Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. II/Capo XXII
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CAPO VIGESIMOSECONDO.
Partendo dalla massima fondamentale dell’Evangelio che l’innocenza de’ costumi e la pietà verso Dio e gli uomini, il che comprende il rigoroso adempimento di tutti i nostri domestici e sociali doveri, sono il primo e supremo dogma; che la legge di Dio non pone la sua essenza in vane opinioni o nella osservanza di speciali riti, ma nella pratica della virtù; che le disputazioni sono figlie d’indole curiosa o superba e menano alla discordia e al fanatismo: Frà Paolo più che le dottrine speculative de’ teologi stimava la moralità delle azioni, e purchè un uomo fosse virtuoso poco si curava di sapere se credeva al merito de congruo e de condigno, alle cinque cause dei sacramenti e al loro numero settenario provato col numero dei sette pianeti, e ad altre cose che saranno vere posciachè i teologi le trovarono in Aristotele, ma che possono bene essere inutili essendo state ignote a Cristo ed agli apostoli.
L’Evangelio comanda di adorare Dio in spirito e verità; San Paolo rimprovera il culto verso gli angeli; e i cristiani dei primi tre secoli ebbero in orrore le immagini come le hanno ora i Maomettani. Eugenio vescovo di Laodicea, che fiorì a tempi di Costantino, fu il primo che facesse pingere sacre immagini nel vestibolo e intorno ai portici della sua chiesa. San Paolino vescovo di Nola, morto nel 431, imitò quest’uso in Italia e introdusse le immagini anco in chiesa; ma ne fu biasimato. Verso il 595 San Gregorio papa scriveva a Sereno vescovo di Marsiglia che proibisse di forza il culto alle immagini, abbenchè potesse tollerarle in chiesa a documento d’istoria. La religione a’ simulacri prevalse prima fra gli Orientali, eppoi fra’ Latini, a cui contribuì l’ignoranza de’ monaci antropomorfiti che attribuivano a Dio figura umana; e la venalità o l’impostura moltiplicarono fra i Greci certe immagini cui vantavano dipinte da San Luca o dagli angeli o che dicevano calate dal cielo. Passò la cosa a tanta superstizione che più nissun culto era prestato a Dio, e tutto ad immagini di legno o di tela. L’imperatore Leone Isaurico nel 726 le fece togliere dalle chiese, ma si meritò dai posteri divoti il titolo eretico d’iconoclasta e perdette le sue province d’Italia che si ribellarono, scacciarono da Ravenna gli esarchi, da Roma e da Napoli i duchi e si fecero indipendenti. Papa Gregorio II nel difendere l’iconolatria diceva che si pingono i martiri ma non la Trinità, perchè era impossibile: alcuni secoli dopo anco questo fu trovato possibilissimo. Il culto alle immagini, combattuto per più di un secolo da sei imperatori e da numerosi concilii, trionfò per mezzo di due donne, le imperatrici Irene e Teodora. Il concilio di Francoforte convocato da Carlo Magno nel 794, a cui assistettero più di 300 vescovi, anatemizzò il secondo concilio ecumenico di Nicea e condannò il culto delle immagini; il quale nondimeno ebbe il disopra nei secoli seguenti. E quantunque i teologi dicano che non è necessario, sono zelantissimi a dar dell’eretico per la testa o almanco del novatore irreligioso a chiunque volesse dirvi contra alcuna parola, e insegnano ancora che si può dire: Padre nostro che sei ne’ cieli ad una immagine di donna pinta sul muro, e Salute, o regina, madre di Dio al simulacro di un frate sculto nel legno: e perchè Frà Paolo non voleva dir padre ad una donna e madre ad un frate, e non teneva altre immagini tranne un Cristo nell’Orto e un crocifisso, fu rimproverato di empietà: era per lo meno uno scandalo che poteva per l’esempio pregiudicare alle limosine, versate ai santi in maggior copia che a Dio.
Io credo che in tutto il mondo cattolico non vi sia neppure un tempio dedicato a Dio solo: i Romanisti temono molto più il deismo del politeismo, e benchè quello fosse la religione di Gesù Cristo e degli apostoli, lo hanno per non molto differente dall’ateismo: infatti un Ente che può tutto e che ha bisogno di niente non è molto favorevole alle limosine, e a chi ha voglia di darle o desiderio di riceverle. Fra le divinità della religione romana la Madonna occupa il primo posto e se non è superiore alla Trinità, poco le manca: la sterminata sua onnipotenza è molto acconciamente espressa dai sonori epiteti che le sono prodigati nelle litanie che portano il suo nome. In Roma sopra duecento chiede, cinquanta almeno sono dedicate a lei: la stessa proporzione si osserva negli altri paesi. È veramente la divinità che ha fatto più miracoli di ogni altra; fu ella che inspirò tante volte il genio sublime di Rafaele e del Coreggio, e la patetica musa del Petrarca e la profonda di Alessandro Manzoni. Nondimeno Frà Paolo non sembra che ne fosse molto divoto: io non lo accerto, ma il lettore può vedere ciò ch’e’ ne dice nel libro secondo della sua Istoria del Tridentino dove parla della immacolata concezione: so bene che il cardinale Pallavicino ne fu terribilmente scandalizzato, e provò colle autorità di Aristotele e de’ giureconsulti che la madonna è nata senza peccato originale.
L’autore del Vangelo ristrinse in sette versi l’orazione domenicale e disse che il multiloquio è cosa da pagani; ma col tempo vi furono trovate molte cose da correggere, e fu conosciuto che quella preghiera era troppa corta e meschina; e che Dio, simile agli uomini, o tal fiata fa il sordo o non ode se non è importunato: quindi fu trovato il modo di prolungarla col ripeterla quindici volte e confezionarla di 150 ave maria. Ma il Sarpi, esclamava un buon papalista, il Sarpi era così empio che si atteneva alla dottrina di Gesù Cristo e non recitava il rosario!
«Se si dovesse prestar fede a tutte quelle reliquie che si mostrano in tutti i paesi, diceva il pio Ganganelli, bisognerebbe molte volte persuadersi che un santo avesse avuto dieci teste e dieci braccia». Anco Frà Paolo pare che pensasse egualmente: altro titolo all’eresia. Ma quello che superò ogni eccesso, e che eccitò al vivo il santo orrore de’ Curiali, si fu che il Sarpi trovandosi in punto di morte non chiese le indulgenze che il Santo Padre suole concedere ai moribondi, quasi lettere di raccomandazione per l’altro mondo.
San Paolo era così contrario allo spirito di controversia che lo condanna almeno in venti luoghi, e raccomandava invece la tolleranza e la sopportazione siccome le sole che potevano conservare la carità. Quindi ancora il nostro teologo si querelava spesso della passione del suo secolo per la controversia, e non sapeva concepire come gli uomini si odiassero per dispute vane, perdessero il tempo a sottilizzare intorno a cose incomprensibili, mentre i dogmi dell’Evangelio sono testuali e semplicissimi. Pensava altresì che tutte le opinioni, tranne l’ateismo, possono essere tollerate dai governi. Ma questa tolleranza era meramente nell’interesse della società e pel riposo di lei; perocchè l’indifferentismo non si attagliava colla austera indole del Sarpi, e ne faceva un’accusa a’ gesuiti che lo insinuassero. Non credeva che uomo potesse passare da una religione ad altra senza un motivo interessato, quindi non senza indifferenza per ambedue. Aborriva meno l’empietà della superstizione. L’empio, diceva, non nuoce che a sè stesso, nè cura di propagare la sua dottrina, e quand’anco il volesse, non potrebbe. È un mostro in umano ingegno, e pochi sono depravati che vogliano seguitarlo. Ma la superstizione è contagiosa, e chi n’è infetto fa sforzi perchè ogni altro diventi simile a lui.
Tutti, diceva ancora, e singolarmente i principi sono obbligati per coscienza a conservare la religione. L’essere nati nella comunione cattolica doversi riguardare per un beneficio di Dio; e per un segno della sua ira, il dipartirsene: e biasimava i protestanti intorno alle loro prevenzioni, cui dava nome di superstizione, e perchè non distinguevano abbastanza il vero cattolicismo, semplice, nobile, tollerante, dal mascherato e bottegaio. Confessava esservi abusi nella comunione cattolica, non colpa di lei, sì degli uomini; perocchè i principi trascurano lo studio della religione, contentandosi di averne una senza sapere che cosa si sia, e sopportando, per interesse e convenienza, che i popoli sotto specie di pietà sieno ingannati con sempre nuove invenzioni e riti, senza considerare che ogni rito porta seco la sua credenza, e così la religione si altera e si accomoda al lucro di chi la maneggia.
La Chiesa, continuava, non si compone dei soli preti; chè in tal caso sarebbe repubblica terrena e non cosa celeste; ma della unione di tutti i fedeli, e non ha altro scopo che il loro bene spirituale: le cose temporali non ci entrano. Il papa è capo di essa, ma è anco un principe temporale che da più di cinque secoli ha aspirato al dominio dell’Italia per lo meno, e vi è stato assai prossimo; non è dunque da meravigliarsi se usa tutti i mezzi per ampliare la sua autorità. Avere il pontefice romano tre carichi: della religione, delle cose ecclesiastiche e del governo del suo Stato, i quali per non essere stati distinti furono origine di mali infiniti. Esservi tre generi di canoni: di cose spirituali, di temporali e di miste. De’ primi la cura essere degli ecclesiastici; dei secondi non potersi il pontefice ingerire fuori degli Stati suoi; pei terzi tanto essere debito del principe l’averne cura, quanto degli ecclesiastici, anzi più di quello che di questi. Nel primo capo, che costituisce la vera essenza della dottrina cattolica, non essere lecito ad alcuno di variare la più piccola cosa. Ma molti disturbi essere avvenuti per lo abuso del secondo, perocchè la corte di Roma se n’è sempre servita alla sua grandezza temporale; e così del terzo, perocchè i principi per imbecillità se ne lasciano escludere. Il che non avverrebbe, se sapessero distinguere ciò che si appartiene alla fede, la quale è immutabile, da ciò che riguarda le cose della disciplina e l’amministrazione dei beni e negozi secolari.
