Cose vedute/Prefazione
Questo testo è incompleto. |
◄ | Cose vedute | Nunzia | ► |
PREFAZIONE
Perchè la sua famiglia me ne ha gentilmente pregato, io parlo qui di Giuseppe Cesare Abba, al quale è quasi superflua la mia parola, perchè nessuno, in quello che lasciò scritto, e in quanto operò, espresse più chiaramente sè stesso, in forma che gli era connaturale, senza grandiosi gesti ora- torì, e senza quelle orpellature che risplendono più dell’oro. Cedo dunque al desiderio dell’afflitta famiglia, ma parlando di quest'uomo e di questo scrittore, come so, vorrei risparmiarmi le frasi, il che non è facile ai tempi che corrono. La nudità aitante, quasi inconsapevole, e pur tesa in un vi- gile proposito, quale apparisce in ogni muscolo del David michelangiolesco, mi torna a mente al- lorquando ripenso al mio amico, che mirò sempre, nella vita e nell’opera letteraria, a un’ardua altezza ideale. Come scrittore egli non dette quanto avrebbe potuto, se gli fosse stato concesso un più largo respiro d’agiato riposo e di libertà. Prima le guerre — to —
dell’indipendenza, poi le cure della famiglia cre- scente, gli obblighi della scuola secondaria gover- nativa, lo avvolsero in maniera da impedire al poeta e all’artista la grandezza di cui eran capaci. E anche in questo sacrifizio del proprio ingegno, anche in quello che gli apportò di logoramento e di pena, pazientemente sofferta, fu eroe. Vero eroe, tutto in sè, non capitan Fracassa, non d’Artagnan, e neanche il rozzo Fanfulla da Lodi, ma confor- mato, com’egli era, alla gentilezza del sentimento romantico e cristiano, il D’Azeglio, se mai, avrebbe riconosciuto in lui il modello vivente del suo Ettore Fieramosca. Del resto riscontrasi in tutti i tempi quasi una somiglianza di famiglia fra certi tipi, e anche l’antichità classica ne lasciò un esempio scul- torio nell’ Achille di Omero. Spogliando il Pelide della forza sterminatrice del mito, l’uomo che piange e s’adira sì passionatamente per l’ingiustizia patita e per la morte di Patroclo, è fratello a ognuno che sorti da natura generosità straordinaria d’affetti. Se non che una simile generosità aveva nell’ Abba carattere singolare dalla bontà del suo cuore lirico, impulsivo, ma sottoposto al freno della coscienza. Pareva, parlando e operando, temer sempre d’of- fendere quella che credeva la parte immortale e divina di sè: il suo intimo io.
Tale essendo, egli potè scolpire se stesso nel proprio stile dopo essere stato parte, egli pure, di quella grande coscienza che accolse, in un'idea e in una prova titanica i più eletti cuori d’Italia, e
ne rifece le sorti. [ai 22 AC
Un suo canto in morte di Francesco Nullo, fu occasione della nostra conoscenza a Pisa, nel no- vembre 1864.
Quel vecchio canto, che oggi si ristampa dalla Società Editrice Nazionale nella seconda edizione dei « Vecchi versi » dell’Abba, potrà forse oggi parer prolisso e antiquato: a me piace sempre. Io vi ritrovo le aure di quei giorni, il fuoco sacro che condusse allora la più balda gioventù d’Italia da Calatafimi a Mentana. Contenerlo, in quegli anni di vive ma ancora incerte speranze, era una delle cure più difficili dello Stato. Anche quei pochi garibaldini stanziati a Pisa (tra cui l’Abba era il più notevole) tenevano sempre all’erta la polizia. A quei giovani, mentre Venezia e Roma attendevano, pa- reva ogni tregua colpevole e vile. Essi mettevano Re Vittorio, Cavour, Napoleone e tutti i generali piemontesi, sotto il piede di Garibaldi, ferito a Aspromonte, e che mandava a quando a quando da Caprera la sua gran voce. Quella voce per loro era più potente degli eserciti d'Austria e Francia, che contendevano ancora all’Italia le sue due grandi regine. Il loro affetto di patria prendeva impeto temerario dallo spirito di quello che era detto partito d’azione, o dei frementi: così si dicevano per ischerno, e i frementi, di rimando, appellavan malsi >
voni, i moderati monarchici che volevano si an- dasse a Roma e a Venezia più cautamente, con equilibrio più dinamico e ponderato. Moderatissimi erano i professori universitari, e perciò non troppo ossequiati da quei garibaldini, che pure dovevano avere da coloro il dottorato o l’avvocatura. Pas- sava per un gran malvone anche Silvestro Cento- fanti, il rettore, ottimo uomo, autore d’un bellis- simo discorso sulla letteratura greca, e nel 48, di carmi patriottici; decano dell’Ateneo, amico di Gino Capponi e del Niccolini. Un giorno, lì sulla porta dell’Università, uno di quei giovinotti, studente
di legge, passa, e non lo degna. — Perchè non saluta? — gli domanda il rettore. — E chi è lei? — gli risponde l’altro — io l’aveva preso per un
caporale profosso !
Una tale biasimevole irriverenza non fu forse che una vanteria di quel giovinotto, e con essa egli certo non intese d’offendere il venerando uomo, ma soltanto il malvone, e l’autorità costituita, cioè, secondo lui, un nemico d’Italia e della repubblica. E basti questo piccolo aneddoto a ritrarre l’umore dei tempi. Del resto i più di quei giovani non erano turbolenti, ma seri; alcuni taciturni e medi- tabondi. Facevano vita a sè, e raccolti in pochi, con l’Abba, parevano i tredici di Barletta. Non c'era giorno che colà nell’osteria di Mastromei, dove si raccoglievano a mensa, non parlassero caldamente del Generale.
