria si cara. «Ah! piaciuto fosse al dispensatore dell’universo che la cagione della mia scusa non mai vi fosse stata! Che nè altri contro me avria fallato, nè io sofferto avrei pena ingiustamente; pena, dico, d’esilio e di povertà, poiché fu piacere de’ cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno, nel quale nato e nudrito fui fino al colmo della mia vita, o nel quale con buona pace di quella desidero con tutto il cuore di riponere l’animo stanco e terminare il tempo che mi è dato». Da questa apostrofe può rilevarsi il carattere d’eloquenza, d’unzione, di sensibilità, di patetico del padre della nostra lingua!
Tuttavolta noi non intendiamo volere trasformar Dante in poeta sentimentale. Portava egli, secondo che ci siamo sforzati di provarlo nel corso di quest’articolo la profonda e indelebile impronta del suo secolo. A quell’epoca in cui la forza giunger facevasi fino all’ecccsso, l’originalità sino alla più strana fantasticaggine; tutto era grandioso, delitti e passioni, vizi e virtù. La vendetta era un dovere una legge; lasciare impunita un’offesa era lo stesso che perdere la dignità di uomo. Quando il nostro poeta percorre l’inferno, un’ombra minaccevole fissa su di lui sguardi feroci; Virgilio, che arrestar lo vede gli ordina di proseguire il viaggio:
O duca mio, la violenta morte,
Che non gli è vendicata ancor, diss’io,
Per alcun che dell’onta sia consorte,
Fece lui disdegnoso: onde sen gio
Senza parlarmi si com’io stimo;
Ed in ciò m’ha e’ fatto a se più pio.
Inf., c. xx, 31, 36.
Quest’uomo straordinario alle cui opere tanti critici han consacrate le loro veglie, non ha sinora trovato uno storico degno di lui; niuno ha saputo penetrar finora intimamente nello spirito del medio evo, onde perfettamente schiarire ai nostri occhi un così grande ma non men bizzarro fenomeno. Perchè si compia un tal disegno, bisognerebbe non solo, siccome mi son provato di fare, abbozzar a gran tocchi l’istoria morale di quest’epoca, ma mostrarci Firenze, co’ suoi costumi, colle sue passioni, colle sue idee repubblicane insieme e cristiane: difficile ma interessante carriera che io mi contenterò indicare a quegli spiriti poco comuni che recar sanno nello studio dei capi d’opera d’intelligenza ed osservazione filosofica e scrupolosa.
Ma qual genere di letteratura, quai travagli, quale profonda conoscenza dell’italiana favella non richiederebbe tale impresa? con Dante egli è che comincia, da lui solo egli è che data la civilizzazione dell’italiana penisola. Senza lo studio dell’idioma provenzale, senza aver percorso con attenzione il progredimento de’ lumi rinascenti, da Napoli a Firenze, e da Firenze a Roma, non si arriverà giammai a soddisfare all’impresa da me indicata. Bisognerà trarre dalla polvere delle biblioteche tutto ciò che può gettar lume sul XIII e XIV secolo; dicifrar manoscritti, studiar le usanze e i costumi dell’Italia sotto il pontificato di Bonifacio e de’ suoi predecessori. Bisognerà sopratutto evitar l’errore commesso da tutti i biografi, che confondono l’epoca di Dante con quella di Boccaccio e del Petrarca, che per nulla si rassomigliano tra loro. Questi due ultimi scrittori cominciano una novella era letteraria. Dante perir vide le italiane repubbliche; e fremendo del cader loro, consacrò ne’ suoi versi la rimembranza della sua indignazione e del suo dolore. Boccaccio e Petrarca al contrario, sono vissuti a una novella epoca, sotto un nuovo governo, risultato della rivoluzione di cui il poeta della Divina Commedia era stato il testimone e la vittima.
Tra i rimarchevoli ed incogniti documenti, che l’autore d’una buona vita di Dante non dovrà punto negligere, noi citeremo la seguente lettera, che abbiamo scoverta nella Biblioteca Laurenziana19 e che qui riportiamo traducendola esattamente dall’originale testo latino conservando con diligenza l’ortografia non solo, ma la punteggiatura eziandio del manoscritto. Intorno all’anno 1316 gli amici del poeta ottennero del governo fiorentino il di lui richiamo e la reintegrazione a patto ch’ei farebbe onorevole ammenda nella cattedrale di Firenze, e chiederebbe perdono alla repubblica dopo aver pagato una certa somma di danaro. Ecco ciò ch’egli risponde ad uno ecclesiastico suo parente.