Lodava la Chiesa Gallicana che possiedeva molti mezzi di resistenza contro le usurpazioni di Roma, e per conservare i diritti della nazione e del principe; aggiungeva che avrebbe dovuto chiamarsi non gallicana ma universale, e che ove fosse conosciuta l’origine delle sue instituzioni e de’ suoi privilegi sarebbe imitata da tutti. Non era, secondo lui, un sistema perfetto, ma buono almeno. Biasimava Carlo Magno che per avere troppo accresciuta la potestà dei pontefici era stato cagione a tutto l’Occidente di un gran danno. Nissuno, scriveva Frà Paolo, che abbia cognizione dell’antichità e dell’istoria ha mai negato alla sede apostolica il primato; ma quello che e’ vogliono non è il primato, sì il Totato, cioè che sovvertito ogni ordine, sia il tutto attribuito ad un solo. L’origine e la sorgiva di tutti gli abusi non è la plenitudine, ma la redundanza anzi l’esorbitanza del potere, la quale se fia tolta, tornerà la pace alla Chiesa, e le molte parti in cui ora è scissa, si riuniranno. Era una verità dura ad annunciarsi; ma pure una verità.
Perchè la corte di Roma avrebbe potuto impedire benissimo che si rompesse l’unità della Chiesa quando avesse voluto rinunciare di buona fede a pretensioni di grandezza mondana. I desiderii del mondo erano rivolti ad una riforma radicale de’ costumi, e chiedevano il matrimonio dei preti usato tanti secoli, la comunione del calice andata in disuso da non lungo tempo, le liturgie in una lingua intesa dal popolo, e che fosse corretto il culto alle immagini ed ai santi degenerato in idolalatria, e che fosse ridotta a’ suoi veri principii la dottrina intorno al purgatorio contaminata da favole, e che il numero de’ frati ed i loro privilegi fossero diminuiti, e fosse restituita a vescovi la loro autorità, e fossero abolite le indulgenze che davano tanto scandalo, e il troppo de’ giorni festivi che fomentavano l’ozio e la miseria, e che non fossero più portate a Roma tante cause con offesa della giustizia e danno de’ privati, che rinunciassero i cherici ad immunità che opprimevano i laici, che non più le cose sacre fossero amministrate a suon di danari, e tanti altri abusi di questo genere contenuti nei Cento Gravami presentati da’ Tedeschi alla Dieta di Norimberga: ma tolti questi abusi erano fiaccati i nervi alla potestà ecclesiastica e insterilivano le fonti de’ suoi tesori; perciò la corte di Roma vi si oppose, e il concilio di Trento non se ne occupò consumando le sessioni a recitare il Credo, a disputare sulla grazia, a difendere l’autorità del gran teologo Aristotele, a stabilire che quattro devono essere i gradi di parentela che impediscono il matrimonio perchè quattro sono gli umori del corpo umano, e a provare che la confessione è molto antica e che anco i patriarchi del Vecchio Testamento si confessavano come lo attestano le Sacre Carte nelle quali si legge spesissimo il confiteor, confitemini e confitebor: cose tutte che potevano passabilmente occupare l’ozio di quei venerabili Padri, ma che nulla importavano alla edificazione de’ popoli.
Osserva il Consultore che l’orgoglio e l’adulazione avevano talmente affascinato i pontefici, fino a patire che fossero chiamati Iddii, e credere che fossero uguali a Dio, infallibili, superiori a tutte le leggi, che nissuno può giudicarli: massime che alla Chiesa ed al mondo fruttarono mali infiniti. Eppure, esclamava, perchè noi a Venezia abbiamo osato sottoporre la potestà papale a quella di Dio, siamo eretici, e le nostre teste sono devote all’anatema. Aggiungeva esservi ormai più articoli di fede del solo papa che non di tutta la religione Cristiana; e raccontava del gesuita Comitolo che in un libro cui intitolò Responsi morali sostenne essere articoli di fede cattolica e divina che ogni pontefice fu vero e legittimo, che fu battezzato, che fu ortodosso, e che fu maschio. Scartando la storia della papessa che è una favola sicuramente, quantunque il Sarpi lasci la questione indecisa, l’ultimo articolo può essere creduto ad occhi chiusi viste le prove irrefragabili di paternità che diedero moltissimi papi.
È una grande eresia di Frà Paolo l’avere affibbiato alla corte di Roma gli epiteti di Babilonia e di meretrice: i buoni Curiali si velano gli occhi per lo scandalo. Io opino che sarebbe meglio usare qualche indulgenza alle parole ed essere più austero verso le azioni: ed è purtroppo vero che Roma si è mostrata più incorreggibile colà dove appunto, più biasimata. Molti secoli prima di Frà Paolo, Dante cantava alle orecchie de’ papi suoi cootemporanei:
Di voi pastor s’accorse il Vangelista
Quando colei che siede sovra l’acque
Puttaneggiar co’ regi a lui fu vista;
Quella che con le sette teste nacque,
E dalle diece corna ebbe argomento
Fin che virtute al suo marito piacque.
Fatto v’avete Dio d’oro e d’argento;
E che altro è da voi all’idolatre,
Se non ch’egli uno, voi n’orate cento?
Tutti sanno a memoria due terribili sonetti del Petrarca in cui la corte di Roma è trattata da Babilonia che ha colmo il sacco dell’ira di Dio, ed invoca sulla testa di lei le fiamme del cielo, come sopra Sodoma e Gomorra; e a tutti ricorda la novella del Boccaccio dove narra che Abram giudeo essendo andato a Roma e veduti gli scandali che ivi si commettevano, si convertì e si fece battezzare; dicendo che il cristianesimo era veramente cosa divina, perchè si manteneva in piedi sebbene quanto aveva veduto farsi in corte di Roma fosse atto a distruggere qual si sia religione.
Dopo che Lutero ha fatto paura ai papi, essi hanno imparato a correggere i loro costumi: i cardinali presenti sono poveri; forse tre o quattro, dice Stendhal (scrittore riservatissimo e molto pratico di Roma), hanno l’amorosa, donna rispettabile e di una certa età; dodici o quindici coprono con una perfetta prudenza gusti passaggieri. La galanteria poteva essere tuttavia di moda alla corte di Pio VI, e una principessa di Santa-Croce poteva passare lecitamente alcuni momenti in quattr’occhi con un pontefice che si vantava di essere bello, e lo era: ma nissun papa a’ dì nostri vorrebbe assistere a cinquanta meretrici che danzano ignude in una sala del suo palazzo, come faceva Alessandro VI. Chi ha figliuoli, li mantiene, ma in segreto: e i nipoti non sono più in stima dopo che ai papi mancano i modi di arricchirli. Ciò nulla ostante la corte di Roma ha niente mutato dell’essenziale suo sistema: solamente la merce è scaduta di credito.
Cito ancora Ganganelli: fu buon frate e miglior papa, ed è peccato che l’odio de’ gesuiti non gli permetta di aspirare all’onore di esser santo. «La filosofia, diceva, è la base della vera religione, essendo la fede appoggiata sulla ragione. Senza la filosofia, voglio dire senza quella scienza che combina, che analizza, che ragiona, non vi sono nè principii nè conseguenze, nè opere buone nè buona legislazione». Ma per quanti dolori e per quante miserie non dovette passare il genio umano prima che questa verità potesse palesarsi senza pericolo? e per quanti dovrà ancora passare prima che sieda invitta sul trono? Frà Paolo parlando della condizione de’ suoi tempi, diceva: Agli Italiani non manca l’ingegno, ma non possono usarlo: sentenza che per fatalità dell’Italia si applica anco all’età nostra, in cui non esiste più la inquisizione dei frati, ma ne esiste un’altra non manco vessatoria e brutale, l’inquisizione politica. Pure si progredisce: e quantunque il corso degli avvenimenti sembri lento alla nostra immaginazione, perchè non va di pari passo coi nostri desiderii; esso nondimeno procede con tale celerità, che una generazione non somiglia all’altra, e l’assolutismo, quel mostro che si pasce delle proprie carni, è ogni giorno costretto a far nuove concessioni all’impero della necessità. Scrivete, gridava Ugo Foscolo ora sono pochi anni; e, scrivete, gridava Frà Paolo agli Italiani di due secoli fa: le opinioni vere ed utili, soleva dire, bisogna coltivarle ed accrescerle coi buoni scritti. E incoraggiva lo studio della giurisprudenza civile e canonica perchè da esso dipendeva l’emancipazione intellettuale e politica dell’uomo. «Lo studio delle leggi, esclamava, precipita ogni giorno di male in peggio: la Curia romana abborre da ogni pulita letteratura e si tiene afferrata coi denti e colle unghie la barbarie forense. E che non fa? Tolti di mezzo i buoni libri ovunque li trova, spaccia arditamente che il papa è uguale a Dio, che può tutto, che le ragioni e i diritti gli tiene negli scrigni del suo petto, che può cacciare nell’inferno chi vuole, e può eziandio quadrare il circolo. Tolta questa fallace giurisprudenza, sarà anco tolta questa tirannide; ma togliere l’una senza l’altra non si può. Tocca a Dio a restituire entrambi nell’ordine retto, quando ciò sia il suo buon piacere». Queste accuse sono così poco esagerate, che per convincersi basta soltanto gettare un’occhiata sull’Indice dei Libri Proibiti che si stampa a Roma, ed ivi vedrassi registrato e proscritto per titoli di empietà quanto di più giusto e di più utile e di più santo hanno pensato e scritto gli uomini. Ivi giacciono fulminati di anatema il trattato dei Delitti e delle Pene, la Scienza della Legislazione, lo Spirito delle Leggi, le Lezioni di Commercio del pio Genovesi, e le opere immortali dei Grozio, dei Puffendorf, dei Bentham, dei Pagano, dei Gioja e di altri innumerevoli. Le quali cose considerando il celebre Scipione Ricci vescovo di Pistoia, diceva: «La Curia non può avere altra base di religione che l’ambizione e l’interesse; e queste sono le sole molle del fanatico suo zelo».
