Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. II/Capo XXIII

Capo XXIII.

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CAPO VIGESIMOTERZO.


(1615). La perseveranza nei disegni, per quanto riuscissero infruttuosi i tentativi, è una delle qualità più caratteristiche del papato. Un diritto, poichè può vantarlo una volta, lo immedesima alla sua esistenza, e lo dice non acquisito dal tempo ma ereditato da Dio; e se per patti o per infortuni è obbligato a recedere, il fa con tanta arte e sì girandola con tale ambiguità di parole che ben mostra di non averlo perduto, sì solo per compiacenza sospeso, e intanto spia le occasioni opportune per rimetterlo in vigore. Ma poichè questi diritti, o meglio usurpazioni, si furono moltiplicati così che violavano ogni libertà civile e potestà di principe, avendo il loro fondamento nell’ignoranza bisognò inventare un mezzo per comprimere gli ingegni e tener schiave le opinioni. E fu questo il Sant’Offizio.

Non hanno ragione quelli che rimproverano i Mussulmani che la loro religione sia stata dilatata colla forza; perocchè nissuno ha fatto più uso di questa convincentissima logica quanto i cristiani. È vero che il metodo ha la sua utilità, ed è il più accomodato alla intelligenza dei cherici, perchè il dilemma o credi o ti accoppo è così semplice che bisogna ben essere stolido per non restarne convinti. Nondimeno, benchè i fanatici fin dalla età di [p. 203 modifica]Costantino obbligassero i pagani a convertirsi per forza, le misure coercitive furono ignote per quattro secoli alla Chiesa, non usandosi cogli eretici altre armi che le spirituali. È vero che si riscontrano fatti in cui il braccio laico si armò contro a’ Manichei, ma la loro eresia era piuttosto delitto politico che religioso; imperocchè quella sêtta nata nella Persia, e forse avendo in origine poco o nulla di comune col cristianesimo, portava fama che parteggiasse pei Persiani nemici eterni dell’imperio romano. La prima vittima della intolleranza religiosa fu Priscilliano, che accusato da Itacio, malvagio vescovo, perdette la testa nel 383. Ma l’orrore che destò quel supplizio mostra che i cristiani non erano ancora disposti a chiamar santo l’Offizio destinato da poi a difendere l’Evangelio colla eloquenza del carnefice.

Essendosi stabilita nella Spagna la monarchia dei Visigoti, il genio pinzochero di quella nazione, la debolezza de’ suoi regnanti, ed altri motivi locali, diedero tanta potenza al clero che ivi prima che altrove giunse a disporre di ogni cosa e perfino del trono. L’ignoranza comune, il parteggiare continuo, la ferocia dei costumi, le rivoluzioni frequenti diedero origine a quelle leggi de’ Visigoti cavillose, fiere, intolleranti cui Montesquieu considera come il modello del codice inquisitoriale. E infatti se ne valsero ora per spogliare gli Ebrei delle loro ricchezze, ora per mantenersi quelle che avevano male acquistate, ora per reprimere i progressi del maomettismo che dalla Mauritania s’introduceva nella Spagna. Ma non vi era peranco un tribunale religioso, e le pene di sangue non erano frequenti, od erano [p. 204 modifica]casi parziali in cui il pretesto di religione non vi aveva gran colpa.