L’Abba ammirava il Generale come un eroe che
fosse uscito dalla fantasia di Byron, e si fosse » sh incarnato per la redenzione d’Italia, e di tutti i po- poli. Andava a visitarlo a Caprera, andava a Gavi- nana (1) a inchinarsi alla memoria di Francesco Ferruccio; ma la facile enfasi patriottica non s’u- diva mai sul suo labbro; era studioso, malinco- nico e mite. Parlava con sobria pacatezza anche agli studenti di opinioni opposte alle sue, sempre mosso da un suo sentimento patrio commisto al- l’amore umano. Poichè egli desiderava che dopo la rivoluzione italiana, un sincero spirito di giu- stizia elevasse tutta l’umanità a beneficio dei più poveri e dei più sofferenti. E per amore dei servi abbozzò allora lo Spartaco, tragedia che poi non fini, e me ne scriveva più tardi: « Lo Spartaco temo di portarlo meco a ruggire nel mio petto sino alla morte ». Questi ruggiti ei gli conteneva nel cuore; e se gli apparivano nella parola spesso penosa, non erano mai le solite vane declama- zioni. In fondo a quell’agitazione di anime libere ed esaltate, era del dolore, era l’ira impaziente di metter fine alla prepotenza straniera e macchiata del più puro sangue d’Italia, era il generoso desi- derio di stabilire la società civile su basi più giuste. L’Abba si aspettava grandi cose dall’avvenire tut- t’altro che roseo, ma più equo. « Il nostro secolo (egli mi scriveva da Cairo Montenotte) finirà con la lotta degli operai contro la borghesia; il venturo comincierà coi soprusi degli operai, e finirà con la
(1) V. lo scritto « A Gavinana » nel volume Cose gari- baldine. S.T.E.N., 1907. - 2% edizione 1912. = lotta dei contadini contro di loro: non esisterà altra distinzione se non dell’ingegno, e l’ingegno si contenterà di fare il bene per tutti ».
Illusioni giovanili?.... Quel che volete, ma tutte proprie di lui, anima sinceramente mazziniana e tolstoiana.
In una sua lettera del 73, trovo scritto: « Gli anni che passammo a Pisa, saranno sempre noverati da me. fra i meno vani della mia vita. Là io pativa, pativa, e a quel modo che io vorrei patire per sempre ».
Infatti, nel corso de’ suoi anni, io non lo vidi mai così malinconico come in quel tempo che egli poi rimpianse, forse perchè i dolori giovanili, accompagnati dall’illusione e dalla speranza, sono meno acerbi di quelli che ci sopravvengono in età più matura. Del resto pareva ch’egli ponesse tutta la sua buona volontà a tormentarsi. Uomo del nord, più che della nostra gioconda zona del mezzo- giorno, pareva voler aguzzare in sè il patimento perchè vi sentiva una virtù affinatrice e purificante; perchè dal patire egli traeva una forza di dominio su quanto ci viene trasmesso di meno alto e di meno buono da una inevitabile eredità e da contagiose in- fluenze; perchè sopportando nobilmente il dolore, gli pareva di sentirsi meno lontano da quell’ideale di grandezza e di gloria, il cui apice gli appariva
« — I5—
nell'immagine d’una morte eroica come quella in- contrata, al ponte dell’Ammiraglio, dal giovane colonnello Tukòry. Ne descriveva, in quei giorni di Pisa, i funerali nel suo poema l’Arrigo, coi versi seguenti, la cui mestizia è pari a quella della sua voce concitata, sommessa, con la quale me li di- ceva pallido e a fronte alta, in una delle nostre pas- seggiate vespertine per la pineta di San Rossore:
+ + + . si diffondea per l’aure Un armonia di bellici istrumenti Pietosa, e a quella, con alterna vece, Sposato un metro di funerei canti. Eminente venia per l’ampia folla Portato un negro feretro, sul manto Funerale brillavano conserte A mo’ di croce due superbe lame, L’avanzava coverto di gramaglia Un generoso corridor, dimesso La testa e la foltissima criniera, Quasi conscio dell’ultimo viaggio Di chi in battaglia gli premeva i lombi. Eran le esequie tue, giovane e fiera Alma magiara . . rela di «RATE RD clogai gaudio, Diogni trionfo, d ogni trono in terra Meglio quel mesto feretro e quei pianti!»
Egli aveva seguito questi funerali del Tukòry nel giugno 1860, coi superstiti dei Mille per le vie di Palermo, già battute dalla mitraglia e accalcate di popolo, nè allora s'immaginava che onori funebri non meno solenni sarebbero stati resi alla sua salma, tanti anni più tardi, per le strade di Brescia,
in mezzo al compianto d’Italia. Cal hdi
6 —
E ora al brano dell’Arrigo io fo seguire altri versi mestissimi, scritti da lui nell’87. Vi riconferma quel suo giovanile desio, ma per soggiungere che egli ormai non vorrebbe morire ignorando gli eventi che si maturano nel ciclo vorticoso quale ora si svolge:
« Poichè con voi negli epici di che parea la morte, Tra le cose gentili, la più gentile e forte, E, ambito guiderdon, Il cavalier d’Italia, a chi il seguiva in guerra, Offria per tenda il cielo, e per letto la terra, E Dio per testimon: Poichè con voi, magnanimi, morti sui patrî campi, Puro, credente, giovane, della gloria fra i lampi, Io non potei finir; Se anche d’amaro tedio piena è la vita, e l’ora Precipitò, se all'anima tutto si discolora, Or non vorrei morir! Paurosi i crepuscoli di questa età fuggente Son troppo, alto nell’aere tumultiiar si sente Non so quale uragan; Morire, e il fin dell’ultime pugne ignorar che poscia Tormenteranno gli uomini, è un pensier che m’angoscia E ch’io discaccio invan ».