Del concilio di Trento era opinione di Frà Paolo che nemmanco Apollo avrebbe saputo dalle parole indovinare il senso. Tre teologi, Soto, Catarino e Vega, che disputarono di dogmi a quel concilio, scrissero l’uno contro l’altro, sostenendo ciascuno la sua opinione essere quella della sinodo, eppure sono così conformi come possono esserlo un triangolo ed un circolo. Questo fatto, aggiunge Frà Paolo, par che levi la speranza di sapere la mente del concilio, e se quelli che vi ebbero parte principale non s’intendono, che sarà degli altri? È un fatto innegabile che nella compilazione de’ canoni e decreti, essendo i Padri per lo più discordi, convenne ora togliere, ora aggiungere, e usare espressioni ambigue onde conciliare tutti i pareri; perciò Pio IV proibì a chiunque di far commenti a quel concilio; e ad interpretarne le oscurità eresse una congregazione di cardinali che lo dichiararono ad libitum. Quasi tutte quelle dichiarazioni, continua Frà Paolo, sono contrarie al testo, come la glossa al Decreto: distinse... congiunse sono le frasi usate dai dichiaratori, come nelle decretali non può, non vuole. E quel che è più strano, le dichiarazioni sono spesso contrarie tra loro; ma intanto quella congregazione è il grande arcano con cui si regge la cosa romana, e trae a sè ricchezza, potenza e il dominio universale della Chiesa e la servitù del principato. Avrebbe anco potuto aggiungere che quelle dichiarazioni sono così ridicole od assurde, che quando il benedettino Marcilla, indi Giovanni Gallemart le pubblicarono a stampa, la Curia n’ebbe vergogna, e negò che fossero sue. Quando poi il clero di Francia si adoperava per introdurre il Concilio in quel regno, diceva Frà Paolo che voleva il suo male, e che essendo stracco di libertà voleva mettersi in prigione. Ciò nondimeno confessava che da esso furono corretti varii abusi massime nella legislazione beneficiale; ma non conviene sulla instituzione dei seminari, cui molti lodano, e che egli considerava come instituti diretti al fine di conservare od accrescere la potenza degli ecclesiastici. Ai dì nostri non sono tanto seminari di ottimi preti, quanto scuole d’immoralità e di pregiudizi. In molti luoghi della Germania dove il clero studia nelle università, è più docile, più instrutto, di gran lunga più spregiudicato; e non vidi mai persone più rispettabili dei preti tedeschi.
L’abuso che facevano gli oratori sacri della loro popolare eloquenza, massime i frati, nel declamare contro i governi e suscitar sedizioni, aveva talmente disgustato Frà Paolo da desiderare che fosse levata via la predica. È cosa grande, diceva, che in ogni Stato i predicatori parlino contro il governo presente; ma il mondo si troverà necessitato a provvedervi se non vuol sempre essere esposto a inconvenienti. Non era il solo che si querelasse di simil disordine. In Francia durò tutto il secolo XVI e parte del seguente, e si contano dieci o più decreti del parlamento per reprimere la baldanza e lo spirito turbolento de’ predicatori: Carlo IX nel 1563 proibì la predicazione ai preti e frati che non fossero francesi e suoi sudditi; Enrico IV nel 1595 condannò i predicatori sediziosi ad avere la lingua forata e al bando del regno. I duchi di Firenze, e il duca di Ossuna vicerè di Napoli, e altri principi d’Italia, dovettero più di una volta o bandire o far carcerare simili predicatori. Scipione Ricci nel passato secolo si lagnava della «poco sana dottrina che generalmente spargevano i predicatori nella quaresima. È oramai troppo noto, diceva, che questi vaganti apostoli esercitano così vilmente il loro sacro ministero, che assomigliano a’ quei che vendono l’opera loro nelle teatrali rappresentanze, e sono per ischerno chiamati i sacri istrioni». E aggiunge che costoro avevano messo più volte a cimento la purità della religione e la tranquillità degli Stati, e cita gli esempi contemporanei della Germania e della Toscana dove il pulpito ed il confessionario ha servito a indisporre i popoli e contro il sovrano e contro i pastori legittimi. Bisogna che il male sia molto vecchio perchè Dante nel ventesimonono canto del Paradiso fa dei predicatori del suo tempo una poco vantaggiosa dipintura.
Frà Paolo consigliava e favoriva lo studio delle Sacre Scritture che giova a far conoscere la religione alle sue vere fonti; nelle tradizioni teneva una via di mezzo tra i cattolici e i protestanti: questi tutte le riprovano, quelli tutte le ammettono, intanto che assai de’ loro riti sono apertamente distruttivi delle tradizioni più certe.
Dei Padri della Chiesa raccomandava la lettura non senza far osservare che alcuni di loro hanno spesso trascorso in esagerazioni retoriche, e portavano con seco molti pregiudizi del loro secolo, ed opinioni del paganesimo da cui uscivano; per cui bisogna usare molta attenzione nel leggerli, molto più che per convertire i gentili si sforzavano di dare ad antichi vocaboli un significato diverso dell’accettazione ricevuta, di forma che per rettamente intenderli bisogna piuttosto badare al senso intiero del discorso che al particolare delle parole: osservazione che per quei tempi era nuova, ma che poi fu ripetuta da tutti i critici. Donde si scorge quale profondo studio ne avesse fatto, e come bene conoscesse la lingua in cui scrissero e le materie che trattarono.
Frà Paolo in fatto di teologia speculativa fu un pretto giansenista prima ancora che il famoso Giansenio, suo contemporaneo, facesse tanto parlare di sè. La stima in cui teneva la filosofia degli stoici, che ammettevano il fatalismo, lo trasse a seguire la dottrina della predestinazione insegnata da Sant’Agostino, da San Tommaso, da Giovanni Scoto e da altri scolastici, ed è che Dio sin dal principio del mondo ha determinato il numero di quelli che debbono salvarsi, fuori de’ quali tutti gli altri sono reprobi; e non pertanto ciascuno debbe sforzarsi onde rendersi degno del primo stuolo, comechè se non è tra i predestinati tutte le buone opere sue saranno inutili. Io non so fin dove spingesse e come intendesse questa difficile dottrina, intorno la quale usa scarse parole e la chiama misteriosa ed arcana; ma parmi che riferendo ogni cosa ai meriti infiniti di Cristo e alla grazia e misericordia divina, ei ne rattemperasse la terribile severità che toglie ogni merito alle opere umane.
I gesuiti hanno sentenza contraria, e per dire il vero sembra anco più ragionevole; ma l’austero Servita la chiamava fomento della presunzione umana e accomodata all’apparenza, buona più per frati predicatori che per uomini dotti di teologia.
Come i giansenisti egli era infensissimo ai gesuiti, cui chiamava peste de’ popoli, nemici della vera religione, autori di scandali e di morale prava. La quale avversità non derivava da sola differenza di sentimenti teologici, ma, e molto più forse da ragioni politiche. Ho detto più volte come i figliuoli d’Ignazio fossero la più arrischiata milizia della monarchia papale, e valevoli sostegni di quella di Spagna (come ora lo sono della monarchia austriaca), due grovigli che tenevano l’Italia in servitù, e l’Europa inquieta. Altronde non vi era orditura politica, moto di popolo, turbazione di Stato in cui i gesuiti non avessero parte: sêtta operosa che moltiplicandosi e assumendo tutte le forme si trovava dapertutto, come l’idrogeno e l’ossigeno potenze occulte della natura. Erano come lo spirito avversario della Repubblica. Nella causa dell’interdetto furonto gl’infocolatori di tutti gli sdegni, fecero gran ressa in tutte le corti onde pingere i Veneziani sotto l’aspetto più odioso; a Madrid, a Varsavia, a Vienna suscitarono disturbi gravi agli ambasciatori veneti; a Napoli eccitarono la propria scolaresca a svillaneggiare per le strade i famigli del residente veneziano; in Puglia brigarono col popolo e colle autorità perchè le navi marchesche di ritorno dal Levante non fossero ricevute in quei porti; a Londra fecero ogni possa per sollevare i cattolici contro lo ambasciatore veneziano, e fino contro il re Giacomo perchè favoriva la Repubblica: ho adombrato altrove qualche cose delle loro predicazioni feroci; satire, libelli, predizioni disseminate ovunque, spiravano il più sanguinario fanatismo. Tosto dopo l’accomodamento, procurarono di ravvivare gli odii tra Roma e Venezia in proposito dell’esame del patriarca; consigliavano il papa a non concedere le solite decime sul clero, e ad esigere dalla Repubblica che ivi ancora avesse esecuzione una Bolla di Sisto V che assoggettava ogni specie di eretici al tribunale dell’Inquisizione. Nel 1609 si maneggiarono in corte di Francia producendo calunnie, falsificando atti diplomatici per inimicare alla Repubblica il re Enrico IV. Rinovarono i loro intrighi sotto la debole reggenza di Maria de’ Medici. Nel 1615 e 1616, in occasione di nuovi dissapori tra Roma e Venezia, non mancarono di battere sulla focaia della discordia, e di usare tutte le versuzie per indisporre l’animo del pontefice: l’armata veneta bisognando di afferrare nel porto di Ancona, suscitarono opposizioni e difficoltà dicendo che portava il contagio; nello stesso anno 1616 intanto che insussurravano la corte di Spagna perchè dichiarasse guerra alla Repubblica, sovvenivano l’arciduca Ferdinando d’Austria già in guerra con lei, di 40,000 fiorini, e nelle loro chiese di Gratz e di Clagenfurt nella celebrazione della messa avevano introdotto da cantarsi un’orazione che incominciava: Dirigantur actus nostri non ad pacem, sed ad majorem Dei gloriam, et ad depressionem inimicorum nostrorum. «Le nostre azioni non abbiano per fine la pace, ma la maggior gloria di Dio e la depressione dei nostri nemici».
Un decreto del Senato del 18 agosto 1606, proibiva severamente ai sudditi veneziani di mandare i loro figliuoli ne’ collegi de’ gesuiti. Non perciò e’ si ristettero dal brigare nel 1611 col marchese di Castiglione delle Stiviere perchè permettesse loro di stabilire un collegio nel suo feudo. Trovandosi Castiglione framezzo a Brescia, Desanzano, Pozzolongo, Verona ed Asola, terre venete, speravano d’attirarvi, a dispetto delle leggi, buon numero di allievi veneziani; o per lo meno di stabilire colà un posto avanzato per tribolare il dominio veneto e insinuarvi le loro insidie. Frà Paolo non mancò di rilevare gl’inconvenienti di questa fondazione, che eccitò i richiami del governo veneto presso il marchese. L’anno appresso, a’ 16 marzo, gli Avogadori di Comune proibirono a chichessia entro il dominio di San Marco di comunicare o per lettera od altrimenti con gesuiti, e ricevendo lettere da loro comandavano che fossero tosto consegnate al Collegio.
Queste severe precauzioni non iscoraggirono la perseveranza degli Ignaziani, che a’ principii del 1613 proposero al papa di fondare una gesuitaia in Ragusi, e di obbligare a contribuirvi tutti i vescovi della Dalmazia; anco questa essendo andata a vuoto per le opposizioni della Repubblica, riuscirono finalmente a formarne una in Gorizia sotto gli auspicii dell’arciduca d’Austria, e in vedetta della Carinzia e Carniola veneziana.