Nel XII secolo la Provenza aveva pel commercio e l’ndustria aggiunto un grado di civiltà molto innanzi, e la civiltà vi portò i lumi, e questi indussero i popoli a vedere non senza scandalo la vita licenziosa dei cherici e le discordie tra il sacerdozio e l’impero. Quindi cominciarono anco a pensare più sodamente intorno alla religione, a introdurre costumi più castigati, e si formò tra loro una società di persone divote e di più austera vita, l’esempio delle quali fu imitato da altre, tal che in breve tutta la Provenza ne compartecipò le opinioni. Passando da una cosa all’altra abolirono chetamente varie superstizioni, riformarono alcuni principii che parevano troppo astrusi o non bene confermati, e i preti si avvidero che mancavano le limosine e in conseguenza che la Chiesa andava in rovina. Più di tutti furono commossi i monaci, perchè popolo industrioso non ingrassa chi vive in ozio, e ne fecero vive instanze alla corte di Roma. Nacquero allora le famose crociate contro gli Albigesi che in pochi anni sterminarono una delle più floride provincie dell’Europa passando pel ferro e pel fuoco un mezzo milione o più di abitanti. E in quella occasione (nel 1204) papa Innocenzo III institui il tribunale del Sant’Offizio contro l’eretica pravità, e primo inquisitore fu il monaco Pietro di Castelnau che indi a poco fu ammazzato. L’Inquisizione viepiù inferocì; e Domenico di Gusman, spagnuolo, detto anco San Domenico, si adoperò allo stabilimento di questa con tutto lo zelo di un buon cristiano e di un [p. 205 modifica]santo, sì che egli si ebbe a ricompensa un posto distinto in paradiso, e all’Ordine dei domenicani da lui fondato fu quasi esclusivamente affidata la carica inquisitoriale; dico quasi, perchè anco i francescani vi ebbero la loro parte.

La taccia di eretici data ai ribelli di Santa Chiesa era così efficace che un tribunale tanto mostruoso e offensivo l’autorità dei vescovi da cui era indipendente, e quella della potestà laica su cui si arrogava giurisdizione, potè in pochi anni stabilirsi in quasi tutta l’Europa, e radicarsi in tal guisa che vi vollero gli sforzi di più secoli prima di estirparlo; anzi una immagine dura tuttavia a memoria del passato e a spavento, se l’occasione sarà propizia, dell’avvenire.

In Venezia malgrado lo sforzo dei papi non potè mai introdursi prima del 1289, per opera di Nicolò IV; ma con tali strettezze che era tolto agli inquisitori ogni arbitrio e l’autorità resa angusta. Imperocchè fu pattuito che nel Sant’Offizio siedessero coi frati due magistrati laici, senza i quali ogni atto fosse nullo; gli ecclesiastici non potessero informare che delle cose puramente e rigorosamente attinenti al dogma; le sentenze fossero approvate dall’autorità secolare; fossero esenti dal Sant’Offizio gli Ebrei e i Greci, i magistrati, il Senato, il doge; non potesse inquisire contro gli assenti; a lui non si appartenessero i delitti di bestemmia, di maleficio, di sacrilegio; l’ignoranza invincibile non fosse colpa, e la semplice ritrattazione si ricevesse per emenda, non piacevano ai frati queste restrizioni, imperocchè mentre il Sant’Offizio altrove si rendeva grato [p. 206 modifica]a Dio con numerosi sacrifizi umani, giaceva in Venezia inglorioso senza neppure il vanto di aver fatto abbruciare un solo eretico; quindi cercarono di allargarsi, massime nelle provincie, ma dal vigile governo furono sempre repressi. Dopo l’interdetto il Sant’Offizio, stimolato secretamente dal papa e dalla Curia, insorse con atti d’arbitrio; e pretendendo casi straordinari o eccezioni non contemplate nei concordati tentò di emanciparsi dalla soggezione secolare, in ispecie per l’esarne del libri, attribuito dai papi alla Inquisizione dopo il concilio di Trento.

L’Indice dei libri proibiti fu ignoto alla Chiesa per più di 15 secoli. È vero che nel 494 papa Gelasio in un concilio tenuto a Roma fece un elenco di libri, de’ quali alcuni dichiarò falsi e da rigettarsi, e altri viziati sì ma non perciò del tutto inutili e da potersi tuttavia leggere; ma primo, quel concilio non si attribuì alcuna autorità coercitiva, la quale solo appartiene alla potestà civile; in secondo luogo quell’elenco non annumerava se non se libri che riguardavano essenzialmente la religione quali erano libri sacri apocrifi, atti favolosi di martiri, leggende di santi o false o guaste da falsità; e quantunque abbondassero i libri degli eretici e quelli dei pagani contro il cristianesimo, nissuno ne conta l’elenco di Gelasio. Questa libertà continuò nella Chiesa nei secoli seguenti, finchè l’invenzione della stampa e la riformazione di Lutero mutarono le condizioni della Santa Sede.

