Trionfi di donna/Il trionfo della penna d'Airone
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IL TRIONFO
DELLA PENNA D’AIRONE.
La gioventù di Leo era stata triste.
La rosa non era voluta fiorire sul margine della sua nova vita.
Ed è per questa ragione che egli, in sui vent’anni, cioè prima del tempo, era uno spirito meditante ed austero, e altresì un refrattario all’amore.
Questo suo naturale, fra le molte centinaia di giovani dell’Università, rendeva Leo altrettanto noto quanto lo rendevano i suoi calzoni, i quali non arrivavano mai a nascondere i legacci delle mutande e i due tiranti delle scarpe.
E i suoi calzoni non arrivavano alla lunghezza normale della moda per la stessa iniqua ragione per cui il suo pranzo si ostinava a non oltrepassare il limite di soldi venti, e la cena si manteneva alla virtuosa sobrietà di un pezzetto di cacio salato o di salame.
Spirito meditante e refrattario, adunque, all’amore!
Ma anche in questo bisogna intenderci per non dir cose che siano troppo fuori dal vero: il vero sacro ed occulto.
A vent’anni non c’è austerità che tenga e non c’è meditazione dolente che vi smorzi questa bella convinzione della giovinezza: «cioè che il signor Iddio, quando creò tutto il vasto mondo, lo abbia creato con uno speciale riguardo per voi, proprio per voi e per il vostro bellissimo volto.»
La luna, al tempo della giovinezza, vi manda un garbato sorriso: gli occhi dei fiori e dei passerotti contemplano proprio voi, i vostri propri consimili vi sembrano animali graziosi e benigni. Per far piacere a questi animali e far loro servizio, le stelle si rotolano lassù in cielo, il vapore sbuffa, il sole compie il suo orario regolare, il mare — docile bestione — fa da facchino e porta i bastimenti gravi sulla schiena: e, se hanno un torto i vostri simili, questo consiste solamente nel non riconoscere compiutamente i vostri meriti e i vostri diritti.
Oh, più tardi, molto più tardi la luna non avrà più complimenti per voi; e allora, quando la luna non vi fa più complimenti, quando vi avvedete che il sole compie i suoi giri con una rapidità spaventosa ed inesorabile (mentre prima spiegava in pace le vele d’oro al blando favonio del tempo) quando il vostro spirito critico trova che le cose del mondo vanno irrimediabilmente male e che i vostri consimili non sono più graziosi, ma sono una macchia sporca nel paesaggio del mare e della selva, quando in voi si viene radicando la convinzione che esiste una legge dello spirito immutabile come quella della materia e che, con tutto cotesto, voi fra i milioni de’ vostri simili non avete altro diritto che quello di essere tollerato per il posto che occupate, pel pane che mangiate, per l’ossigeno che respirate, oh, allora sì l’austerità è paurosa!
Dove è la verità? prima o poi? Eh, chi lo sa! Non lo sapeva nè meno Pilato, uomo positivo e proconsolo di Roma presso Giuda: anche egli si chiese: «Che cosa è la verità?»
La verità che io so in proposito è questa: Prima vuol dire che voi siete giovane e poi vuol dire che la morte si è allacciato le coreggiole dei suoi sandali per venire a farvi una visita.
Questo io so. Il resto lo sanno i filosofi patentati.
***
Refrattario all’amore!
Oh, altra cosa è la superba castità del maschio, giovane e bello intento al pensiero, e altra cosa la castità dell’uomo il quale un bel giorno si avvede come le donne non abbiano più in suo onore quelle due qualità seducentissime che sono la Civetteria ed il Pudore. E se ancora elle vi ascoltano, o serie o pietose, ridono di voi sotto la gonna!
Forse è per quest’unica ragione che i passerotti hanno smesso di cantare in vostro onore; e i fiori del maggio non hanno più tinte inebrianti.
