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capo xxii. 153


San Paolo era così contrario allo spirito di controversia che lo condanna almeno in venti luoghi, e raccomandava invece la tolleranza e la sopportazione siccome le sole che potevano conservare la carità. Quindi ancora il nostro teologo si querelava spesso della passione del suo secolo per la controversia, e non sapeva concepire come gli uomini si odiassero per dispute vane, perdessero il tempo a sottilizzare intorno a cose incomprensibili, mentre i dogmi dell’Evangelio sono testuali e semplicissimi. Pensava altresì che tutte le opinioni, tranne l’ateismo, possono essere tollerate dai governi. Ma questa tolleranza era meramente nell’interesse della società e pel riposo di lei; perocchè l’indifferentismo non si attagliava colla austera indole del Sarpi, e ne faceva un’accusa a’ gesuiti che lo insinuassero. Non credeva che uomo potesse passare da una religione ad altra senza un motivo interessato, quindi non senza indifferenza per ambedue. Aborriva meno l’empietà della superstizione. L’empio, diceva, non nuoce che a sè stesso, nè cura di propagare la sua dottrina, e quand’anco il volesse, non potrebbe. È un mostro in umano ingegno, e pochi sono depravati che vogliano seguitarlo. Ma la superstizione è contagiosa, e chi n’è infetto fa sforzi perchè ogni altro diventi simile a lui.

Tutti, diceva ancora, e singolarmente i principi sono obbligati per coscienza a conservare la religione. L’essere nati nella comunione cattolica doversi riguardare per un beneficio di Dio; e per un segno della sua ira, il dipartirsene: e biasimava i protestanti intorno alle loro prevenzioni, cui dava