Gli scolastici nei secoli di mezzo volendo raffazzonare il cristianesimo sul modello della filosofia di Aristotele, si perdettero in un mare di metafisiche [p. 207 modifica]indagini dove ebbero per scorta piuttosto l’immaginazione che una sana logica. I misteri più astrusi della teologia cristiana furono da loro assoggettati a curiosa disamina, pretesero analizzarli persino nelle più minute particolarità; onde nacquero infinite opinioni e definizioni di dogmi ignoti agli antichi. Da altra parte i monaci, camminando di superstizione in superstizione, inventarono riti nuovi; e i papi trascorrendo di abuso in abuso si arrogarono autorità sconfinata. Ma la soperchia avidità dei cherici stancò la lunga credulità, e lo intelletto umano sbucciando poco a poco da una età di tenebre verso la luce, alla obbedienza per l’autorità i più perspicui ingegni cominciarono a sostituire l’esame personale. Vicleffo e Giovanni Hus aprirono la strada a Lutero e Calvino e agli altri riformatori del secolo XVI, che usando il beneficio della stampa assalirono di fronte le dottrine scolastiche, e rimontando agli insegnamenti della Scrittura impigliarono i loro oppositori, costretti a farsi unico appoggio della potestà dei papi. Ma questa pure fu impugnata, e l’istoria ne dimostrò la recente origine.

Veramente i riformatori passarono da un estremo all’altro, e per voler troppo raffinare degenerarono in una teologia non meno fanatica di quella da cui pretendevano campare. Ma quando lo spirito umano si è messo sulla via delle indagini non è più possibile rattenerlo; come quando giace instupidito nella inerzia non è virtù che valga a smoverlo. I traviamenti del protestantismo si dissiparono col tempo, e restò il molto buono che portava seco e fruttò un beneficio immenso. L’istoria, la critica, la [p. 208 modifica]giurisprudenza, lo studio dell’antichità coltivate con molto ingegno dai protestanti, indi anco dai cattolici, divennero pericolose al papato; e poichè tutti i rami del sapere si affigliano e si sussidiano a vicenda, esso vide in ciascuno di loro un nemico.

Una potestà abusiva non potendo sussistere a confronto colla ragione, egli è forza sostenerla colla violenza, e la libertà del pensiero è sempre all’avvenante delle persuasioni che stanno a favore di un governo; ma la corte di Roma provava per esperienza che ove questa libertà sussistesse, ella correva l’estremo suo rischio, in conseguenza di che essere necessario di aggiogare di nuovo gli uomini e dirigerne le opinioni a modo suo. Paolo IV, papa ferocissimo, conobbe che gli argomenti de’ teologi non giovavano a convertire gli eretici e che la moltiplicazione delle dispute riusciva anzi di danno agli interessi della Santa Sede, e raccomandandosi a rimedio più spedito sotto il suo pontificato e sotto i seguenti l’Inquisizione arse a migliaia le vittime, e lo spavento divenne universale. Nè di ciò pago, pubblicò l’anno 1564 il suo Indice dei libri proibiti, lista di proscrizione letteraria in cui non solo sono computati libri precisamente eretici, ma altri moltissimi che appartengono alle scienze e alle arti; e vi prepose un codice di regole così minuziose e accompagnate dalle solite scomuniche, che ove osservate fossero nissuno potrebbe più leggere neppure il Catechismo o il Pater noster volgarizzato senza essersi prima consultato col confessore. Lo mandò a tutti i principi perchè lo facessero eseguire, e perchè non fallisse l’intesa ne affidò la cura a’ vescovi, [p. 209 modifica]a’ preti e a’ frati, e più di tutto al Sant’Offizio, al quale i librai dovevano notificare in un dato termine le opere proscritte o per arderle o per conservarle, a talento dei frati.