Cosi egli cantò a Pisa da giovane, e così da adulto, e padre di numerosa famiglia, egli ripeteva il suo carme nella sua laboriosa casa di Brescia, sem- pre col medesimo cuore sincero che pare si avventi in alto a ridire la sua infinita tristezza. Di — 17
rado egli sorrideva, nè ricordo d’averlo mai visto abbandonarsi al riso spensieratamente giocondo. Pa- reva non poter mai obliare che la vita è seria, è una responsabilità di coscienza, non una formida- bile e futile buffonata del caso. Quella sua tempra d’acciaio, ben resistente alla prova dei cimenti e delle sventure che non gli mancarono, tra cui la morte d’una figliuola amatissima; era poi sì profon- damente commovibile che egli poteva accorarsi anche a un'immagine di dolore offertagli da cosa che, come si suppone, non ebbe l’infausta facoltà del soffrire. Mi diceva a tal proposito che udendo da bambino mugolare il vento invernale, egli pen- sava alle povere pianticelle esposte sulle mura del paese a quel freddo, mentre lui intanto se ne stava caldo nel suo lettuccio. E soggiungeva di somigliare in questo a sua madre, la quale, come egli mi disse anche l’ultima volta che ci vedemmo, fattasi della camicia rossa del figlio un ruvido cilizio, lo portò sempre segretamente, ed ei non lo seppe se non quando glie lo vide indosso da morta. Morbosa sensibilità sarà detto, e certo non quella dei fortunati che possono sempre trovare un facile equilibrio nel proprio egoismo. Mettete tutti gli egoismi e tutte le ambizioni umane nel cervello di Napoleone, ed egli vi sacrificherà milioni d’uomini per un impero di quindici anni. Ma per rifare la fede, l’arte, la patria, la civiltà, occorre il cuore di Cristo, di San Fran- cesco, di Dante, di Mazzini, di Garibaldi; e l’Abba aveva pure in sè un frammento di quella scintilla divina. Se da fanciullo le lacrime delle cose lo
ABBA. — Cose vedute. 2 Ia
commovevano fino al pianto, a questa sua imma- ginativa dello spasimo altrui egli accompagnava la forza virile de’ più saldi propositi. Così impres- sionabile, deve avere ben sussultato udendo il primo tuonar del cannone; ma pur tenne fermo, e sempre col pensiero d’una morte eroica, corse a caricare alla baionetta i nemici d’Italia.
I più forti e i più gentili poeti l'avevano educato prima che egli prendesse le armi, giovanissimo: Virgilio, Dante, il Foscolo erano stati i suoi padri intellettuali, e il suo clima, quello che, prima che sorgesse la nuova Europa, fu la coscienza, la poesia dolorosa dei popoli sospiranti la libertà, cioè il romanticismo. ÉNon quello falso e volgare delle educande, e dei seminari, novella rifioritura di pic- coli arcadi, poteva imprimere negli animi preparati un carattere d’elevatezza cavalleresca, e disporli a soffrire, combattere e morire per un’alta idea di giustizia; tanto che i martiri italiani che si succe- dono dalla caduta dell’impero napoleonico fin quasi al cinquantanove, hanno tutti come un colore di santità religiosa, quasi Dio, con tutta una genera- zione, li movesse a una meta. Il romanticismo più fecondo fu quello dei sommi intelletti, i quali, nella sintesi del loro acuto pensiero, poterono riassumere le più alte verità dello spirito e della storia, com'è, ad esempio, nei due cori dell’Adelchi, e massime nel primo di essi, ove la verità storica di tre popoli si delinea ben netta nel drammatico e particolare loro destino di quel momento, e al volgo d’Italia innominato e disperso, che non combatte, ma at— .tî9 —
tende e sogna, si dà il più terribile avviso e il più vero che mai un poeta potesse dare, in quei giorni, a un popolo decaduto ed illuso. Ma questo romanticismo che afferma una giustizia storica e insieme provvidenziale, va di pari passo con l’altro del dubbio metafisico, dell’ironia mefistofelica, e della disperazione; onde quei fantasmi tragici e scrutatori quali l’antichità non conobbe; e sono come le ombre proiettate, nei suoi grandi capola- vori, dal pensiero umano tanto più adulto, e di- sciolto dalle vecchie illusioni. Terribile momento questo, in cui l’uomo, nell’infinito ordine del creato, più non intende sè stesso, o se s'intende quale par- tecipe al destino d’ogni apparenza momentanea e vanamente vitale, vi si ribella; non l’appaga più la fede ingenua e neanche la scienza, e un nuovo dolore, quello dello spirito irrequieto, anelante e non rassegnato, penetra nella letteratura con quelli che direi i fratelli d’Amleto, e sono i Werther, i Fausti, i Manfredi, i Consalvo. L’Abba pati egli pure il contagio di questo romanticismo luttuoso, che è la grande poesia sorta dallo spirito della Ri- forma, opposta alla poesia di tradizione cattolica e medioevale, così certa delle tenebre e dei lumi dell'Universo; ed egli che nel Medio Evo sarebbe stato un mistico ben sicuro, come l’Alighieri, della sua fede, ne sentiva ora mancare sempre più il respiro consolatore alla nostra civiltà decadente. La fede in una finalità non effimera e non circoscritta come quella del verme, innalzava gli spiriti di quest'uomo, che d’altronde contava sì poco le gioie materiali. cio
I più invece se ne appagano, e lo scarso consenso a quelle voci intime, che sono sempre le più esi- genti e le più tenaci, fu tra le cause, credo, per cui egli non depose mai quella sua severa mestizia.