***
Lo spirito critico di Leo, in sui vent’anni, trovava che il mondo e le istituzioni degli uomini erano bensì andate male dal tempo della creazione sino allora, anzi molto male! ma è presumibile che in lui fosse la convinzione profonda che per l’avvenire le cose dovessero modificarsi compiutamente: passare, cioè, dallo stato empirico e del sentimento a quello della ragione pura e della luce scientifica. In somma il mondo aveva avuto la delicata attenzione di aspettare a mutar la strada vecchia per la nuova proprio finchè egli, Leo, non fosse venuto all’onore della vita; e questo fenomeno che accadeva a Leo, giovane di alta intelligenza, accade anche a molti imbecilli.
Bellissimo fenomeno anche questo di rifrazione ottica, prodotto dall’effetto dei venti anni sulla intelligenza, e che ha in sè il beneficio di spingere l’uomo verso l’attività e verso la fede nella vita.
Giacchè uno spirito attivo e credente era Leo: credente negli enunciati della scienza come già le genti credevano nel dogma della Immacolata Concezione, nella Comunione del pane del vino, nel simbolo degli Apostoli, ecc.
Leo non credeva più in S. Isaia, in S. Paolo, in S. Matteo, in S. Giovanni; ma credeva in Darwin, in Carlo Marx, in Haeckel e in altri profeti minori ed apostoli della civiltà moderna. Perchè, a ben pensarci, tutta la questione sta qui: nell’avere cioè una fede e sopra tutto la fede del proprio tempo.
Mettete questa fede in una intelligenza sveglia e in una volontà risoluta come era quella di Leo, e avrete un giovane che, se fortuna l’assiste, si farà largo e poi finirà col camminare sulla testa dei suoi compagni con gran dolore del dogma modernissimo dell’uguaglianza.
E come la delicata e sensibile bontà è la calamita più forte delle disgrazie o per lo meno delle seccature: laddove la presunzione di risoluta violenza ha fra gli uomini la virtù di spazzare gl’impacci e le difficoltà (come il maestrale spazza le nubi e rimena il buon tempo) così Leo un po’ per istinto della sua generosa natura, un po’ per esperienza della dolorosa sua giovanezza, aveva imparato a tener difeso il meccanismo delicatissimo della Bontà sotto un certo suo buon impermeabile di indifferenza e di risolutezza insieme, così che lagrima o pioggia, grandine o fango, bestemmia od urto vi rimbalzavano superbamente nè arrestavano il vittorioso procedere del bell’automobile della Vita.
E per tutto cotesto avrete la spiegazione del perchè i visi scialbi, i capelli lucidi, gli impeccabili colletti alti degli studenti aristocratici ed esteti — i quali facevano corte d’onore a Regina — non si voltassero nè meno quando passavano davanti agli occhi vivi ed ai calzoni corti di Leo, sulla soglia dell’Università. Pareva indifferenza o disprezzo, ed era invece rispetto e timore!
Ma Regina, invece, salutava per tutti questi altezzosi, e ben gaiamente, dicendo:
— Buon giorno, signor Leo!
E Leo era obbligato a rispondere: ma dopo diceva ai suoi: «Stupida! non ha altro luogo per andare a spargere il suo muschio?» Regina la giovanetta liberista e feminista, adorava le supreme eleganze, i rari profumi e perciò stava con gli esteti e con i borghesi dal colletto alto.
E i compagni — poichè si convinsero che Leo non s’infingeva — ridevano e lo beffavano di questo suo spregio per le donne in genere, e per Regina in ispecie.
Sì, per mettere a posto le cose del mondo bisognava redimere — emancipare — restaurare la donna: di questo Leo era più che convinto. Se non che la fisiologia e la psicologia muliebre, studiate da Leo assai bene sulla tavola anatomica, gli presentavano delle difficoltà di primo ordine.
Molto più facile, oh molto! nazionalizzare le terre e le macchine della borghesia parassitaria che rifare il tipo della donna!
***
Era Regina una studentessa di lettere, altrettanto prudente e silenziosa — anche se interrogata — durante le lezioni di greco e di filologia quanto loquace e gaia negli ambulatori dello Studio.
Il cappello di feltro e la penna d’airone dominavano sulle teste degli studenti e il suo riso era come un raggio di sole in quella austerità grigia delle aule e dei corridoi.