Frà Paolo diceva che prima del loro generale Aquaviva i gesuiti erano santi, rispetto a dopo, e non pensavano a governare gli Stati; che molte pratiche le facevano ad istanza del papa e del re di Spagna, ma le più inique per proprio moto; che il gesuita è ogni uomo, che sono camaleonti, che si aggirano per doppiezze ed equivocazioni: protei cui nissuno può tenere, e a cui è lecito mentir nome, professione, abito, nè solo scusare il mendacio, ma lodarlo; e stimare onesto ogni mezzo purchè conduca a quello ch’e’ chiamano buon fine. Quindi niente esservi di più contrario alla vera religione quanto le massime professate da loro. Ogni genere di vizi trova nella loro morale un patrocinio: gli avari, la ragione per cui senza rimorso possono far mercatura delle cose spirituali; i superstiziosi, le immaginuzze baciando le quali suppliscono all’esercizio difficile di tutte le virtù cristiane; gli ambiziosi, cui per ingiuria della fortuna non è dato mostrarsi se non se per opere prave, hanno il velo della religione che copre i loro misfatti; i pigri hanno donde scusare la non curanza della loro spirituale salute; i sprezzatori del Dio celeste hanno il papa Dio visibile, il culto al quale i gesuiti esaltano sopra ogni cosa; infine non vi è spergiuro, non sacrilegio, non parricidio, o incesto, o rapina, o fraude, o inganno che e’ non coprano col manto della pietà.
A’ tempi in cui siamo più d’uno può forse credere che un tal quadro sia esagerato; e par bene che molte imputazioni fatte a quella sêtta siano false, o piuttosto colpa d’individui che della società. Frà Paolo istesso udendo le bricconerie de’ gesuiti in Francia confessava che in Italia non erano giunti a tanta perfezione. Ma la morale insegnata concordemente dai loro casuisti rendeva credibile ogni eccesso. Posta la loro massima delle induzioni probabili e la distinzione del peccato filosofico dal peccato teologico, trovarono essi la religione la più accomodata per buscarsi il paradiso con poca spesa. «Un uomo, dice l’Enriquez, si mette in sicuro se contro i suoi scrupoli sceglie ciò che giudica probabile, comechè istimi esservi altra opinione più probabile; e il confessore debbe, contro il proprio convincimento, confermarsi a quello del suo penitente, da poi che con ciò è scusato in faccia a Dio». Laonde ogni uno avvisando per probabile quello che più favorisce i suoi interessi, può facilmente far tacere la sua coscienza. Così per esempio, se è un ladro, argomentando che il rubare più probabilmente è peccato, ma che probabilmente non lo è, si attiene a quella opinione che è più confacente a’ suoi gusti, e il confessore deve adattarvisi e dire: ruba pure, figliuolo, ruba pure et ego te absolvo a peccatis tuis.
Ma potrebbe essere una coscienza tanto timorata o così poco sofistica che non sa andare per queste vie probabili. Ecco adunque il rimedio. Un’azione, dicono i gesuiti, può essere cattiva quanto si vuole, se chi la commette non pensa a Dio in quel momento, o la commette senza intenzione di offenderlo, egli non pecca, perchè questo è peccato puramente filosofico; ma se in quel punto si ricorda di Dio o lo fa con precisa intenzione di offenderlo, il peccato diventa teologico. Tra molti scelgo le parole del padre de Rhodes: «Non è peccato nè mortale nè veniale se, commettendo un atto peccaminoso, l’intelletto in quel momento non considera che siavi malizia morale o pericolo di lei; ma se anco il considera, non è peccato mortale se quella considerazione non è ponderata in tutte le sue parti. È poi da avvertirsi che è necessario questo considerare che, commettendo tale azione, possa esservi peccato mortale». Partendo da questi generosi principii non vi è più reità che con una opinione probabile o una piccola distrazione mentale giustificare non si possa. E chi ruba o ammazza o stupra invece di pensare all’offesa di Dio, deve pensare al modo di non essere mandato alla forca o in ergastolo, o per lo meno bastonato.
La fornicazione, secondo i gesuiti, non è peccato, l’adulterio poca cosa; se l’adultero sorpreso in flagranti ammazza il padre o il marito o il fratello della donna adultera, è difesa legittima; l’assassinio di un nemico occulto od aperto o supposto, l’assassinio di un accusatore di un delitto anco vero, dei giudici che stanno per pronunciare sentenza di morte anco giusta, è lecito; la bugia, la calunnia per esonerarsi da un’accusa, è necessaria; il furto domestico, purchè sia a compenso di fatiche che il ladro non crede premiate a dovere, è giustificato; lo spergiuro, il giuramento falso, il giuramento equivoco, il giuramento con restrizione mentale, formano una parte distinta della morale gesuitica, e i loro casuisti raccomandano caldamente ai confessori che istruiscano bene i loro clienti sul modo di usare or l’uno or l’altro. La simonia non è peccato neppure quando un beneficio ecclesiastico è stato ottenuto mediante la prostituzione della propria sorella; la sodomia non è peccato nei preti, quantunque lo sia nei secolari; l’onania, il procurato aborto, le usure, i duelli, il sacrilegio, la bestemmia, la ribellione, l’insubordinazione, il contrabbando, la frode agli esattori del danaro pubblico, l’omicidio, il suicidio, il regicidio e cento altre simili inezie sono giustificate o dichiarate lecite, o in certi casi obbligatorie.
Amar Dio, non è un precetto, ma un puro atto di civiltà. I precetti di Dio e della Chiesa non obbligano alcuno: una confessione o una comunione sacrilega soddisfa del pari come una fatta colla maggior divozione. La rivelazione, i profeti, i vangeli, i miracoli di Cristo si possono credere o non credere; anzi, dicono essi, sono credibili sì, ma non evidentemente veri. Il solo dogma necessario è questo: che vi è Dio, che Dio è rimuneratore; tutto il resto è accessorio o inutile. E neppure questo è rigorosamente necessario, perocchè eziandio il perfetto ateismo può essere scusabile.
Preti e frati sono d’accordo a farci paura del diavolo pingendocelo con coda e corna; ed evvi una specie di gara fra’ pittori a chi lo fa più orrido e fra i declamatori sacri a chi lo fa più malvagio. Per colma d’ingiuria e per togliergli ogni diritto di difesa lo chiamano per antonomasia il calunniatore, eppure nissuna persona al mondo fu mai tanto calunniata quanto il povero diavolo. I gesuiti pel contrario non fanno gran stima dell’inferno; il purgatorto lo sgomberarono di fornelli e pignatte per portarle nella loro cucina, e ce lo descrivono precisamente come Omero ha descritto i campi Elisi. È un luogo, dice il Bellarmino, splendidissimo, fioritissimo e come una prigione da senatori. Così che, alla più disperata, anco nel purgatorio non si sta poi tanto male. Evvene un altro meno allegro e fatto pei pitocchi, ma ivi le anime anco più peccatrici non resteranno più oltre di dieci anni. È dunque solenne frottola quella di certi predicatori, che per ogni piccola bugiuzza si hanno sette anni di multa nel purgatorio. Se fosse vero, poveri predicatori!
Non meno felici furono i gesuiti a pingerci il paradiso, perocchè sapendo che la comune degli uomini poco si capacita di una felicità contemplativa, essi lo hanno figurato tutto sensuale, come quello de’ Maomettani; anzi il gesuita Pomey passò più oltre, e adulando i Francesi suoi compatriotti che hanno il genio festoso e convitatore, e sono amanti della galanteria, affine d’invogliargli della celeste gloria: Si, disse loro nel suo Catechismo Teologico, Sì, nel paradiso l’udito sarà allegrato dalle dolcezze della musica, l’odorato dal profumo degli odori, il gusto dalle delizie de’ sapori, finalmente niuna cosa mancherà che sia capace di solleticare il senso del tatto. A tanto raffinamento di voluttà Sant’Ilarione stesso si lasceria sedurre.
Essendochè i gesuiti, come prescrivono le Costituzioni loro, non possano avere opinioni particolari, ma tutti debbano pensare in modo conforme; e debba ciascuno volere e sentire ciò che vuole e sente il loro superiore: ne viene per seguito che le cose narrate siano la precisa dottrina della Società; molto più che la trovi insegnata concordemente e costantemente dai più celebri loro casuisti, approvata dai teologi deputati all’esame dei libri della Compagnia, dai loro provinciali e dai loro preposti generali per le mani di cui passavano tutti i libri da stamparsi acciocchè, dicono le Costituzioni non escano al pubblico se non se opere degne di edificarlo. E bisogna bene che sia una dottrina edificante, perchè la corte di Roma non la condannò mai; nè la condannerà, diceva Frà Paolo, essendo i gesuiti un secreto del suo impero, anzi il sommo e il massimo, col quale si leva di mezzo quelli che palesemente ardiscono di non adorarlo, e tiene in officio quelli che l’ardirebbono se non temessero.
Colgo l’occasione per dire alcuna cosa del loro instituto, modello di società secreta; imperocchè niente fu mai pensato di più sottile e più scaltro per ridurre l’uomo ad un pezzo di macchina che fa nulla per sè, ma segue il movimento del meccanismo generale, e ricevendo l’impulso da un pezzo lo inferisce in un altro, e tutti insieme per vario lavoro concorrono allo scopo che si è prefisso l’artefice.
Nata nel 1540 quando la libertà di assai stati dell’Europa cadeva sotto i colpi vibratile da Carlo V, la Compagnia di Gesù non rappresentava come i monaci uno stato feudale, non una democrazia come i Mendicanti, ma una monarchia assoluta e ambiziosa qual era quella a cui aspirava il prefato imperatore. Un capo a vita detto il preposito generale, che fissava la sua residenza in Roma era l’autorità suprema dalla quale emanavano tutte le autorità subalterne; e benchè la Società in genere si fosse riservato quello che si direbbe il potere legislativo, essa era rappresentata in così picciol numero che la volontà del generale tornava onnipotente, molto più che i rappresentanti medesimi erano la maggior parte creati da lui, ed era indispensabile il suo assenso alla sanzione delle leggi, e le assemblee non avevano tempi periodici per convocarsi, ma dipendevano dall’arbitrio del capo.
Il nome di Compagnia le fu dato dal suo fondatore, Ignazio di Lojola, il quale essendo prima soldato intese d’instituire una compagnia di milizie in onore della Madonna e di suo figlio. Era ripartita in province, ciascuna delle quali abbracciava spazi vastissimi, come sarebbe la provincia d’Italia, di Francia, di Germania, di Spagna, delle Indie; ed ognuna aveva il suo preposito provinciale eletto dispoticamente dal generale. Le province si suddividevano in case professe e in collegi: nelle prime abitavano quelli che avevano professato i voti solenni, che erano i veri gesuiti; i collegi erano i loro instituti di educazione, appendice de’ quali venivano le case di probazione o conventi de’ novizi.