- XE
Con tale mestizia nel viso buono e marziale, io lo riveggo oggi che non è più. Lo riveggo gio- vane, passeggiare con que’ suoi lenti e malinconici passi per le vie solitarie di Pisa, lo riveggo in quella sua camera di via Santa Maria, sì poco ammobigliata, annebbiata dal fumo del suo virginia, con due o tre compagni più fidi, seduti intorno a quella tavola verde: egli si esalta in Virgilio, nel Foscolo, nel Mazzini, e tutti si- esaltano in Garibaldi, negli uomini della rivoluzione francese, ovvero combi- nano, sulla carta d’Italia, dei piani strategici come giovani generali alla vigilia d’una battaglia. L’Abba sorgeva talora, in quei colloqui, come un tribuno inesorabile, invocante una gran vendetta sociale, ma chi vuol sapere che cuore avesse questo tri- buno, legga questa pagina che un giorno mi donò manoscritta in quella sua camera a Pisa. Il giovane romantico, finito il 59, così racconta il suo ritorno al paese natale:
« Moriva l’ottobre dell’anno 1859. Nel piccolo « villaggio di Melzo, a poche miglia da Milano, « stavano, come si dice nelle milizie, accantonati i « due primi squadroni dei Cavalleggeri d’Aosta. ine FT)
« Era a questo Reggimento che sette mesi innanzi «io mi ero ascritto a Pinerolo, portando meco tutte le splendide illusioni che a vent'anni fan battere il cuore d’un montanaro.
« Un bel mattimo, molt’ora prima che la tromba rompesse il sonno de’ miei commilitoni, io stavo « già pronto a partire. Le mie due camicie, ram- « mendate le tante volte dalla mia mano, erano « l’unico fardello che doveva accompagnarmi. Più « povero io non potevo essere davvero. Eppure nel mio petto era una soave allegrezza, e le di- ciotto lire della mia borsa, mi sembravano un tesoro invidiabile dal più felice mortale. Era la «somma che mi occorreva, non un centesimo di « più, per giungere a casa mia.
«Io me ne scesi alla scuderia. Il mio grande «amico pareva mi avesse atteso tutta la notte, « perchè nel sentire il mio passo, nitrì di contento. « M’accostai con affetto inesprimibile, e stazzonan- « dogli il collo superbo e lisciandogli la criniera, « gli dissi addio. Forse mi avrà compreso; ma ad « ogni modo quel giorno non ebbe più pane, nè « sale dalla solita mano, epperò avrà pensato che «io non v'era più. All’alba me ne partiva con la « via ferrata, abbandonando per sempre quella vi- « gorosa famiglia di cavalieri; solo, senz’arme, ve- « stito soltanto della bassa tenuta, e con le due « camicie nella logora sacca. Milano, Magenta, No- « vara. Qui faccio sosta per rammentarmi che vi- « sitai l’amico mio Edgardo, soldato di fanteria, ed « allievo della scuola militare. E seguitando il mio
a
[ e —
« viaggio, povero quanto allegro, una sera all’Avem- « maria giunsi a Savona. Mi rimanevano quindici « centesimi appena. Le viscere latravano davvero; « eppure non vera pane, ed era forza imporre « silenzio ai loro lamenti. M’avviai lentamente sulla « strada che mena ai miei monti, e quell’aria già « fredda che a buffi frequenti mi percuoteva nel « volto, ristorava il mio petto. Camminava spedito, « e il rumore degli sproni distraeva la mia mente « come una soave armonia. Alla solitaria taverna che « fiancheggia la strada poco distante dalla città, « bevvi tanta acquavite quanta me ne fu data per «i miei centesimi, e rinvigorito ripresi la via. La « luna splendeva bellissima sopra il mio capo, ed io guardavo la mia ombra che rapidamente scor- reva sul margine della via. Rividi così ad una ad una le cime de’ monti feconde di memorie infantili: Cadibona mi parve più bella colla sua torre cupa, fredda e pesante, in Altare passai come attraverso ad un cimitero. Ma a Carcare il mio cuore si commosse profondamente. Cinque « anni innanzi quel villaggio mi aveva veduto spen- « sierato e felice, ora conforto, ora disperazione « de’ miei maestri. Le vie erano solitarie, e in faccia « al Collegio m’arrestai lungamente. Battevano le « due. Oh! quante volte quell'ora m’aveva scosso « trovandomi col capo reclinato sul mio Virgilio, «a mormorare le cento volte un esametro che mi « rivelava delle melodie divine! E per la prima « volta pensai alla fuga degli anni, e rimpiansi il « passato che come folgore mi balenava dinanzi...
“
[ — 23 —
« M’appoggiai al muricciuolo del pozzo e l’anima « mia si fece triste. Quando suonarono le tre io « stavo ancora in quell’atto. Ripresi la via lenta- « mente come chi si stacca da cosa caramente di- « letta. Dopo un’ ora battevo alla porta modesta « del padre mio. M’aperse mia sorella. Io non di- « menticherò mai l’impressione provata ripassando « quella soglia dopo tanti mesi di lontananza, chè « allora mi parevano tanti davvero! Abbracciai, « baciai la sorella mia che a stento poteva parlare, «e dopo pochi minuti la fiamma guizzava lieta « nel focolare tanto invocato, e rischiarava tutta la « famiglia festosa e raccolta d’intorno a me. Mi « guardavano con aria d’orgogliosa compiacenza, e « mia Madre ad ogni istante, a mirarla, pareva rin- « giovanita. Povera donna! quanto aveva sofferto! « Ma quando alla luce del focolare guardai più « attentamente mio Padre, e vidi i suoi capelli che «avevano incominciato a incanutire nella mia lon- « tananza, sentii una stretta al cuore, e mi parve « di piangere. Ma essi non se n’avvidero, e se- « demmo e ragionammo fino alla punta del giorno. « Mio Padre fumava la sua pipa campagnola, mia « Madre preparava il caffè, andava, tornava, rideva, « m’interrogava, piangeva, e pareva non credesse « d’essere desta. Tutti gareggiavano a farsi narrare « la storia di quei sette mesi. Io fumava e mi « guardava gli sproni ».