Era Regina una giovane altrettanto povera quanto baldanzosa e piacente; e la penna d’airone poteva essere il suo stemma: nessuna penna di struzzo languida e accartocciata vezzosamente la sostituì: neve, pioggia, nevischio non l’abbatterono! Quando veniva il maggio, la penna d’airone trasportava il nido dal largo feltro ad una graziosa maggiostrina, molto primaverile, molto eretta sulla bella chioma. La sua penna d’airone ferì molti cuori e indusse a molte e audaci speranze. Ma l’umile colazione che ella portava nella borsetta, testimoniava troppo eloquentemente della sua onestà e della sua povertà e induceva al rispetto. Uno stecco di mandorle tostate, due datteri canditi erano i soli omaggi che ella accettava dai suoi camerati, alla luce del sole e al prezzo di cinque centesimi dal vassoio piramidale di ottone che il venditore di caramellati! ostentava sulla porta dell’Università.
***
Un giorno vi fu una gran notizia fra gli studenti.
La Reginella ha gettato il suo fazzoletto: la Reginella s’è innamorata.
Da due mesi gli amici le andavano ripetendo:
«Signorina, Torri le fa una corte spietata.»
«Davvero?» e rideva.
«Signorina, Torri non mangia più, non ride più; è pazzamente innamorato.»
«Davvero? gli ordineremo una cura ricostituente» e rideva.
Ma un bel giorno — dico — Regina dichiarò lei stessa che, ebbene sì, lei era innamorata del Torri.
La Reginella allora licenziò la sua corte.
***
Da quel giorno la penna d’airone fece rare e rapide comparse nei corridoi: pareva mortificata.
Platone e Tucidide vennero provvisoriamente abbandonati.
Il professore di filologia classica non vide più al primo banco gli occhi di Regina, impassibilmente stupefatti all’udire tutta la roba che egli poteva tirar fuori da una semplice e nuda radice di sanscrito.
L’eco del suo gaio riso si spense fra i corridoi clamorosi.
***
Questo piccolo incidente di cronaca studentesca sarebbe passato del tutto inavvertito da Leo, se gli amici non glielo avessero detto:
— Va là che ha scelto proprio bene, quel clericale in mala fede, quel famulo del Santo Uffizio, quell’ignobile referendario della Sacrestia! Evidentemente l’amore fa delle combinazioni chimiche non contemplate in alcun testo — si accontentò di chiosare Leo. Perchè Torri, l’amante di Regina, passava per clericale.
Del resto cotesto Torri era bel giovane, alto, molto fine, molto elegante, occhi splendidi: godeva inoltre reputazione di gran serietà fra gli studenti di filologia. Quanto al clericale le cose dovevano essere andate così: povero in canna anche lui, Torri, senza appoggi e invece con buone dose di ambizione e di voglie, si era buttato con chi gli era capitato prima. Gli erano capitate prima delle buone lezioni private in alcune famiglie dell’aristocrazia nera, e lui diventò clericale e godeva di alcuna notorietà come critico d’arte in un giornale cattolico.
Già; o nero, o rosso, o verde, un giovane intelligente bisogna che lo scelga un partito, come una ragazza bella è bene che si decida fra i suoi corteggiatori.
Se no, questa rischia di restar zitella, e quegli non metterà da parte altro capitale che la propria indipendenza: capitale assolutamente infruttifero anzi passivo, non quotato presso alcuna Borsa! Prima, dunque, si sceglie quello che capita e dopo si muta, se torna o se piace.
E proprio Leo non ci pensò più a Regina: se non che, nel corso dei mesi, gli capitò due o tre volte di leggere nei giornali che l’esimia studentessa, Regina, avrebbe tenuto una conferenza sulla Donna cattolica, un’altra volta Contro il divorzio o qual cosa di simile. Leo rideva: «La signorina libera pensatrice, divenuta fervente cattolica sotto l’influsso della stella di Venere!» Proprio vero: la fisiologia della donna non ha altro commentatore sicuro che Eros.
Se non che, dopo più tempo ancora, se la vide proprio faccia a faccia in un tavolino della sala riservata della Biblioteca.
***
In quel tempo Leo attraversava una di quelle meravigliose crisi dopo le quali il giovane, lasciate le spoglie antiche, appare ad un tratto uomo alle genti. Un’ebrezza di sapere gli innondava, più che il cervello, il cuore. Egli avanzava, egli sospingeva la nave verso l’ignoto; alla scoperta del Sapere.