Il concilio di Trento permise a’ frati mendicanti di possiedere beni stabili; i cappuccini ricusarono quella concessione dichiarando che volevano perseverare nella primitiva loro povertà. Giacomo Lainez generale de’ gesuiti fece la stessa dichiarazione rispetto al suo Ordine, ma la ritirò il giorno dopo, e fece una distinzione tanto sottile che poco le manca ad essere ridicola: dicendo che le case professe viverebbono in una volontaria povertà, ma che i collegi continuerebbono a possieder beni per usarli al profitto della educazione de’ giovani. Poco importa che le ricchezze siano attaccate ai collegi o alle case professe, il vero è che i gesuiti erano ricchissimi e fecero immensi acquisti, e quella arguzia del Lainez non era che un ripiego per ingannare i semplici e meritare al suo Ordine tutti i privilegi concessi dai pontefici ai Mendicanti.
I gesuiti distinguevano i voti semplici dai voti perpetui: i primi, ignoti alle altre fratrìe, consistevano nella obbligazione di osservare la povertà, castità ed obbedienza secondo le leggi della Compagnia (cui per altro non era dato di conoscere); ma l’obbligazione era ristretta al solo tempo che l’individuo restava nella Società, e si risolvevano nel caso che fosse licenziato. A questi voti, che dovevano essere rinovati ogni anno, andava congiunta la formale promessa, giurata e scritta, di non abbandonare giammai la Società, e di farsi inscrivere nella medesima in qualità di professo tosto che piacesse al generale. Oltre a questi tre voti semplici vi era un’altra formola, chiamata con egual nome, varia per più o meno clausole secondo il grado dell’adepto, che sommariamente consisteva nel giurare cieca obbedienza al generale o suoi delegati, e a non aspirare al di là del grado che occupava o che gli sarebbe stato assegnato.
I voti solenni erano i tre anzidetti di povertà, castità ed obbedienza, trasmutati in obbligazione perpetua e indissolubile, il che dicevano fare la professione. Oltre i quali i gesuiti ne avevano un quarto tutto loro peculiare, ed era «di partire immediatamente e senza compenso per qualunque paese comandi Sua Santità, tra fedeli od infedeli, ed operare quelle cose che riguardano il culto divino e il bene della religione cristiana». Intorno a tale quarto voto erra chi crede che i gesuiti giurassero una passiva sommessione ad ogni e qualsiasi volontà del papa, mentre e’ si ristringe alle sole missioni. Infatti e’ furono veduti assai volte, e più frequentemente degli altri Ordini, resistere alle bolle ponteficie, deridere le decisioni della Santa Sede, impugnarle, confutarle, e minacciare persino i pontefici se non le ritrattavano. Pure quella prontezza per le missioni, e quella obbedienza così sconfinata sopra oggetti tanto vaghi e di una indefinita significazione, tornò immensamente utile a’ papi. La posizione poi in cui si trovò la Compagnia fin dal suo nascere, in conflitto continuo colle autorità civili ed ecclesiastiche, colle università degli studi e cogli altri frati, e il fine istesso propostosi dai fondatori di sostenere il vacillante imperio ponteficale sbattuto dai novatori oltremontani, obbligò i gesuiti a gettarsi a corpo perduto nel più esagerato curialismo, e quanto i protestanti o i parlamenti e le università cercavano di detrarre alla podestà de’ papi, altrettanto essi la esaltavano e vi aggiungevano.
I gesuiti si dividevano in cinque classi: Professi, Coadiutori, Scolari, Indifferenti e Novizi.
Questi ultimi esattamente parlando non erano membri della Società, ed era anco loro proibito di dirsi tali. I gesuiti preferivano i giovanetti perchè potevano educarli a modo loro, ciò nulla ostante non facevano eccezione a chi che sia quando lo trovassero di loro convenienza; e quantunque le Costituzioni avessero stabilito alcuni impedimenti per certi individui, per esempio se era ammogliato, se aveva dato promessa di matrimonio, se aveva genitori bisognosi del suo aiuto, se aveva commesso delitto che importasse pena d’infamia, se non era di natali legittimi, se aveva professato opinioni eretiche o erronee nella fede, o se aveva appartenuto già ad altro Ordine di religiosi quantunque non avesse fatto i voti (dicendo le Costituzioni che un buon cristiano debb’esser fermo nella sua prima vocazione, viene a dire che i gesuiti volevano uomini di carattere irremovibile): quantunque, dico, vi fossero tali impedimenti, quando in un soggetto si ravvisavano dona aliqua Dei illustriora cioè che fosse raccomandato da molte ricchezze o da nascita illustre o da un sapere eminente o da altre utili qualità, l’esaminatore prima di rifiutarlo doveva conferire col superiore; il quale, se il caso era grave e non poteva deliberare da sè, ne scriveva al generale; e se il soggetto era tale che meritasse di essere ammesso, e che o non fosse libero di sua volontà come i figli di famiglia, o fosse macchiato di qualche delitto lo mandavano ad un noviziato lontano dove i parenti non potessero rintracciarlo o quella macchia fosse ignota.
Quando un individuo si presentava per essere ammesso, veniva trattenuto per quindici giorni o tre settimane in una casa di probazione come se fosse un semplice ospite, e intanto astuti esaminatori lo andavano interrogando alla larga e con aria d’indifferenza intorno alla sua condizione, vita e costumi; e in ciò le Costituzioni raccomandavano d’usare la più profonda doppiezza ricorrendo a domande suggestive, senza puntar molto sulla stessa domanda onde non recar sospetto. Trovato che conveniva, lo aggregavano alla casa di probazione e lo soggettavano al noviziato di un anno: in questo fratempo era esplorato ed esaminato accuratamente, e per penetrare le parti più intime del suo cuore si servivano della confessione, esortandolo di volta in volta ad una confessione generale che il confessore metteva in iscritto e la comunicava al Superiore, il quale poi le raffrontava l’una coll’altra e vedeva se vi era contradizione. Onde meglio comprendere la coscienza de’ novizi usavano di mutargli il confessore, od anco di mutargli la residenza. Durante l’anno erano comunicati al novizio alcuni sunti delle Costituzioni cui doveva studiare, e gli erano anco letti in diversi tempi. Qui è da notare che in tutti gli Ordini regolari il novizio può fin dal primo giorno conoscere le costituzioni e regole dell’Ordine; ed ivi tutte le cose essendo comuni, al primo Capitolo conventuale egli è introdotto ed assiste alle deliberazioni a pari del frate più anziano. Ma nei gesuiti tutto è mistero. Nissuno può conoscere l’amministrazione interna tranne i membri a ciò deputati e che sono obbligati al più rigoroso secreto; nissuno conosce la legislazione della Società tranne i professi più vecchi e più esperimentati, e pochissimi sono quelli che ne abbiano una cognizione perfetta. Ogni classe di gesuiti, ogni impiego, ogni dignità ha le sue regole particolari, e queste sole gli sono comunicate per iscritto, e ignora appieno quelle dei gradi e dignità superiori, e specialmente le norme del reggimento totale della Compagnia.
Il noviziato non finiva ad un anno come negli altri Ordini, ma continuava per un secondo, e talvolta per più anni di seguito, sotto diversi pretesti; giacchè i gesuiti non tenevano regola stabile su di ciò, ma si governavano secondo le circostanze o la qualità o il carattere della persona e le cose che se ne potevano promettere con una morale certezza. Dopo il primo anno il novizio passava dalla casa di probazione al collegio, ed era ammesso al corso comune di studi od ivi adoperato secondo la sua capacità. In tutto questo biennio ei non faceva alcun voto; ma se voleva farli, premessa la licenza de’ superiori, o se conveniva a questi di farglieli fare, erano i voti semplici che ho detto. Ma subìti i due anni di prove ciascuno doveva obbligarsi con essi voti semplici, e cominciava da quel momento ad essere annoverato fra i membri della Società: allora veniva ammesso alla classe degli scolari o dei coadiutori o a quella degli indifferenti. Questi ultimi erano quei gesuiti di cui non si conoscevano ancora bene le qualità, nè si sapeva a quale uso applicarle: venivano quindi esperimentati nello insegnamento nella confessione, nelle prediche e in tutte quelle altre faccende per cui mostravano qualche attitudine, finchè si vedesse in quale fossero più eccellenti ed a cui conveniva destinarli. Gli scolari erano di due specie: alcuni detti Scelti (scholastici selecti) erano quelli eletti ad insegnare in via provvisoria ed esperimentativa; gli altri col nome di Approvati erano veri maestri destinati ad una tale facoltà sotto la direzione dei superiori.
Pure di due specie erano i coadiutori: temporali e spirituali, e sì gli uni che gli altri dovevano essere eletti dal preposto generale, o da un suo vicario che ne avesse ricevuta la facoltà immediata. I coadiutori temporali erano gli stessi che negli altri Ordini si chiamavano frati laici, e venivano adoperati negli uffici servili delle case professe e de’ collegi, o se avevano capacità erano aggiunti a sussidio degli amministratori de’ beni della società o in qualità di scrivani ai superiori.
I coadiutori spirituali dovevano essere sacerdoti e sufficientemente instrutti nelle lettere o nella teologia; e secondo la loro abilità erano destinati a sussidio dei professi nelle occupazioni del sacerdozio in quelle dell’insegnamento: era già un ordine cospicuo, perchè da esso ordinariamente si cavavano i rettori dei collegi, i professori delle scienze, i procuratori tanto provinciali, quanto generali (anzi i procuratori non potevano essere professi), e tal fiata erano anco spediti alla congregazione generale in qualità di deputati, e vi avevano voto tranne nella elezione del generale. Rare volte se il merito era eminente e la persona profondamente esplorata, tosto dopo finite le biennali prove, purchè fosse ordinato al sacerdozio, era immediatamente ascritto fra i coadiutori spirituali; ma di solito non vi perveniva senza molte prove date nella qualità di scolaro approvato, e le altre dignità non poteva conseguirle se non dopo un lungo tirocinio di esercizi subalterni.
Quantunque espedite le biennali prove potesse il novizio essere ammesso alla professione solenne dei voti, il generale, a cui si aspettava di concederla, la concedeva rarissime volte a quelli che non fossero stati esperimentati per sei o sette anni di seguito nella classe degli scolari approvati o de’ coadiutori spirituali, e non la concedeva senza prima essersi assicurato che l’individuo non aveva speranza di eredità temporali; finchè questa speranza di ereditar beni da genitori o parenti sussisteva, era neppure ammesso nella classe de’ coadiutori, i quali quantunque facessero i voti semplici dovevano rinunciare ai loro patrimoni che diventavano della Società, e non potevano più acquistarne. Ciò era indispensabile, in primo luogo per tenere i coadiutori in una perfetta soggezione de’ professi, secondamente per conservare la eguaglianza fra loro, ed in ultimo per impedire che un coadiutore ricco del proprio non potesse corrompere per farsi strada alle dignità, crearsi un partito e versar la discordia nella Compagnia. Il che non poteva accadere negli scolari i quali, quantunque fossero opulenti e congiunti di sangue con personaggi illustri, erano tenuti in grado di pupilli, non potevano carteggiare coi loro parenti senza che le lettere missive o responsive non fossero vedute prima dal superiore, non potevano neppure trattare con quelli senza il testimonio di questo o di un suo delegato, nè conservare o amministrare alcuna cosa senza la licenza di lui: anzi quando un allievo era persona importante, e che le suddette precauzioni diventavano difficili, i gesuiti solevano mandarlo in luogo lontano, od anco a Roma sotto gli occhi del generale, col pretesto di farlo viaggiare o di procurarli una migliore educazione.