Sentiamo anche in questa pagina sì severamente affettuosa, quello spirito militare e cavalleresco che dava al suo viso, abitualmente malinconico, un’imLIRE pronta di nobiltà e di fierezza. Egli si congeda all’alba « con affetto inesprimibile » dal « suo grande amico » il cavallo del reggimento, il quale, come i cavalli dell’epopea, ha quasi un’anima umana: più tardi quel cavallo penserà che il suo padrone è partito. E il padrone parte a piedi, e durante il suo viaggio ‘notturno sotto la tacita luna, con pochi cente- simi in tasca, e la fame in corpo, gli sproni suo- nanti lo distraggono « come una soave armonia ». Più s’avvicina al paese, e più i ricordi lo com- muovono. Si sofferma a notte avanzata davanti al collegio di Carcare, e qui pensa, giovane di venti anni, all’amara fuga del tempo, all’adolescente che non è più, e che visse entro quelle mura sotto la | disciplina del buon maestro, da cui udi la prima volta Virgilio, e che egli ricordava spesso con ri- conoscenza filiale (1). E giunto a casa che tesoro di note flebili rivedendo, dopo quell’assenza sì pe- rigliosa, i suoi cari! La sorella gli parla a stento, il figliuolo s’accorge che il padre è imbiancato, la madre invece è ringiovanita dalla gioia. Il figliuolo, seduto al focolare, piange in silenzio, e si guarda gli sproni. Pare che con gli occhi fissi su quegli sproni, egli mescoli agli affetti tumultuosi di quel momento, anche il rammarico d’aver lasciato il suo cavallo, e di non essere più soldato.
(1) Lo ricorda anche nelle « Noterelle d’uno dei Mille ». — 25 —
Questa pagina che ritrae sì fedelmente il giovane Abba in seno alla sua famiglia, è il proemio mi- gliore alle sue novelle raccolte in questo volume, ove gli affetti di famiglia hanno sì larga parte, ove la famiglia, in quella esemplare del dottor Asquini, è rappresentata come la realtà ideale della vita pra- tica, laboriosa ed onesta.
Tali novelle son degne figliuole di chi scrisse « Da Quarto al Volturno ». Parrà enorme se io dico che la novella « Prendi moglie » segue al detto libro come l’Odissea all’Iliade; se non che lo dico non perchè io pensi di paragonare le due cose ai poemi omerici, ma per distinguerle nel loro rapporto di soggetto e di tempo. Perchè il cavalleggere del 59, il garibaldino del 60 e del 66, è divenuto, in questa novella, il dott. Asquini, me- dico di professione, ma non di temperamento. Ha gentilezze e fantasie di poeta, sollecitudine coscien- ziosa pei figli e per la moglie; per sè la fatica, il costume austero, e la virile devozione al dovere. Aveva sempre lavorato, e sapeva, dice l’autore, « adoprar la parola per medicina all’animo degli infermi ».
Prossimo alla vecchiezza, e felice nella propria famiglia, un pensiero profondamente paterno lo muove a far un viaggetto; rivede tre suoi amici di gioventù e compagni d’arme, e li trova in pena Rs Rei
espiatoria del celibato. Il primo è presso a morir tisico allo spedale. Il secondo si ridusse da vecchio a sposare una giovane donna, e sconta con la paralisi le nozze troppo indugiate. Giace su una poltrona, e amante, com’egli è, delle armonie ma- ritali, vuole che l’orologio della quaglia e quello del chiù suonino insieme l’ora, in perfetto accordo, il che non accade mai, c'è sempre qualche minuto di differenza, e il pover uomo s’arrabbia. Il terzo, vivo e verde ancora, l’ha in suo potere la serva. Egli non se ne può sciogliere, perchè ci s°è affe- zionato, perchè è solo, e colei furba e venale, se n’approfitta, e lo rigira come le piace. Ahimè come possono andare a finire anche gli eroi!
Non è che il dott. Asquini non veda il rovescio “della medaglia, cioè tutte le calamità grandi e pic- cole che posson venire dal matrimonio, ma, in quel momento, la sorte di quegli amici gli sembra la più trista, e per salvare il figliuolo dal vae soli! della Scrittura, più non ‘si oppone al suo desiderio di prender moglie.
Altro scapolo è il dott. Crisante nella novella di questo nome. Egli è colpevole di effetti che impegnano la coscienza. Lo stesso soggetto dunque è qui considerato sotto il riguardo morale. Qui apparisce l’infelicità dei terzi, cioè di coloro che sono detti figliuoli naturali, e insieme (che pare una contradizione) illegittimi, o più duramente, bastardi, nome che, secondo il tono, suona offesa, o disprezzo, o anche una certa benevola compas- sione, non senza un po’ di piacere e d’orgoglio — 27
della propria. legittimità autenticata dallo Stato Civile. Sono detti anche trovatelli, nome poetico e leggiadramente compassionevole come di cosa rac- cattata per via; e di tutti questi appellativi, che sanno un po’ tutti di vilipendio, il più roseo, il più soave, è figlio dell'amore: amore dolce a chi lo godè, amaro a chi poi ne paga le conseguenze, e ne porta tutta la vita il sentimento della più egoi- stica e snaturata durezza.
« Ah dunque anche tu sei uno di quelli che non hanno nè letto, nè pagliaio? La tua casa sta in faccia a quella del lupo? Stai al mondo, e non sai nemmeno chi ringraziare? Vattene, poveraccio ».
Così il foriere della compagnia consola il sol- dato Prospero. Questo è figliuolo dell'amore del dott. Crisante, il quale ne ha popolato il paese, a sentir Lupinella, la serva. — A_mantenergli tutti ci vorrebbe il bene di sette chiese! — ella gli dice perchè non pensi a nessuno di quei reietti, te- mendo di perdere, o di averne menomata, l’eredità del padrone.