Esiste la voluttà di giungere al confine del Sapere, come esiste la voluttà mortale di scoprire l’ignoto punto del polo e le terre inesplorate. Meraviglioso e benefico anelito in cui si rivela tutta la divinità che è nell’uomo, ancorchè ciò sia cosa vana: giacchè l’uomo non avanzerà se non per la via che è, che fu, che sarà!
Leo povero, Leo solo, Leo coi calzoni corti sentiva questa ebbrezza della conquista e la gioventù del cuore gli diceva:
«Domani la gloria, figliuolo!»
(Di fatto l’invidia, segno di alte latitudini, vento che spira soltanto lungi dalla riva, già gli sibilava d’attorno).
Perciò egli consumava il giorno e gli occhi sui libri della Biblioteca e perciò se in tale stato d’animo Leo appena ravvisò Regina, non deve far meraviglia.
Fu lei che chinò il capo davanti a lui, salutando.
Aveva anche lei di gran libri davanti a sè: libri che pesavano più di lei, e quelle sue belle braccia e quelle sue perfette mani facevano gran fatica a smuoverli ed a rivoltarli! Tutto parea raccolto ed austero in lei, ma il seno, presso quei gravi libri, palpitava d’amore.
Quando suonava la campana del fine, Regina si levava dai suoi libri, si metteva il lungo mantello nero, si inchinava con un «buona sera» passando davanti a Leo e se ne andava per ritornare il dì seguente. Spesso Leo, uscendo poco dopo, scopriva nei vicoli reconditi presso la Biblioteca una coppia che si attardava sotto i fanali.
Erano il Torri e Regina.
***
Passarono frattanto due anni.
La Fortuna — questa Divinità antica e stravagante che sopravive alla morte delle altre divinità — avea assistito Leo.
L’onorevole X***, professore di Università, uomo politico di primo ordine, uno di quei personaggi che col trionfo dei partiti popolari era divenuto arbitro del governo e della città, aveva preso a ben volere Leo: infine lo aveva imposto. Lui, l’onorevole, occupatissimo di politica, più di due o tre lezioni all’anno non poteva fare: le altre le faceva Leo. Sono colpi di fortuna, o calci nel sedere, come dice l’invido vulgo, che capitano qualche volta: se non capitano, anche con tutto l’ingegno e lo studio di Leo si rischia di rimanere coi calzoni corti e con la cena di pane e formaggio per molto tempo, anche battendo la corrente democratica, anche credendo nei nuovi apostoli, Carlo Marx, Haeckel, ecc., ecc.
***
Un giorno Regina bussò all’uscio di Leo.
La sorpresa che si dipinse sul volto di Leo fu tanta che la penna d’airone non ebbe il coraggio di venire avanti e si fermò sulla soglia.
— Già vedo bene che lei mi dà della seccatura — disse la proprietaria della penna d’airone — e può darsi, ma lei ha parlato così bene ieri all’Università che ho detto proprio a me stessa: «Io vado da lui! Sarà quel che sarà!»
Leo sorrise.
E Regina proseguì:
— Lei, ieri, alla sua lezione...
— Lei perde il tempo a venire alle mie lezioni? — si credette in dovere di chiedere Leo — ma questo è un onore!
Non sapea perchè, ma a Leo, l’austero, veniva la voglia di prenderla in giro, la penna d’airone.
— Non le faccio elogi — proseguì ancora Regina — perchè non è più mia abitudine fare complimenti agli uomini. Ma devo dire che lei parla molto bene: giuste quelle cose dette ieri! Io che la credevo un demolitore arrabbiato, un partigiano, un giacobino feroce mi sono dovuta ricredere: già, demolire è facile, demoliamo pure: ma si tratta anche di formare delle nuove coscienze, e non di parata, ma di sostanza. Allora sì il nuovo edificio sociale sarà fondato sulla pietra e non sulle mobili arene. Lei ha detto così à peu près? non è vero? Io, però, non ci credo niente, perchè oramai io sono completamente scettica: cattolici e socialisti, monarchici e anarchici tutti uguali, tutti fatti a sembianza d’un solo, tutti figli d’un solo egoista..., ma mi sono commossa.