Ciò per il già fatto; per quello da farsi, nissun tipografo stamperebbe più un libro se prima non fosse esaminato dagli inquisitori, talchè tutti dovevano pensare, scrivere e leggere come piaceva ai frati.

Nè qui si fermarono le diligenze della corte di Roma. Osservando che molti celebri autori di ortodossa fede, vissuti prima nel 1514, avevano esternato opinioni non punto favorevoli alla Curia, e che la loro autorità poteva tornare nociva, fu instituita (come dissi già) una congregazione di deputati a correggerli, cioè a levarvi quelle opinioni e a sostituirne altre più accomodate ai propri interessi, col qual ripiego gli facevano parlare a modo loro. Al capo XVIII ne ho già portato un esempio; qui colgo occasione per ricordarne un altro. Il celebre architetto Leone Alberti in un luogo del suo trattato di architettura raccomanda di non erigere che un solo altare nelle chiese siccome si usava dagli antichi; ma ciò essendo contrario all’uso moderno, perchè, come osservava il vescovo Scipione Ricci, i molti altari vogliono molte messe, e le molte messe vogliono molti preti, il che torna a profitto della corte di Roma, quel passaggio fu fatto cancellare nelle posteriori edizioni, perchè sente di eresia.

Gli effetti di misure così dispotiche furono appunto quali si desideravano, ruina dell’arte dei tipografi e ignoranza universale. Ma in Venezia il [p. 210 modifica]commercio librario era un ramo lucrativo d’industria e che non pure al lustro della Repubblica, ma, quello che più importa, sopperiva ancora alle agiatezze di assai privati; e poichè gli ecclesiastici non misurano le cose se non dal lato dell’interesse che vi hanno, ove il governo avesse a loro affidato la censura e accettato l’Indice, la rovina de’ librai era infallibile. Malgrado i rifiuti, Clemente VIII avendo nel 1595 rifatto l’Indice con nuove addizioni, e pressando la Repubblica perchè lo accettasse, si stipulò un concordato speciale per cui le regole furono ristrette, la revisione fu mandata ai cherici per le cose puramente dogmatiche, ma l’approvazione o reiezione riservata al solo maestrato secolare.

Con tutto ciò i ministri romani, sempre accorti a beneficiarsi del tempo, vollero che del concordato non si stampassero più che 60 copie: bene apponendosi che in breve si sarebbono o dissipate o smarrite, da’ librai dimenticate le clausole, dimenticate da’ magistrati, e cogli anni dal Senato, talchè avrebbe potuta l’Inquisizione insurgere, e la Curia rinovare le sue pretese.