E il dott. Paleari (una seconda copia del dottor Asquini), un giorno, per far pentire il dott. Cri- sante d’una sua sciocca censura, fa che egli s’in- contri con Prospero, e lui se ne intenerisce, e, in ira alla serva, lo piglia in casa a conforto della sua vecchiaia; ma Prospero, accortosi dalle parole del padre, che egli non può sposare una che ama perchè è sua sorella, ossia un’altra figliuola dell'amore del dott. Crisante, fugge dalla casa paterna e fugge anche dal paese. — 28 —
— Catena orrenda del male! — esclama allora 4 il dott. Crisante. Ma egli è un gaudente egoista, una testa leggiera, e non può essere un martire del rimorso: fuggito Prospero, senza che se ne sappia più nulla, il dott. Crisante rientra nei limiti del suo carattere grossolano, contento « a mangiar bene e bever meglio. » E questo è pensiero di Lu- pinella, la quale aspetta intanto che il vecchio muoia per beccargli l’eredità, dopo aver temuto di perderla per il ritorno del figlio.
Questa novella ha dunque, come le altre, quel significato morale che sempre possono avere tutte le azioni umane, se si riportino alla coscienza che sola può giudicarle, e a cui l’Abba subordina sempre. l’intento dell’arte. Egli individua il fatto, ossia lo distingue da ogni suo motivo concomitante, acciocchè divenga la prova d’una legge morale, e per essa una condanna assoluta di chi non l’osserva. Il giusto qui ne patisce pel peccatore, ed è questo l’effetto più terribile della colpa, e per il quale la colpa diviene enorme. Il vero, il grande infelice, qui è Prospero, non il padre. E sarebbe anche il padre, se quello scapolo epicureo avesse più coscienza della sua misera sorte d’uomo soggetto a una serva come Lupinella. Questa siede e fila come una parca nel focolare, e conta i minuti al vecchio padrone, venalmente premurosa, falsa e nemica. Il padrone è la mosca, e la serva il ragno che non la divora, ma la nutre e la blandisce per i suoi fini. Il che secondo la natura, è normale, ma, secondo la co- scienza umana, è abbominevole, mentre è la giusta — 29 —
punizione che il dottor Crisante s'è meritato. Il dott. Crisante, con tutti i suoi figliuoli dell'amore, e con la serva che non ne vuole in casa nessuno, è il male: il bene invece è il dott. Paleari coi suoi figliuoli legittimi, « robusti come quercioli, » per i quali alacremente lavora; è la moglie saggia, affet- tuosa, fedele; è tutta quella casa di provincia, ove si respira un’aura di patriarcale onestà. In quella casa si ha un libro ove si registrano da secoli le nascite dei figliuoli, e si tiene, figuriamoci! tra le len- zuola, dentro l’armadio della biancheria. È « un libro vecchio vecchio, legato in carta pecora ingial- lita e grinzosa, che dà un senso quasi religioso, di vita antica, di spiriti rari richiamati da quelle pagine scritte da tante mani di morti ». Mentre il dottore rilegge in quel libro sacro della famiglia, la data del sesto figliuolo che ora gli è nato, 2 settembre 1870, ecco che egli ode i soldati, richiamati sotto le armi (è vicina la breccia di Porta Pia), e can- tano: « Anderemo a Roma santa Anderemo in Campidoglio!»
e il dottore ne trae buon augurio per il suo sesto figliuolo.
Perchè agli affetti di famiglia si alternano gli affetti patri anche in queste novelle. Pieno delle grandi cose udite, vedute e alle quali da giovane — 30—
aveva partecipato, l’Abba poi vi rimase chiuso come in una consacrazione; ne senti un’eco in ogni cosa che scrisse: il che se restrinse quasi a un unico obbietto, la sua veduta intellettuale, giovò ai fatti che ebbero da lui testimonianza così eloquente, e giovò alla diffusione dell’esempiîo. Ricordi della patria, o libera o serva, ricordi del vecchio Piemonte dispo- tico, sono, in quasi tutte queste novelle, come lo sfondo del piccolo dramma che accade nel borgo. Così nell’ultima pagina della tragica novella che prende il titolo da Nunzia, il duca di Genova « un signore pallido, bello, d’un’aria dolce e severa » trascorre veloce a cavallo seguito da » personaggi grandi, dai panni colorati di colori vivi, con dei bottoni che risplendono come stelle: » e quei con- tadini lo credono il Re.
— Oh quando lo saprà Nunzia! — esclama la madre dolente che anche la figliuola non sia lì con lei, nella strada, a vedere il Re. E non sa che fu uccisa. Così, mentre muore Amleto, s’ode, dietro la scena, passare la marcia trionfale di Fortebraccio. Anche nella novella dell’Abba il fatto pubblico, impassibile e calmo, è simultaneo alla tragedia privata, ed è circostanza drammatica che accresce l’eloquenza della sciagura.
Nella novella: « I baffi e il cuore del sig. Saul » è un ricordo comico e bieco del vecchio dispo- tismo.
Il sig. Saul aveva un gran cuore, e anche un gran paio di baffi. Si era nel 1834, di domenica; il sig. Saul, venuto ad Alessandria per suo dibro porto, se ne stava tranquillamente in piazza a sentir la banda; e il governatore della città, il terribile Galateri, lo fissava da un finestrone del suo palazzo. Manda un sergente a chiamarlo.
Il sig. Saul non se lo fa dire due volte, ma al cospetto di colui, rimane indietro, esitante.
— Venite avanti voi e i vostri baffi! chi siete? — gli grida il governatore.
— Saul...