I professi eziandio erano di due sorti: gli uni, ed erano i gesuiti per eccellenza, si dicevano professi dai quattro voti; gli altri, alquanto inferiori ai primi, erano i professi dai tre voti, perchè non proferivano il quarto voto relativo alle missioni. E questa differenza era necessaria per non mettere a disposizione del pontefice troppa quantità di gente, e forse i migliori soggetti che il generale divisava d’impiegare diversamente che non a fare il missionario, tal uomo essendo più utile a servire da cappellano di corte o a confessar dame ricche o a insegnare ne’ collegi o a fare il banchiere che non a predicare l’Evangelio agli Americani od ai Cinesi. Ad ogni modo i professi d’ambe le specie costituivano il minimo numero della Società.
Quando un gesuita professava solennemente i voti, o tre o quattro che fossero, era anco obbligato a giurare un’altra formola di voti che dicevano semplici: ed era, di mantenersi fedele alle Costituzioni e di non fare alcuna cosa affine di variarle; di non aspirare ad alcuna dignità dell’Ordine; di non pretendere ad alcun beneficio o dignità fuori della Compagnia, ed eziandio di non accettarla quando non vi sia obbligato dal generale; di denunciare al generale chiunque intentasse contro queste prescrizioni; e infine che quando egli fosse promosso ad alcuna dignità della Chiesa, di doversi condurre sempre secondo i consigli e la volontà del preposto generale de’ gesuiti, o della persona da lui destinata a consigliarlo, quand’anco fosse contraria alla volontà propria.
Astutamente i fondatori del gesuitismo provvidero acciocchè nissuno potesse aspirare alle dignità della Chiesa, e neppur brigare per conseguire quelle dell’Ordine; perocchè niente è più pernicioso alle sêtte quanto l’ambizione degli individui, che frange lo spirito di corpo e l’unità del fine, ed obbliga l’ambizioso a dividere i suoi affetti od anco a tradire gl’interessi della Società. Altronde è difficile fuor misura che chi è inalzato ad un grado eminente si mantenga rigorosamente fedele ai principii sposati dal corpo a cui aparteneva e che possono essere in collisione col suo migliore vantaggio. I gesuiti ne fecero un cattivo esperimento nel cardinale Martinez, che uscito della loro Compagnia per diventare arcivescovo di Toledo, diventò loro nemico; dopo di allora fu prescritto fra gli obblighi di un gesuita, tosto che entrava nella classe de’ coadiutori, che dovesse anco giurare che non accetterebbe giammai nissun beneficio ecclesiastico, e solo fu permesso di accettare il cardinalato perchè ridondava in onore della Compagnia. Si osservi ancora che tutte le moderne società secrete ruinarono perciò appunto che non fecero un bastevole esperimento dell’uomo, non ne domarono gli appetiti personali, e lasciarono libero il varco alle ambizioni de’ loro membri, ed anzi gli aiutarono a diventare cortegiani o ministri, viene a dire a mutar spirito e pensieri.
In tutte le società monastiche tosto che l’uomo avesse professati i suoi voti acquistava il diritto di non essere più escluso da quella, ma tale diritto il gesuita lo acquistava giammai nè per meriti sommi, nè per longevità di servigi, chè il generale poteva sempre rescinderlo quando gli piaceva. Egli non era così facile che dopo le reiterate prove di un lungo noviziato, e subite nei vari gradi per cui lo facevano passare, s’introducesse nella Compagnia uomo capace di tradirla; e se taluno era tanto dissimulato per potersi occultare cinque o sei anni, erano tuttavia in tempo di licenziarlo prima che penetrasse i loro arcani. Pure anco questo poteva accadere: in tal caso se era un professo o un coadiutore d’importanza tentavano prima tutti i mezzi di correggerlo senza inasprirlo, o lo mandavano in regioni lontane, o lo occupavano in modo conforme al suo gusto: e non sortendone alcun buono effetto, facevano in modo che si dipartisse quietamente e gli assicuravano anco una pensione secreta: ecco il motivo per cui fra i tanti che uscirono dalla società de’ gesuiti così pochi ve ne furono che se ne dichiarassero i nemici. Ma se accadeva che malgrado le arti usate non potessero guarentirsi dal maltalento della persona esclusa, allora voltavano tutte le batterie contro di lei e sì la screditavano e la perseguitavano che poteva considerarsi uomo perduto.
Se poi chi voleva uscire o cui volevano licenziare era un semplice scolaro o persona di poco conto, lo lasciavano andare in pace, procurando solamente di sorvegliarlo, e di favorirlo o contrariarlo nelle successive sue ambizioni, secondo che lo vedevano avverso o propenso.
Il sistema di educazione dei gesuiti tendeva a spogliare l’uomo di tutto ciò che vi ha di personale, pensieri, inclinazione, affetti, temperamento, e persino la volontà; e subordinarlo, anzi ad invaderlo di un assoluto egoismo di corpo, fuori del quale non esiste più nulla. Per avvezzarli a questa totale abnegazione insegnavano ai novizi a parlare de’ loro genitori e fratelli e congiunti ed amici come di persone morte: e invece di dire mio padre o mio fratello, dovevano dire il padre o il fratello che io aveva, per snaturare le vecchie inclinazioni ed evirare il giudizio ed accostumarli ad una obbedienza passiva, ripetevano che il vero gesuita deve imitare Abramo il quale si mostrò pronto a scannare suo figlio per ubbidire a Dio, senza chiederne il perchè; e per vedere se profittavano degli insegnamenti gli obbligavano a prove analoghe; gli avvezzavano ancora a dissimulare e a mentire e in pari tempo a spiare l’uno la condotta dell’altro il che gli assuefaceva alle astuzie, alla dissimulazione e a quella finezza di spirito osservatore sull’indole e le azioni altrui e sull’arte d’indovinarle. Ogni gesuita doveva rinunciare alle proprie idee per assumere le idee della Società; quindi tutti dovevano pensare ed agire come se fossero un solo individuo, e nissun altra sêtta può essere più propriamente paragonata al corpo umano. Il generale ne era l’anima o la facoltà pensante, e tutti gli altri erano membri mossi a talento di quella facoltà. Tale omogeneità di sentire e di volere ed uniformità di operare era così perfetta che la Compagnia di Gesù benchè sommasse a più di 20,000 individui, e nel 1609 contasse 21 case professe e 293 collegi che poi nel seguito si accrebbero di assai, essa è l’unica società monastica che offra lo spettacolo singolare di una continua ed invidiabile pace domestica.
I gesuiti non si brigavano di cantare in coro come gli altri frati, ed erano persino dispensati del Breviario e della messa quando erano in viaggio od occupati altrimenti. Le astinenze, i digiuni e le altre mortificazioni erano lasciate al libito di ciascuno; e tutti i loro doveri sociali e religiosi si riducevano ad un solo, inculcato quasi ad ogni pagina de’ loro statuti; procurare con tutti i mezzi possibili il più gran vantaggio della Compagnia: chi meglio vi riusciva era il più perfetto, e trascurarlo era il maggior delitto.
Mi dimenticava quasi di ricordare un fatto curioso narrato da Frà Paolo in questo modo: «In una camera della casa che avevano qui in Venezia fecero dipingere un inferno con tutte le pene del fuoco e con padelle e spiedi e simili, quindi le anime che subivano i tormenti. Colà conducevano i loro devoti onde renderli più soggetti colla vista di quei terrori, e mostravano loro le anime, facendo a ciascuna il nome, e dicendo questo è il tale e questo è il tale altro, donde è nato fra noi il proverbio volgare Li gesuiti ti faranno dipingere a casa del diavolo. Mi raccontava un giovane che studiava la giurisprudenza, che essendo stato condotto in quella sala e mostrategli le anime dannate, gli fu detto l’uno essere Alberico da Rosate, altro il Roseto, altro il Covarruvias; e quello che mi fece più ridere si è che gli fu mostrato tra le fiamme un posto vuoto, e dettogli essere quello riservato all’anima del Menocchio, che era ancora vivo. Sono cose che fanno ridere; ma pure è con tali ridicolaggini che esercitano la loro tirannide». Non v’ha dubbio che se i gesuiti avevano fatto dipingere fra i dannati gli accennati celebri giureconsulti, e spinta la bontà fino a destinare un posto al presidente Menocchio, non avranno mancato di fare lo stesso anco in prò di Frà Paolo; e intanto con queste imposture, che non sortivano senza effetto sulle tenere immaginazioni dei loro allievi, gli avvezzavano di buon ora nei pregiudizi e nell’odio verso quegli scrittori cui volevano far detestare.
Negli altri Ordini tutto era costituzionale, e fra i gesuiti era tutto dispotico. Il preposito generale che risiedeva costantemente a Roma sceglieva egli i prepositi provinciali, i procuratori, i rettori de’ collegi, i professori; i quali non avevano altra autorità tranne quella delegatagli da lui, cui poteva ampliare o ristringere a talento; nissun novizio poteva essere accettato senza sua participazione; egli solo poteva ascrivere i coadiutori, egli solo decidere del tempo in cui si poteva professare i voti solenni, e se conveniva professarne tre o quattro; egli prolungava le prove o le abbreviava, e dispensava dagli impedimenti quelli che volevano entrare nella Compagnia, o delle prescrizioni per arrivare a tale classe o a tale grado; egli destinava alle missioni, al pergamo, al confessionario, ad insegnare le scienze o le arti. L’amministrazione dei beni era tutta in sua mano, e ciascun collegio era obbligato a spedirgli regolarmente i conti; le province gli mandavano ogni tre anni un procuratore affine d’informarlo vocalmente di tutto ciò che succedeva e del loro stato personale ed economico; le Indie per essere lontane lo mandavano ogni quattro anni. Poteva rivocare o punire i prepositi subalterni, i procuratori, rettori, ed altri ufficiali deputati agli studi ed alla amministrazione, se non facevano il loro dovere o se non obbedivano alla sua volontà. A conoscere poi gli uomini riceveva un ragguaglio esattissimo delle confessioni non solo dei suoi gesuiti, ma eziandio de’ principi, uomini di Stato e personaggi grandi: perchè ogni confessore gesuita era tenuto di scrivere ciò che udiva e mandarne la relazione al preposto di Roma, il quale per questa via era informato de’ più gravi interessi pubblici o privati, la cognizione dei quali giovava alla Compagnia. Anzi per penetrarli più finamente coltivavano assai le donne e i servitori, da cui si facevano rivelare quanto accadeva nelle pareti domestiche.