Nè questa se ne stette lungo tempo a bada. Abbiamo vedute le insidie mosse nel 1608 per la proibizione de’ libri contro l’interdetto; non riuscita, diede tocchi di tempo in tempo. Nel 1609 la Curia ne prese occasione dal libro del re d’Inghilterra; la Repubblica proibì la vendita di quel libro, ma continuò a permettere la vendita degli altri che il papa voleva proscritti. Nel 1610 furono ripetute le querele per la stampa di alcuni altri libri ingrati [p. 211 modifica]a Roma, ma il governo veneto non aveva mutato parere. Nel 1612 il Bellarmino pubblicò il suo libro sulla potestà del pontefice; il Consiglio dei Dieci lo proibì, Roma se ne dolse, chiese la proibizione di altri libri, ma indarno. Finalmente nel 1615 apparve in Venezia un trattato in cui fra gli abusi degni di emenda nel corpo politico erano dimostrate le immorali conseguenze del celibato ecclesiastico. Si commosse allora tutto il vespaio dei preti: l’Inquisizione pretese di staggire il libro e l’autore e lo stampatore, l’appoggiava il nunzio e suscitava a nome del Santo Padre la questione dell’Indice. Ma il governo fu fermo nel suo proponimento e chiese al Consultore a quali condizioni fosse stato ammesso il Sant’Offizio, con quai leggi regolato, e come si potesse dargli un assetto definitivo onde in avvenire non potesse più uscire dai suoi termini; e in ultimo che si dovesse pensare sopra la materia dei libri proibiti, e fin dove appartenesse alla ecclesiastica, fin dove alla civile potestà. Fu allora che il Consultore scrisse il suo Discorso della origine, leggi ed uso dell’Offizio della Inquisizione in Venezia, che può dividersi in tre parti: la prima comprende una ricapitolazione dei decreti del Senato e del Consiglio dei Dieci distribuiti in 39 capitoli o regole da osservarsi nella pratica di quel tribunale; nella seconda espone l’istoria del Sant’Offizio e come fu introdotto in varii stati e con quali forme; la terza è un commentario sui 39 capi anzidetti dove non solo li spiega, ma dimostra con la ragione e coi fatti la necessità di doverli adottare. L’opera è delle più [p. 212 modifica]brevi che furono scritte su questo argomento; non parla delle atrocità inquisitoriali; ma tutto ciò che riguarda la storia o la giurisprudenza di quel tribanale vi è trattato con ampiezza e profondità. Ed oltre che è curiosa per varii aneddoti o nuovi o poco conosciuti, è anco indispensabile a chi vuole conoscere la storia legislativa e politica della repubblica veneta.

Il cardinale Albizzi più di settant’anni dopo si assunse l’inutile fatica di confutare questa operetta; ma il suo in 4.° giace negletto nella polvere delle biblioteche, mentre il discorso del Consultore fu tradotto in varie lingue e in più luoghi e tempi ristampato.

In un altro opuscolo intitolato Discorso sulle Stampe richiama Frà Paolo i concordati con Clemente VIII del 1596, fa notare le scaltrezze dei Romani onde eluderlo, ed espone le regole onde fare che sia osservato in modo che non importi nocumento al commercio librario, nè molestie agli autori ed a’ librai. In una breve Scrittura toccante pure il Sant’Offizio, diceva: «Non vi è attenzione bastante per invigilare sopra gl’inquisitori, nè permetter loro che sotto alcun pretesto dilatino le fibre, appoggiati sopra le instruzioni della corte romana che cerca con tali modi di estender la sua autorità anco negli affari de’ principi sovrani, rilevando col mezzo di quelli i secreti di questi».

È mirabile che in un secolo superstizioso e baro; in un secolo in cui persino gli uomini illuminatissimi credevano alla magìa, alle streghe, agli [p. 213 modifica]incantamenti, in cui i giureconsulti scrivevano grossi libri sulla stregoneria e raccontavano colla maggiore serietà le cose più incredibili; in cui i teologi scrivevano trattati sull’arte degli esorcismi; in cui non vi era paese dove tra, le fiamme non crepitasse qualche infelice accusato e convinto di avere conversato col demonio, di essere volato per aria, di essersi trasformato o in lupo o in gatto o in can nero, di avere ucciso alcuno o coll’alito o col guardo, o di avere eccitata la gragnuola o il fulmine: è mirabile, dico, che codesto frate avesse il coraggio di chiamare la stregoneria una leggerezza di opinione, una semplicità di donnicciuole che merita più l’instruzione del catechista che la severità dei giudici. Un giureconsulto francese, Enrico Boguet, che pubblicò nel 1608 un lungo Discorso degli Stregoni con istruzioni opportune pei giudici che devono processarli, fu tanto scandalizzato della repubblica veneta che si faceva scrupolo di condannare a morte uno di quelli se la sua stregoneria non era provata all’evidenza, che la stimò neppur degna di essere nominata. Se avesse poi sentito Frà Paolo a trattare la fattucchieria di puerile superstizione, non so fino a qual punto sarebbe asceso il suo sdegno.

