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180 i capelli di sansone.


“È un sogno,” mormorò donna Clelia.

“Sì, un sogno,” ripetè Riccardo.

La esposizione continuava; sotto le mani bianche della signorina, le stoffe aperte e ripiegate sfrusciavano come vestiti serici femminili, che si affrettino al convegno amoroso; e le tinte che i paesi di Levante amano, le tinte che i grossolani europei non hanno ancora nella loro tavolozza, lusingavano teneramente e ardentemente gli occhi dei due spettatori: il bianco d’argento simile al ventre lucido di certi pesci, il viola che sfuma nel roseo, la vampa fra rossa e gialla, il verde intenso dove l’azzurro si è liquefatto, e infine il roseo giapponese, il roseo del salmone, il roseo che pare carne o che pare corallo, il roseo così vivo e così languente che pare tutta la vibrazione d’un amore — e dappertutto sulle tinte smorte come su quelle accese, sugli azzurri di cielo, sui biancori di latte, sulle tetraggini rosse, la grande nota calda, la grande nota ricca, la nota del lusso e del piacere, — l’oro — il fantastico fiore di oro, di una flora impossibile, il bizzarro animale d’oro, dragone o liocorno d’una impossibile fauna. Donna Clelia, creatura esteriore, ma fine, sorrideva di piacere innanzi a quella galleria, sempre variabile, innanzi a quei quadri apparenti e sparenti, e tendeva un