I gesuiti non riconoscevano alcuna potestà politica od ecclesiastica, toltane quella del loro generale che chiamavano luogotenente di Dio in terra, facendone per tal modo un secondo papa; anzi il papa non poteva valersi dell’opera loro se non per l’intermezzo di esso generale.
Presso al generale vi era un consiglio di cinque assistenti, scelti ordinariamente fra i professi, ciascuno de’ quali aveva il suo dipartimento a parte, cioè Italia e Sicilia; Francia; Germania, Spagna, Portogallo ed Indie: e quantunque il generale avesse l’obbligo di consultarli nei più gravi affari, ei poteva cionondimeno farne senza, non mostrar loro le lettere a lui dirette particolarmente, o consultarsi con altri fuori di loro, o dopo di averli consultati seguire un parere contrario. Avevano la facoltà di accusare il generale se non soddisfaceva agli interessi della Compagnia ed anco di deporlo provvisoriamente finchè fosse giudicato dalla congregazione; ma era una facoltà illusoria, primamente perchè per venire a quell’atto erano necessarie assai formalità, e poteva tornare pericoloso a chi lo tentava; in secondo luogo il generale con minori formalità poteva egli stesso deporre e processare gli assistenti; ed in ultimo quantunque egli dovessero essere eletti dalla congregazione generale, questa convocandosi raramente e quasi sempre ad arbitrio del preposto, se accadeva che nel fratempo mancasse uno degli assistenti, il generale aveva autorità di nominargli il successore, il quale doveva poi essere approvato per lettera della maggioranza de’ provinciali, che non si rifiutavano mai per non perdere il loro posto. Così che si può dire che anco gli assistenti erano creature del generale, e meglio istromenti che contrappeso del suo dispotismo.
Questa società secreta, illustre per uomini grandi e famosa per avere travagliato 230 anni la Chiesa e lo Stato, fu a richiesta di tutta l’Europa soppressa dal celebre Clemente XIV Ganganelli con sua bolla del 21 luglio 1773: ma i gesuiti non si credettero obbligati ad ubbidire, e continuarono a vivere nella Prussia sotto la protezione di Federico II e nella Russia sotto quella di Caterina II: Pio VII gli ristabilì nella Russia con un suo Breve del 1801, poi nel regno di Napoli con altro Breve del 1809; infine ai 7 agosto 1814 gli ristabili per tutta la cristianità con una bolla che quantunque sia ad perpetuam rei memoriam è in piena contradizione con l’altra parimente ad perpetuam rei memoriam di Clemente XIV. Ma fu una risurrezione efimera: due anni dopo furono banditi dalla Russia come sediziosi e turbolenti; nel 1828 furono scacciati dalla Francia dove si erano introdotti furtivamente; e nel 1835 lo furono anco dalla Spagna. Negli altri paesi odiati o derisi vivono una esistenza precaria e piena di pericoli.
L’Austria ha durato lungamente nell’escludere i gesuiti da’ suoi Stati, ma e’ seppero così bene adoperarsi e servirla con fervore ne’ suoi interessi e secondarne le azioni e reazioni politiche, che riuscirono ad aprirsi un varco nella monarchia austriaca. Come questa potenza rappresenta nel secol nostro quello che altra volta era la Spagna, così e’ si sono schierati sotto le insegne di lei, ne sono diventati i più audaci emissari, ed è colla sua protezione che poterono dilatarsi o che tuttavia si mantengono in varii paesi; e quantunque abbiano ricevuti singolari favori dal re di Sardegna, essi in Roma sono alla testa della fazione austriaca contraria alla fazione sarda, ed è fama che negli anni addietro abbiano fatto opera efficacissima coll’Austria per escludere dalla successione al trono il principe di Carignano.
Vogliono alcuni che i gesuiti moderni abbiano considerevolmente mutato sugli antichi; ma è certo che Pio VII volendo innovare alcuna cosa nei loro statuti, il loro generale Karen disse aut sint ut sunt, aut non sint, «o siano quello che sono, o non siano». Quello che si può dire si è che malgrado la loro costanza e i patrocini che vanno mendicandosi, non potranno mai più risorgere all’imperio di prima. Come fazione politica non sono che una società secreta al servizio dell’assolutismo; e l’Austria che più di tutti se ne giova ha trovato l’arte d’impedirle ogni movimento proprio, e di maneggiarla a suo talento, tenendola abietta e serva intanto che mostra proteggerla. Come fazione religiosa è una fazione ridicola, e le puerili invenzioni a cui ricorre per darsi credito possono allettare qualche donnicciuola, ma invece di rialzare, come pretendono la religione romana, contribuiscono a viepiù farla deridere e a ruinarla; altronde non sono più ricchi e mancano d’uomini d’ingegno, intanto che i loro avversari ne possiedono di eminenti; hanno potenti nemici nella parte più illuminata del clero, nei frati, nel popolo, nella stampa, persino in corte di Roma, ma sopratutto nello spirito dei tempi: vivono quindi nel disprezzo, stromenti ignobili di polizia ne’ regni assoluti, diffamati negli Stati liberi, e dopo tante patite vergogne e screditati dall’istesso loro nome non possono più aspirare a far fortuna nel mondo.
Le costituzioni de’ gesuiti si compongono di molte parti, quali sono le Lettere apostoliche che contengono le bolle e i privilegi concessi loro dai papi, e sono come il fondamento della Società. Un Compendio di essi privilegi destinato per quelli a cui non era lecito di conoscerli in corpo. Le costituzioni colle loro dichiarazioni che ne sono la glossa ed hanno autorità pari al testo: ad esse Costituzioni è premesso un opuscolo detto l’Esame, che è una particolare e molto sottile istruzione intorno al modo con cui devono essere esaminati i novizi per tutto il tempo della loro probazione. Le Regole, dove specificatamente sono esposti i precetti che devono osservare i gesuiti ciascuno nel posto che occupa: così vi sono le regole del provinciale, del preposto di un collegio, del rettore, del gesuita in viaggio, di quello destinato alle missioni o alla predicazione, del portinaio, dell’infermiere, del cuoco, e di ogni altra dignità e grado od impiego dai supremi ai minimi. Ciascuno aveva in iscritto la parte che lo concerneva, e, se era necessario, anco un sunto delle Costituzioni, non comunicandosi le Costituzioni intiere se non ai primani della Società. I Decreti delle congregazioni generali; un Sommario de’ medesimi col titolo di Canoni ad uso di quelli che non potevano vederne l’intiero; le Formole di esse congregazioni; la Ragione ed Instituzione degli studi che comprendeva il loro sistema d’insegnamento; le Ordinazioni dei proposti generali, e le Istruzioni che sono supplimenti alle Costituzioni e alle Regole anzidette; le Industrie, l’Istruzione del P. Claudio, gli esercizi di Sant’Ignazio, e il Direttorio degli Esercizi che comprendono il loro sistema di governare le coscienze; e infine le Lettere dei preposti generali. Tutti questi documenti furono fatti stampare più volte dai gesuiti con variazioni ogni volta più o meno importanti, cui è necessario conoscere a chi voglia scrivere un’istoria profonda del loro Ordine; e con tutto ciò niente era più difficile quanto il procurarsi alcuno di questi libri. Frà Paolo che era curiosissimo di averli, onde penetrare i misteri di quella sêtta, durò fatica grandissima e più anni di ricerche e di sorprese fatte da lui e fatte fare dai suoi amici in Italia ed in Francia prima di avere le Lettere apostoliche, le Costituzioni, le Ordinazioni e qualche frammento delle Regole; e dopo averle lette disse che per quanto grande egli s’immaginasse l’astuzia e la bricconeria dei gesuiti, era ben lungi dal sospettarla cotanto quale realmente è; e predisse che quei documenti quando fossero conosciuti dai governi, farebbero la ruina de’ gesuiti. Così infatti avvenne in Francia nel 1762.
Oltre ai libri indicati i gesuiti ne avevano altri che non stampavano e si comunicavano gelosamente per iscritto, e riservati ai soli caporioni che poi a voce ne stillavano il sugo nei subalterni: fra’ quali sono famosi i Monita secreta la cui autenticità non può essere messa in dubbio, tanti sono i fatti che la testificano. Sorpreso un esemplare non si sa da qual mano, furono stampati in Germania intorno al 1608; ma tanta fu l’attività usata da’ gesuiti nel farne sparire le copie, che quella prima edizione restò poco men che ignorata; ed oggi non se ne ha più indizio. Frà Paolo stentò assai per averne una copia, e credo anco manoscritta, per la quale dovette scrivere e importunare più amici in Francia, in Olanda e fino in Inghilterra. Ma ristampati i Monita nel 1713 dal Padre Enrico di Sant’Ignazio carmelitano, malgrado le nuove sollecitudini dei gesuiti si moltiplicarono le edizioni e furono eziandio tradotti in tutte le lingue così che al presente sono comunissimi.
Questo libriciuolo contiene la quintessenza della volpineria de’ gesuiti, che incamuffandosi col gran mantello della religione non ha altro fine che di dominare e di arricchire: ivi sono sottilmente dichiarati i precetti con cui la Società debba governarsi quando fonda un nuovo collegio in qualche luogo; e come acquistare e conservare la famigliarità de’ principi e persone grandi; e gratificarsi quelli che, quantunque non ricchi, hanno autorità nello Stato e possono per altre guise giovare alla Società; quali cose debbano osservare i predicatori o confessori de’ grandi; come debbano i gesuiti contenersi cogli altri ecclesiastici; come beneficarsi le vedove ricche e dirigerle nella amministrazione e disposizione de’ loro beni così in vita come in morte; come circuire i figliuoli di esse vedove, e distrarli dallo accasarsi, indurre le figlie a monacarsi e i figli a farsi gesuiti; per quali modi si possano accrescere le entrate ai collegi, come si abbiano a trattare i gesuiti che non lavorano a profitto della Società; quali sono i modi da seguirsi nello screditare quelli che furono licenziati dalla medesima; quali siano gl’individui che conviene ricevere e conservare; quali i giovanetti che si debbano sedurre e con quale metodo convenga procedere per riuscirvi; come si possa trar vantaggio della confessione così nel regolamento interno, come pel giovamento della Società; come il gesuita direttore di coscienza debba condursi colle monache e colle sue penitenti; come per guadagnare molte ricchezze debbasi in apparenza ostentarne il disprezzo; e infine tutto ciò che può contribuire a promovere e ingrandire la Società. Intorno a che è sviluppata una scienza di fraudi tanto profonde quali poteva immaginarle la più raffinata astuzia e la più ingannevole ipocrisia. Leggendo quei Moniti l’uomo il più addestrato nella furfanteria resta mortificato della sua nullità a fronte di così insigni maestri.