Poi m’han detto che lei è tutto di casa coll’onorevole X*** e allora mi sono decisa, ed eccomi qui!
— Allora è una cosa lunga quella che lei mi vuol dire — chiese Leo.
— Un pochino!
— Allora s’accomodi: fra questi libri una sedia libera la troveremo. Il mio appartamento non ha maggior estensione di questo studiolo, molto amico alle rondini, e di un bugigattolo per dormire.
Trovata la sedia, seduta Regina sotto la luce, Leo non dovette far grande studio per iscorgere che, se la penna d’airone era tuttavia ben eretta, tutto il resto dovea essere passato attraverso la crisi di qualche battaglia, tra le sirti di qualche tempesta.
Ma interrogare una donna vuol dire, per lo meno, esporsi ad una orazione ciceroniana. Leo perciò ebbe il delicato e prudente intuito di lasciar parlare e nulla interrogare, e Regina parlò.
Si trattava di questo: in un collegio feminile era vacante il posto d’insegnante di storia: molte erano le concorrenti, molti gli intrighi: ora che del Municipio era arbitro l’onorevole X***, domandava il suo valido appoggio perchè il nome di lei venisse prescelto.
Esposto questo, venne la perorazione in questi termini: «Capisce che sono disoccupata e non ho voglia di scioperare? che per vivere faccio l’assistente in una scuola privata dove una negriera di direttrice-proprietaria mi tiene lì fissa dalla mattina alla sera, per un franco e mezzo al giorno? L’anno scorso quando comandavano le sottane nere e le malve c’era libero un posto di professoressa d’italiano.
Era proprio quello che ci voleva per me! Comincio a far il giro di tutti quei signori, cavalieri, commendatori, senatori. Cascavano, poverini, dalle nuvole alla notizia che c’era un posto vacante. Cominciavano con un «Ah, sì!... Mi pare.... Ma veda.... Ma ecco! Veramente!...» ecco un corno! Mi guardavano come avessi avuto un marchio d’infamia sulla fronte. Quale marchio? Forse perchè ho amato in piena luce di sole una persona — che per giunta era uno dei loro — e questa mi ha indegnamente tradita? (Anche qui Leo si guardò bene dall’interrogare). E dire che per il loro partito io ho abdicato persino alle mie convinzioni più solide, ho tenuto persino delle conferenze contro il divorzio: cose da ridere, però, sa? trovarsi in mezzo a dei pii giovincelli baliosi, a fremebonde vergini pulzelle che brandiscono la spada di Giovanna d’Arco contro il divorzio! Tutta roba dove han diritto di interloquire solo quei poveri cristi e quelle povere diavole che hanno provato! E sa perchè mi hanno negato quel posto? Non mica perchè io avevo avuto un amante notorio; in sacrestia loro fanno ben altro! ma perchè sanno, indovinano che io sono un carattere fiero, indipendente, che non mi lascio mettere i piedi sul collo da nessuno. E loro invece vogliono il mondo sotto i loro piedi. Pigliala, adesso! E poi sa anche perchè? perchè non straluno gli occhi, non torco la bocca alle nequizie del mondo reo, perchè porto i ricci, come se fosse mia colpa se la natura mi ha fatto i capelli ricci, la bocca così, il piedino slanciato, le mani aristocratiche! ah! dimenticavo il più grave: perchè porto l’abito maschilizzante! Gran delitto! un abito comodo, eccolo qui! Ma a loro il mio abito fa venire il mal di mare. Il guaio è che io me ne sono accorta troppo tardi! pensi che anche quando servivo la causa del legittimismo cattolico, nessuna di quelle pie dame ebbe per caso la felice idea di farmi guadagnare quattro soldi offrendomi delle lezioni per qualcuna di quelle spuzzette delle loro figliuole. Che! che!
Per entrare nelle grazie di certa gente bisogna presentarsi vestite a gramaglie come una vecchia; senza ricci, la fronte rasa d’ogni baldanza, come dice Dante, il collo torto come una monaca del Sacro Cuore, far atto di umiltà, di contrizione, di penitenza, strisciare, ungere. Capisce che io non sono buona di far certe parti, che io ci ho la mia dignità, il mio orgoglio? Adesso, anzi, mi farò i bandeaux à la vierge, sacrificherò la mia chioma sull’altare della loro prepotenza! Questo non sarà mai!