— Un ebreo? con quei baffi siete un ebreo? dove state? di dove venite? cosa fate in Alessandria?... Sergente, fate entrare il barbiere.
I baffi del sig. Saul cadono a terra. Poi due ser- genti gli affibbiano, in un corridoio oscuro, venti quattro colpi di ciabatta sul dorso, perchè meglio se ne ricordi. Sentendosi il labbro nudo, e le costole indolenzite, al sig. Saul veniva da piangere e gli pareva di non esser più uomo. Uscito dal palazzo si ritira in un luogo recondito a passeggiare, e per consolarsi mormora alcuni versetti dei salmi:
« Abbi cura di me, o Geova, perchè le mie ossa son contristate ».
« Tornerà l’opera di lui, e sul capo di lui cadrà la sua ingiuria ».
Il sig. Saul muore poi vecchissimo, e benedetto da tutto il paese per le sue grandi misericordie. Lo sotterrano in terra cristiana.
Un senso comico misto a un senso pietoso fanno di questa novella un vero gioiello. Anche il sig. Saul, buono e generoso, ritira un po’ dall’autore. Fo- resto nei « Primi Duoli » è pure l’autore fanciullo. — 32 —
Solo nella chiesa del suo paese, Foresto esita tra lo schifo della penitenza avuta dal confessore e il timore, se non la fa, di rimanere in peccato mortale. Tali penitenze erano tra i modi (e chi scrive se ne ricorda) pedagogici e avvilitivi, che, sotto il dispotismo, si usavano nelle scuole tenute da donnicciuole e da preti cretini. Finalmente Foresto si fa coraggio, e incomincia con la lingua a far croci in terra. Sopraggiunge Nerina. I due ragazzi sentono a stare insieme una certa loro dolce compiacenza, avvelenata da Vanni. Foresto lo trova un giorno sull’alto d’una montagna. Vanni fugge, e Foresto dietro, gridando: — Tanto t’arrivo! — Ma mentre lo rincorre, s’arresta a un tratto... Ri- porto il bellissimo luogo:
« La distanza spariva; non c'erano più che pochi passi, e poi, giù la mano nei capelli, una stretta da schiantargli la testa, e a terra! che quel tristo domandasse pietà. Ma a un tratto Foresto si fermò. Dinanzi, laggiù, lontano, traverso una foce di monte; vide un piano azzurro, infinito, tranquillo che doveva essere il mare. Gli parve di sentirsi rapire. E allora il suo cuore si sciolse, s’allargò, provò un senso d’abbandono divino, un desiderio d’aver le ali, lanciarsi, empir di sè tutto quello spazio, o esser su quella nave di cui si vedeva appena il bianco della vela laggiù... Che dolce smarrirsi!... »
« E che Vanni continuasse a fuggire! »
In questo subitaneo trapasso dallo sdegno all’am- mirazione, riconosco tutto l’animo del mio povero amico. In Foresto più del piacere della vendetta, e può lo stupore dell'infinito verso il quala si sente rapire. Quel ragazzo sarà un galantuomo: in lui gli impulsi buoni prevarranno sempre ai malvagi. E più tardi quel medesimo rapimento divino verso le cose grandi e belle, lo porterà su quella nave fino a Marsala, e dipoi non farà mai pompa, nè cattedra, nè bottega, dell’onore acquistato. Ma la propria alta e generosa bontà sarà la croce su cui si sentirà spesso confitto, e le anime sordide, an- guste, fredde, calcolatrici, muoveranno il suo cuore a quella medesima ira per cui fanciullo insegui Vanni sulla montagna. Ma se una cosa bella gli attraversi l’occhio e la mente, egli lascierà correre Vanni, e potendo atterrarlo come nemico, si sen- tirà sospinto piuttosto a perdonargli come fratello. Frequenti infatti le sue indignazioni, e più frequenti i sospiri penosi e profondi, con i quali le rivelava piuttosto nella forma di chi si rassegna e si frena, che nell’altra di chi vorrebbe andare agli ultimi termini dell’odio e del disprezzo. Un tale dominio sopra di sè era tanto più ammirabile, quanto più facilmente egli era tratto alle commozioni o di sdegno o di affetto, anche per le cose più lievi, sol che avessero attinenza coi suoi sentimenti, e con la sua alta coscienza. Così animoso in guerra, così risoluto a seguire, senza la menoma esitazione, le vie del pericolo e del disagio, quando glielo im- ponevano il dovere e l’onore; egli era poi quasi timido nella vita, nè lasciava quel suo contegno tacito e pensosamente tranquillo, se non quando era indotto a parlar forte e chiaro per qualche
ABBA. — Cose vedute. 3 — da ragione di verità o dignità: forte, per le parole che allora era capace di dire sul viso, ma senza collera, sempre calmo e composto. Con tale temperamento si comprende come nei suoi libri (in ciò vero manzoniano) egli non abbia mai una pittura, nè un'immagine voluttuosa; si comprende come i suoi personaggi migliori siano di tale purezza che anche un’ombra fugace può offendere il loro sacrario interiore; e basti questo passo:
Il dott. Asquini « alzando il capo, si vide nello specchio li sulla mensola del camino... Non si era mai accorto di somigliar tanto a suo padre, quale l’aveva veduto quarant'anni prima. « Fedele e santa donna, mia madre!» fu lì per dire... ma nel for- mare questo pensiero gli rimorse il cuore... D’una madre si può creder altro?... ».
E al dott. Asquini, il Terenzi, l’amico che muore tisico allo spedale, ricorda, fra le comuni remini- scenze del campo, le bibbie vedute negli zaini dei prussiani morti nella guerra di Francia; e questo perchè l’Abba credeva il sentimento religioso, oggi sì leggermente negletto nelle scuole e nelle famiglie, necessario ad ogni grandezza dell’anima ed anche al coraggio virile.