«La vostra lettera che io ho ricevuta con lo rispetto e l’afflezione che vi si dee, dammi a divedere quanto avete a cuore il mio ritorno alla patria: io sono altrettanto a voi grato quanto più raro egli è che un bandito trovi degli amici. Dopo matura riflessione io vi rispondo: forse la mia risoluzione non sarà conforme alle brame di certi spiriti pusillanimi, ed io affettuosamente me ne rimetto al giudicio che ne farà la prudenza vostra. Il vostro e mio nipote mi han fatto sapere ciò che molti altri amici significato mi avevano, cioè a dire che dietro un ordine recentemente dato a Fiorenza per riguardo ai banditi, io rientrar posso nella mia patria, sotto la con dizione di pagare un’ammenda e sottomettermi alla umiliazione di chiedere e ricevere il mio perdono. Nel che, padre mio, io noto due cose ridicole, impertinenti; dico impertinenti, padre mio, non già a vostro riguardo che nella vostra lettera dettata dalla discrezione e dalla saviezza, niuna menzione mi avete fatto di ciò, ma per coloro che indirizzata mi hanno una tal proposizione. Sarà egli per sì gloriosa strada che Dante Alighieri, dopo quindic’anni d’esilio rientrar debba in sua patria? sarà questa la ricompensa della purità d’una coscienza a tutto il mondo ben conosciuta? Lungi da me lungi da un uomo, che ha in sollievo e conforto la filosofia questa bassezza d’interesse, questa abiezione dell’anima, che si offre piedi e mani legate all’ignominia e all’infamia. Lungi da me che per tutta la mia vita ho predicato la giustizia, e il pensiero di comprare a prezzo di danaro il mio perdono, e pagare i miei persecutori come se miei benefattori egli fossero! Nò padre mio, non sarà per questa strada il mio ritorno alla patria? Trovatemi pure, o che altri indicarmi sappiano una strada onorevole un mezzo che non offenda la gloria di Dante, ed io mi affretterò, io volerò di nuovo nelle vostre braccia: ma se per rientrare in Fiorenza non v’ha che un tal cammino, giammai io sarò per ritornare a Fiorenza. E che! non godrò io forse in ogni altro paese l’aspetto degli astri e del cielo? Non potrò io forse in tutti i luoghi della terra, contemplar con piacere le immagini della eterna verità? E fia egli duopo che incominci dall’avvilirmi, dallo rendermi infame agli occhi de’ miei concittadini, agli occhi della mia patria? insomma non sarà mai per mancarmi il pane».
Chi crederebbe che questo sublime slancio dell’anima di Dante, cotesta testimonianza della indomabile forza che caratterizzava il vecchio ghibellino, cotesto pezzo così eloquente e che tramanda più di luce sul carattere del poema che venti volumi di note, non vada a sangue dei critici?
Note
- ↑
Lo ministro maggior della natura
Che del valor del cielo il mondo imprenta
E col suo lume il tempo ne misura
Parad., c. x, v. 28.
- ↑
Come distinta da minori e maggi
Lumi biancheggia tra i poli del mondo
Galassia sì, che fa dubitar ben saggi
Parad., c. xiv, v. 97.
- ↑
. . . .E vidi quattro stelle
Non viste mai, fuor che alla prima gente.
Purgat., c. I, v. 23 seg.
- ↑ Osservazioni intorno alla quististione sopra la originalità di Dante, di Franc. Cancellieri. Roma 1814.
- ↑ Questa religiosa aveva per nome Corneau: scriveva con eleganza e qualche volta con eloquenza. Bossuet era con lei in corrispondenza di lettere; e il tono mistico dello medesime è di tal natura a sorprendere coloro che sono a giorno delle particolarità della di lui contesa col celebre Fenelon. Ved. l’ediz. di Dom. Deforis, l. xiv.
- ↑ Histor. Anglic. anno 1196.
- ↑
Quando ci scorso Cerbero il gran vermo
Inf., c. vi, v. 22.
- ↑ Capo 8, v. 3,
- ↑ Daniel cap. 2.
- ↑ Parad. cap. 25.
- ↑ Labbe collect. Eonc.
- ↑ Veggasi il Villani, lib. ix, cap. 4.
- ↑ Hist. fiorent., lib. xiii, cap. 1.
- ↑ Hist. Angl. ad an. 1256, pag. 939, edit. 1640.
- ↑ 11 Marzo 1304.
- ↑ Muratori, Annal., an. 1300.
- ↑ Schlegel, Storia della letteratura, cap. 9
- ↑ Per una singolarità degna da osservarsi, questo verso non si trova nell’inferno di Dante, ma in una delle canzoni più tenere che abbia scritto questo poeta.
- ↑ Pluteo 29, cod. viii,pag. 123. Questa lettera leggesi diversamente tradotta nel testo ed originale in nota alla pag. 183 di questa edizione.Fonte/commento: 460