«Mai» — confermò la penna d’airone ergendosi anche più fieramente sul capo.
— Del resto non stia a credere che io creda che i rossi valgano più dei neri, i gialli più dei verdi. Il mondo, sotto ogni latitudine, sotto ogni clima storico, sarà sempre proprietà esclusiva del prete. Il prete! Capisce lei? Ecco il vero, l’unico dominatore del mondo per omnia sæcula! Lei, caro signore, è ancora molto giovane, molto immerso nei suoi studi e nelle sue teorie e certe cose non le può capire. «Bisogna aver fatto l’esperienza che abbiamo fatto noi! — commentò agitandosi la penna d’airone — per convincersi di una tale filosofia della vita!»
Leo anche qui fu cauto nel non interrogare sulla genesi di tali opinioni filosofiche molto pessimiste.
Il pessimismo nella donna proviene di solito da un amore inacidito: e il rimestare simili liquidi esplodenti non è da savio.
Promise che ne avrebbe parlato all’onorevole X***.
— Con molto entusiasmo altrimenti è inutile — avvertì Regina.
E la penna d’airone finalmente si decise a scendere i sessanta scalini che portavano all’appartamento di Leo.
***
La cronaca non registra se Leo parlò con entusiasmo; registra solo che Regina ebbe il posto desiderato, e siccome «bene a chi ci fa bene e male a chi ci fa male» oramai è la massima pagana e pratica di Regina, così ella manifestò la sua riconoscenza in maniera tale da far desiderare a Leo che quell’ufficio non le fosse stato in alcun modo concesso.
E la prima manifestazione di riconoscenza consistette nel frequentare assiduamente tutte le lezioni di economia politica, tenute da Leo.
Fra quel gran concorso di giovani che accorrevano ad udire la convinta e dotta parola di Leo, la penna d’airone era la prima a comparire nel primo banco dell’aula.
Come già un tempo s’accoglievano le turbe ad udire la buona novella dei seguaci di Cristo, così oggi, per quel misterioso fascino che ha la modernità della vita, accorrono le genti ad ascoltare chi loro parla di rinnovata vita, di rinnovate coscienze nell’umanità nuova.
Con questa pietosa illusione il conquistato pane sembra più dolce, e, al di là del velo del pianto e del sangue, si vede risplendere il prato fiorito dell’Asfodelo! Vecchia istoria!
Se non che Regina guardava più specialmente il volto dell’oratore. Ella inoltre era ignara del tutto di certe teorie, di certe voci e ne chiedeva contezza, ed erano come dei supplementi di lezione che Leo era obbligato ad impartire fuor dell’aula a questa troppo diligente scolara; e una volta, d’aprile, Leo fu sorpreso di trovarsi sotto i tigli suburbani in compagnia di Regina. Ma i tigli furono anche più sorpresi di Leo. I tigli odono tutte le coppie che si attardano sotto le loro ombre, ragionare di amore.
Quella coppia invece, di Leo e di Regina, in quel vespero d’aprile parlava e dissertava di filosofia. Leo era ottimista. Regina pessimista più che mai.
— Via, signorina, parliamoci chiaro — disse in fine Leo — per voi donne l’umanità consiste e si compendia in un uomo solo: il mondo è buono o il mondo è cattivo secondo che l’uomo con cui avete avuto a che fare vi ha trattato bene o vi ha trattato male. Questo modo di giudicare è troppo soggettivo: facciamo una cosa più semplice: parliamo in tal caso di voi. Il vostro amante vi ha lasciata? Il vostro ex amante ha preso moglie? e vi pare che tutta l’umanità si debba risentire di un fatto che riguarda voi sola? Io posso essere dolente per voi, cara signorina, ma noi siamo immuni da ogni colpa nella vostra questione personale.