(1615-18). La guerra in cui si era impegnata la Repubblica coll’Austria a cagione degli Uscocchi, il bisogno di tenersi armata per guardarsi dalle insidie della Spagna, e le spese necessarie al mantenimento delle truppe, l’obbligarono ad accrescere le pubbliche gravezze; ma volendo che [p. 214 modifica]ciascun membro dello Stato vi contribuisse in rata proporzione, volle che i cherici ancora pagassero la loro parte. Ciò diede occasione a nuovi litigi colla Curia incominciati fino dal 1614 e continuati ad intervalli per quattro anni. Fra le varie scritture dettate dal Consultore in queste circostanze avvi un eccellente opuscolo in cui narra per brevi capi l’origine delle immunità reali dei cherici, e due altri in cui dichiara ed amplifica il significato della legge 26 marzo 1605 che proibiva di alienare beni stabili a persone e luoghi ecclesiastici. Si ricorda il lettore che questa legge fu una tra le cause dell’interdetto; ma i cherici erano riusciti ad eluderla costituendo in loro favore livelli sui beni medesimi, per cui invece di uno stabile ricevevano un censo di rendita, ovvero il prezzo del riscatto da chi preferiva liberarsene. Il governo, volendo tagliare le unghie a questo nuovo genere di rapina, chiese al Sarpi se il testo della legge poteva estendersi anco al divieto di costituire livelli; ed egli rispose per l’affermativa in due consulti di cui a stampa non si hanno che abozzi o frammenti. Da questi oggetti passò nel 1618 a parlare anco delle decime, che era il sistema di percezione de’ tributi pagati dagli ecclesiastici, ne fece conoscere i difetti e propose il modo di migliorarlo senza derogare al testo delle bolle pontificie e senza impetrarne delle nuove. In questi varii piccioli scritti l’autore mostra sempre una profonda cognizione non pure dell’istoria, ma e della giurisprudenza e della pubblica economia. Ciò nondimeno [p. 215 modifica]quantunque i suoi raziocini siano per consueto giusti e sodi, uopo è di confessare che alcuna volta si perdono in cavillazioni legali. Imperochè l’autore dovendo in certi casi sparmiare i pregiudizi di alcuni senatori che, per ignoranza o per bizzuccheria volevano circoscriversi entro i termini del diritto pontificio, era costretto ad eludere le difficoltà con interpretazioni capziose cui egli stesso disapprovava, comechè tornassero utili pel momento; ma quando può abbandonarsi al proprio giudizio ed esprimere liberamente i suoi concetti a statuali capaci d’intenderli e di apprezzarli, allora sciogliendosi da tutti gl’impacci di una giurisprudenza viziosa ne deduce principii ed argomentazioni di singolare robustezza. Osservo ne’ suoi consulti che i più spregiudicati sono quelli diretti al Consiglio dei Dieci, composto ordinariamente delle persone più illuminate della Repubblica. Sono pari quelli diretti al Collegio quando devono servire d’istruzione a questo solo corpo; ma i più deboli, o, per dirla alla veneziana, i più circospetti sono quelli che dovevano essere letti in Senato, perchè ivi la moltitudine e la varietà degli umori e delle intelligenze obbligava il Consultore a molte cautele: massime che quel corpo si andava empiendo di giorno in giorno d’uomini pusillanimi, che altri cominciavano a stancarsi delle incessanti contese cogli ecclesiastici, ed altri invecchiando e spauriti dai loro confessori cominciavano a patire rimorso della opposizione sostenuta contro il Santo Padre, della quale decadenza il Sarpi si duole spesse volte nelle sue lettere. [p. 216 modifica]

Più di un lettore aspetta forse che io parli di una operetta contenente consigli sul modo di governare la repubblica di Venezia attribuita comunemente a Frà Paolo, e che ha fatto molto strepito; ma non è sua, come dirò più a lungo nell’Appendice Bibliografica.