Tali convinzioni dirigevano il suo pensiero, e per esse tutti i personaggi delle sue novelle, con una analisi semplice, vanno speditamente alle conse- guenze del bene e del male che operano nel loro piccolo mondo. Nel libro « Da Quarto al Volturno » quei tipi di combattenti non hanno quasi gradua- zione nella bellezza eroica dell’atto in cui l’autore = li coglie: nelle novelle si elevano soli, quasi sim- boli di purezza morale, il sig. Saul, il dott. Paleari, il dott. Asquini; gli altri sono, più o meno, gen- terella del borgo, pettegolante, meschina, e capace di essere violenta e cattiva com'è in Nunzia, e nelle Nozze d’Arcangela.
Arcangela è bruttissima, e la natura medesima sembra aizzare contro quel suo aborto innocente, il dileggio e la persecuzione dei paesani. Essi non pensano di che spasimo son cagione a quella po- vera donna sì brutta, ma innocua, benchè si dica che dà il malocchio ai bambini. E per l'appunto (oh ironia delle cose!) si chiama Arcangela! La gente ride, e la domenica, alla messa grande, si volta a lei, mentre il parroco canta Angeli ed Ar- cangeli nel prefazio. Eppure un birbone, per la gola de’ pochi suoi quattrinelli, le fa la corte, e vuole sposarla, e allora si risolve l’ultimo strazio di Arcangela, che pur così brutta, aveva avuto. la dolce illusione, di poter esser amata.
« Le campane suonavano che parevano sgo- mente; i versi del Miserere cantati da quella mol- titudine, empivano la campagna di pianto ».
« Arcangela fuori di sè gesticolava ».
L’autore penetra nell’intimo di ciò che conduce, per un complesso cieco di fatti, all’oscura tragedia umana. In quei versi del miserere, in quelle cam- pane, sentite la sua commozione. Ei la trasmette così immediatamente nelle parole, che le cose sem- brano quasi profondare in esse il loro riflesso spi- rituale, com’è nei passi seguenti: CAB
« Quella bella chiesa del quattrocento... anche sotto la gran luce del sole, era sempre mesta come se vivesse in qualche suo segreto cordoglio ».
« In chiesa non vi era di vivo che la fiammella della lampada ferma nell’aria, sopra l’altar mag- giore, fissa come un occhio che guardasse dall’eter- nità, e vegliasse per tutti, ammonendo che c’è qualcuno che vive sempre, mentre gli uomini a uno a uno se ne vanno. (Primi Duoli).
« Fumavano le carbonaie da tutte le parti della montagna, come se si fossero formate e accese da sè ». (Nunzia).
Qui, la chiesa del quattrocento, la lampada ac- cesa nella solitudine, le carbonaie silenziose e fu- manti, vivono quasi immaterialmente, cioè per quello che, con la loro singola apparenza esteriore, hanno fatto pensare e sentire all’artista, che è la loro im- magine più reale, perchè la sola che abbia per noi quel senso umano che da noi ad esse è attribuito. Così l’autore può non diffondersi in lunghe e inu- tili descrizioni come coloro che vedono soltanto le apparenze superficiali, e non intuiscono lo spirito che le unifica, e ne rende vivo e presente, e molto più esteso il significato. Da quest’occhiata intuitiva del sentimento, viene quell’aura di semplicità ome- rica che trasvola sulle pagine « Da Quarto al Vol- turno. » Quel libro può dirsi la nostra Chanson de geste, e, leggendolo, perdiamo quasi di vista la pa- rola, tanto essa è potente, nella sintesi d’un breve periodo, a cui nulla è da togliere, nulla è da ag- giungere, a farci balzare innanzi i fatti e le cose, rta sicchè l’animo si riempie a un tratto della loro vi- sione. E quale profonda tristezza, come quella del- l’autunno dopo la vendemmia, nelle ultime pagine, del novembre, da Caserta, quando l’esercito meri- dionale è presso a sciogliersi, e l'impresa dei ga- ribaldini sta per passare, sulla via contesa di Roma, alle armi regie!
Quei grandi ricordi fecero all’Abba il suo stile; più vibrato, più arciero, dirò così, nel cogliere a volo e appieno le cose, in quel mirabile libro che ha pochi esempi d’eguale sincerità nella nostra letteratura: nelle novelle, come anche nel romanzo, — Sulle rive della Bormida — lo stile procede na- turalmente d’un passo o d’un polso più lento. Nelle novelle non si respira l’aura grande del mare corso dalla nave di Garibaldi, nè dell'Etna, ma quella del borgo piccolo e chiuso, dove l’autore, deposta la sua gloriosa camicia rossa, visse, non impunemente, molti anni, ipocondriaco e solitario. Forse la preoc- cupazione che prende alcuno dei personaggi delle novelle, di ciò che gli altri penseranno e diranno, e che proveniva nell’Abba da un vivissimo rispetto di sè, fu in lui acuita dall’aver sofferto quell’assidua vigilanza sulla condotta del vicino che nei piccoli luoghi, più che nei grandi, si esercita con una inesorabile crudeltà di censura. Come io l’ho sentito aa
e riconosciuto il mio povero amico, sempre eguale a sè stesso, in quelle sue ultime e pietose parole quando, colpito a morte in una strada di Brescia, ei le rivolse agli astanti che gli erano soccorrevoli intorno: — Oh diranno che io sono un epilettico | cadere così come un ubbriaco!
Oh dignitosa coscienza e netta! esempio unico oggi, quasi di spirito d’altri tempi e d’altri mondi: eroe vero, scrittore vero, coscienza grande, E tu non sei più tra noi! Nessuno amò più santamente di te, e nessuno prodigò più generosamente sè stesso alla patria, alla famiglia e ai giovani che videro i tuoi costumi, e udiron la tua parola.
Mario PRATESI.