— Ed è tutto qui lo sbaglio, caro signore, — disse Regina — sa lei quale è la vera questione sociale? La donna! Un uomo mi ruba il capitale della vita: un uomo, freddamente, un bel giorno viene e vi fa questo discorso chiaro, come mi fece il Torri: «Tu mi ami, è vero? Ebbene, io ho bisogno di un sacrificio dal tuo amore. Io voglio far carriera nella vita. Se io sposo te, ecco quale è il nostro avvenire: un posto di ginnasio inferiore in Sicilia od in Calabria per me: il mestiere di lavapiatti per te: una mezza dozzina di figliuoli da sfamare per ambedue. Ora questa prospettiva non va per me, e credo che tu pure avresti a pentirtene in breve. Ora io voglio fare una carriera splendida e una vita bella. Per tutto questo ci vuole una base economica.» Egli, capisce, Leo, ragiona come voi socialisti: la base economica!
«Dunque — proseguì lui, l’infame — un giovane, anche d’ingegno, anche di buona volontà, se non parte da una base economica di almeno cento mila lire, lavorerà nel vuoto per tutta la vita, e finirà miserabile come ha cominciato. Ora io ho trovato, non cento, ma cento cinquanta mila lire sotto forma di una signorina che i suoi genitori sarebbero felicissimi di darmi in isposa.» Questo in poche parole fu il ragionamento semplice, positivo, pratico che mi tenne il Torri. Così disse e così fece: sposò la sua signorina: un mostriciattolo dai capelli di stoppa e dalle linee rette, e mi piantò come una bella carota. Ebbene, quest’uomo seguita ad essere un galantuomo, un gentiluomo: finirà onorato, stimato, accademico, cavaliere, commendatore. E io cosa sono? Una ragazza vilipesa ed indicata a dito! Ora, finchè simili infamie sono permesse nel mondo, il mondo sarà sempre in rivoluzione. Vi sono tribunali per questi delitti? No! Che cosa rimane da fare ad una povera giovane? Darsi alla mala vita? Uccidere il traditore? Veda — questo voi altri nella vostra sconfinata presunzione maschile non la capite — per fare una di queste due cose bisogna averci l’istinto.
Gli occhi di Regina così parlando balenarono di pianto: e in omaggio all’antico assioma che l’ira muliebre domanda sempre una vittima, prese il guanto e se lo strappò.
Leo, il parsimonioso, Leo, lo spirito esatto, si chinò e raccolse il guanto.
— Quando sarò deputato, signorina, giuro che sosterrò la legge americana sulle promesse di matrimonio non mantenute. Contenta così? Intanto prenda il suo guanto.
— Scherzi pure, caro signore, che ne val la pena! E non le ho detto ancor tutto. Deve sapere che io per amore di lui non ho potuto prendere la laurea, e adesso che son giù di studi, ho paura di non poterla prendere più, e tutto questo perchè? Perchè in vece di studiare per me, mi sono messa a lavorare per lui.
— Ma se io per quasi un anno la vedevo così assidua alla Biblioteca a studiare! — disse Leo.
— Bravo! appunto quello! Sa, è vero, come fanno adesso i professori giovani a far carriera? Fanno certi lavori che un tempo li eseguivano i vecchi eruditi, quando avevano perso il vigore e non erano più buoni da niente e non sapevano come impiegare gli ultimi anni. Si pigliano dei codici, delle stampe rare e si comincia a fare uno spoglio di citazioni, di varianti, di virgole. Con tutto questo materiale si compone un volume che pare il catalogo di un farmacista; questi sono i lavori di carattere scientifico coi quali si fa carriera. Oppure si trova che Dante ha usato la parola camicia. Ebbene, si fa la storia della camicia del tempo in cui Adamo ed Eva adoperarono per tale uso la foglia di fico sino alle camicie di batista tagliate sulla linea del corpo come si costuma adesso: e questo si chiama spiegar Dante. Ma per fare un lavoro simile bisogna sfogliare una Biblioteca.
Se non che quel galantuomo di Torri non aveva nè voglia nè tempo di star lì ad ammattire sui libri e mi faceva lavorare per lui. L’eterno sfruttamento della povera donna!
«Quando però è innamorata, se no...» — sorrise pensando Leo nel suo vivo core.
— Ogni sbaglio che fai — mi diceva — un giorno di più di ritardo nelle nozze.