La curiosità di Frà Paolo nel penetrare gli arcani de’ gesuiti si appalesò eziandio nelle sue lunghissime indagini per avere un libro intitolato De modo agendi jesuitarum, libro che non sembra essere mai stato stampato e che gli debbe essere stato procurato in testo a penna dall’ambasciatore veneto a Londra.
L’odio ch’e’ portava a’ gesuiti, l’opposizione ferma e non senza animosità contro la corte di Roma, la sua simpatia pei riformati e il desiderio che prosperasse la causa loro, erano altrettante conseguenze delle sue opinioni politiche. La Spagna adombrando la tutela del cattolicismo rappresentava la fazione retrograda di quel secolo, il protestantismo costituiva il partito liberale; ed erano le estremità delle due parti gl’Irenici ossia quelli fra protestanti che inclinavano a riunirsi coi cattolici mediante certe convenzioni, e i parlamentari ossia quelli fra i cattolici che si opponevano agli eccessi della corte di Roma e gli volevano aboliti. Ora la Spagna opprimendo l’Italia trovava la sua forza ne’ gesuiti, e la corte di Roma per motivi di religione o per altri interessi che ne usurpavano il nome consentiva con entrambi, e tutti tre insieme formavano quel potere occulto che agiva sullo spirito umano come una pressione, intanto che il protestantismo reagiva in senso contrario. E come la repubblica veneta dopo la morte di Enrico IV era il solo fra gli Stati cattolici che formasse una opposizione politica contro le ambizioni della Spagna, così Frà Paolo per patria e per sentimento doveva mettersi anch’egli da questa parte e spingersi tant’oltre quanto lo permetteva la forza del suo genio. In fatti il suo abborrimento per quella monarchia era infinito, giubilava ad ogni vanità o rovescio di lei, e le augurava guerra fino dai Mori. I tempi di allora erano simili ai tempi presenti, chè colle medesime cause concorrono i medesimi effetti. L’assolutismo spagnuolo, come ora l’assolutismo della Santa Alleanza, dipendeva dalla pace, più presto dalla quiete sepolcrale dell’Italia; ed è perciò che la corte di Madrid rifuggiva da ogni idea di guerra, e i moti che ne nascevano assopiva o colla forza o coi maneggi. Frà Paolo aveva penetrato questo politico arcano, ma pure vedeva impossibile che ritornasse la libertà all’Italia finchè in Roma vi fosse un papa e una corte interessati a conservare l’ignoranza, gli abusi e la servitù, e pronti per ogni vile guadagno o per soddisfare ad un orgoglio a parteggiare con ogni straniero che si presenti e che largheggi le offerte; e gli pareva che se una gran guerra si fosse manifestata nella penisola, accompagnata da una allagazione di protestanti, ne sarebbe nata una felice rivoluzione; il gesuitismo disperso, il dominio spagnuolo atterrato, e la libertà del pensiero e della parola concessa agli uomini, erano, secondo lui, le primarie conseguenze. «Il papa e la Curia romana, scriveva, fanno quanto possono per non voler guerra in Italia, perchè fra mezzo le armi cesserebbe l’Inquisizione, l’Italia s’impirebbe di gente nemica alla religione romana, e non v’è dubbio che è spacciata la Curia se qui la guerra proseguisse due anni. Anzi due sarebbono le guerre, la militare e la letteraria: e quantunque la Curia vincesse nella prima, ella perderebbe sicuramente nella seconda, non potendo dapertutto far uso degli argomenti ond’è solita persuadere per amore o per forza, roghi e patiboli».
Frà Paolo convinto che la verità basta ad operare da sè medesima anco sugli intelletti più ottusi, non poteva farsi capace che la violenza potesse giovare alla riforma degli abusi. Convinto che l’edifizio romano era una macchina di errori sorretta dalla ignoranza, egli diceva: Fate conoscere quegli errori, distenebrate quella ignoranza e l’edifizio cade da sè. Era un modo di argomentare che disperava i Romanisti, i quali non potevano sostenere il paragone, ed erano obbligati a camminare per via opposta: il Sarpi voleva il libero esame della causa e de’ testimoni, ed e’ comandavano di chiudere gli occhi e le orecchie, e solamente piegare la testa; quelli chiamava la ragione in suo soccorso, cui questi accusavano maestra d’inganni, e vi sostituivano la propria autorità: voi dovete credere perchè lo diciamo noi, e tutto quello che diciamo noi, è vero.
Conseguente a suoi principii di tolleranza e di moderazione, il Sarpi non trovava applicabili alla Italia gli argomenti che fecero mutar religione alla Germania e all’Inghilterra, «essondochè vi siano leggi e costumi che quantunque non al tutto buoni sono pure da sopportarsi, acciocchè gli animi posciachè si sono avvezzati ai mutamenti non mutino in ogni cosa:» il che intendeva delle materie astruse o relative al culto popolare nel quale le innovazioni precipitate sono pericolose e gravide di discordie. E sempre mirando alla sola riformazione della Curia come la più essenziale, aggiungeva: «forse Iddio in questo secolo vuole con un mezzo più dolce del tentato nel secolo passato estinguere la tirannia degli abusi. Allora tentarono il fondamento e non riuscirono, ora incominciando dalla cima chi sa che non ne riesca un migliore effetto?»
Frà Paolo si andò travagliando più anni in questi pensieri, e gli speranzosi suoi desiderii erano forse alimentati dall’orgoglio di diventar egli il profeta e riformatore degl’Italiani: orgoglio il quale mi sembra trasparire da alcuni passi delle sue lettere. Ma le guerricciuole che si successero nel Piemonte, in Lombardia, nella Valtellina e nel Friuli dal 1612 al 1617, comechè menassero in Italia alcuni reggimenti di protestanti, stante la politica sedentaria di quei tempi, che oggi chiameremmo politica dottrinaria o del giusto mezzo, non produssero alcuno effetto corrispondente a’ suoi disegni, e lo fecero accorto che anco la guerra non era mezzo buono a rigenerare un popolo che oppressato da lunghe sventure e da tante e così diverse tirannidi aveva perduto fino la memoria della sua dignità; e che per risvegliarlo aveva bisogno di una scossa potente, che gl’infondesse nuovi pensieri e ne occupasse tutte le facoltà: ciò non poteva essere che un mutamento di religione, viene a dire, secondo che la intendeva Frà Paolo, un rovescio violento del materialismo romano. La qual cosa egli vedendo poco possibile, pieno di nobile sdegno sfogava il suo dispetto in una lettera degli 14 aprile 1617. «Sarebbe ben cieco, scriveva, chi non vedesse il giogo imminente sopra il collo d’Italia; ma la fatalità guida chi vuole, costringe chi ripugna; e con numero di superstiziosi è un maggiore di viziosi che amano meglio servir in ozio che faticar in libertà. Non manca anco qualche contaminazione di Diacatholicon (la politica della Spagna): questo terzo è irremediabile; per il secondo ci vorrebbe una buona stoccata che risvegliasse; al primo non c’è rimedio. Sono doi anni che la guerra è in Piemonte, ed uno in Friuli, e non è fatto minimo colpo contra la superstizione; e se bene sono venuti tremila Olandesi, non si spera come si credeva che la guerra fosse mezzo d’introdur la verità. Veggo che non è. Così conviene aspettare il tempo del beneplacito divino; il quale se non apre qualche mezzo che dia ingresso a far bene, ogni cosa pare inviata a stabilire due monarchie, una sopra i corpi e l’altra sopra l’anime».
Ma appunto verso questo tempo tante deluse speranze, tante frustrate vendette, la vecchiaia, l’amor del riposo, e l’indole istessa dell’uomo che si stanca di ogni sforzo che lo inquieta, e sopratutto di un odio continuo che è contro natura quando non è alimentato da passioni procellose o da stimoli esterni, parve che alquanto ravvicinassero i due Paoli. Il pontefice intento a conservare il suo stato, ad accrescere la fortuna de’ suoi nipoti, ad abbellir Roma e a ristorare il suo credito con opere pompose, depose poco a poco il suo risentimento contro Frà Paolo; alcuni avversari del quale erano spariti dal mondo, altri cadevano sotto il peso degli anni, e la sua costanza cominciava a trovare ammiratori fra personaggi distinti della Curia; la superstizione popolare lo considerava come un essere portentoso, tutelato parzialmente dalla Provvidenza che lo aveva tratto incolume e quasi per una serie di miracoli da tanti pericoli. Dal canto suo Frà Paolo inoltrandosi sempre più verso il confine della vita, incanutito sotto la moltitudine degli affari, cominciava a provare quella stanchezza e quell’amore alla solitudine e alla pace che suole andar di seguito ad una vita accompagnata da clamorose vicende: quindi cominciò a rasserenarsi e a considerare con occhio meno avverso il pontefice, e ne abbiamo la prova in varii pareri e consulti dove mostra un vivo desiderio di metter fine ai dissidi che ad ogni punto rinascevano fra i due governi. Un piccolo caso parve avere contribuito a restituire nella reciproca stima il pontefice e il frate. Il vescovo di Tine, accusato di malversazione dai Sindacatori pel Levante fu citato a Venezia a difendersi. Pochi anni innanzi un fatto simile avrebbe dato motivo a qualche grave discordia fra Roma e Venezia; ma il papa, ammaestrato dall’esperienza che sempre ne andava con perdita, chiuse un occhio e lasciò fare. La causa fu rimessa per consultazione a Frà Paolo, e seguendo il suo parere il vescovo fu assolto e rimandato con onore. Prima di recarsi alla sua sede volle andare a Roma a far riverenza al pontefice, che lo chiese e del suo processo e di Frà Paolo. Narrò il vescovo l’accaduto lodandosi del Consultore, e il papa si lasciò allora sfuggire, essergli noto quanto fosse quello un uomo temperato e giusto. Questa lode, benchè fra i denti, era moltissimo, trattandosi tra un papa e Frà Paolo; e come fu a Frà Paolo riferita e’ se ne compiacque e disse: «Ora abbiamo un papa amico, prego Dio che viva più di me; perocchè i suoi successori mi saranno tutti nemici». Fu profeta.