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menti, e alle speranze del purgatorio. Ciascheduno de’ suoi personaggi è per lui un oggetto di studio. Egli ripete il loro linguaggio, osserva i loro tratti, riproduce la loro fisonomia, parla con esso loro, loro risponde, li compiange, li biasima, o gli maledice: e per un prodigio, che egli solo ha potuto produrre, tutte queste allusioni, così maestose e così numerose, che spargono una sì gagliarda luce sui caratteri ch’egli osserva, sono non meno rapidi che vivi. Un sol motto a lui basta per compiere la sua analisi, un tratto per dipingere un uomo, un sol colore a rammentare un fatto. I più sublimi suoi tratti passano come il baleno.
Questa energica concentrazione del suo pensiero lo inalza al di sopra di presso che tutti gli scrittori già noli. Shakespeare e Tacito, l’uno con un’abbondanza più poetica e una varietà più brillante, l’altro con un’eloquenza più studiata e più oratoria, soli si ravvicinano a quella forza d’intelligenza che caratterizza il fiorentino. Ma presso quest’ultimo vi ha più di passione che in Shakespeare, più di grandezza che in Tacito, e sotto il rapporto della schietta semplicità, a me pare ch’ei sorpassi e l’uno e l’altro.
Vuol egli dipingere quel Sordello, che dopo