Si figuri come lavoravo!
— Aveva dunque promesso di sposarla?
— Certamente: anticipò anzi qualche schiaffo.
E Regina scagliò lungi da sè anche l’altro guanto!
***
E se Regina aveva fatto queste confidenze a Leo, cosa più sorprendente fu quando Leo s’accorse d’aver confidato se stesso a Regina: la storia della sua adolescenza: un segreto semplice e doloroso sepolto nel suo cuore. Perchè lo aveva svelato a lei?
Perchè lei gli aveva chiesto:
— E perchè questo odio?
Ed egli le aveva detto perchè odiava.
Ciò era avvenuto dopo una lezione di Leo.
Nell’aula era passato un impeto d’uragano. Fuori delle gran finestre gravi nubi immote, cariche di elettricità, toglievano il giorno: l’uragano della materia: dentro l’aula l’uragano del suo spirito. L’aula era stipata di uditori. Il bidello aveva acceso due candele sulla cattedra. Come si accese, si agitò di tempesta la scientifica parola di Leo? Si accese nel modo stesso che la nube nera e immota vien squarciata dalla folgore. Aveva obliato la definizione e la statistica: aveva parlato folgorando del diritto sacro alla vita, del dolore e del patimento umano che dura da secoli e si rinnova sempre: dell’ingiustizia e della frode che bisogna svellere in nome di una giustizia nuova ed audace. «E chi ci si oppone sia schiacciato!» Sprigionavano scintille d’odio dalle sue parole.
Quando la folla si dileguò, Leo taceva.
Col capo chino, pareva sorpreso egli stesso della sua violenza e parea domandarsi:
«Perchè mi sono lasciato vincere? perchè ho parlato così?»
E fu allora sotto i portici solitari, mentre le nubi nere trascinavano via il giorno e la pioggia, che Regina, toccandogli la mano ardente, gli chiese:
— Ma perchè questo odio? lei cui la fortuna assiste e l’avvenire sorride?
Era, vero: esistevano dei giacimenti di odio nell’anima sua, generata da uomo e da donna. Poteva essere l’effetto dei calzoni corti e delle invariabili colazioni di pane e salame che rimontavano nauseabonde alla gola. Sì! Giacchè si ha un bel gridare: «Viva la sobrietà!» ma in fine secca vedere della gente che mangia tartufi e fagiani sotto i vostri occhi, impudentemente! Poteva essere il ricordo della sua avvilita e dolorosa adolescenza in otto anni di collegio. Anzi, era! Ma sopra tutto era l’orgogliaccio soffocato, l’ambizione spasmodica, erano tutte le idre che fanno nido nell’animo dei nati dall’uomo e secernono e laborano il rodente veleno dell’odio. Ciò che Cristo non volle! Se Leo fosse stato uno dei tanti rimasti schiacciati nell’attrito della vita, idra e veleno sarebbero periti insieme. La miseria cronica è il più terribile degli anestetici! Ma oramai Leo avea cominciato a salire: il maledetto salame cotto — ricovero di ogni rifiuto organico — era serbato ad altri: ora lui era nutrito, vestito. La gente ascoltava la sua parola e perciò le idre non spente dal gelo, ma animate dal sole, sibilavano. Ciò che Cristo non volle!
Che rispondere alla donna che aveva indovinato?
La parola già animata e turbata di Leo discese allora, quasi con voluttà, a parlare di sè. Poteva essere una giustificazione ed anche una deviazione alla domanda: «Perchè questo odio?»
Come la nave sbattuta dalla tempesta, se può ricoverare in un porto o nella rada, fende con la violenza impressa il nuovo tranquillo specchio delle acque; così Leo agitava le memorie della adolescenza con il fremito e con la passione di allora, ed ella ascoltava la parola dell’uomo come se la trama della vita di lui s’intrecciasse con i fili della sua vita.
Disse Leo:
— Voi, cara, che vi meravigliate della mia audacia, sappiate che io, a undici anni, ero non timido, ma timidissimo. Pensate: io, figlio di un modestissimo possidentuccio di campagna, trovarmi fra camerati di cui uno era marchesino, l’altro contino, l’altro ricco bastardo, l’altro figlio di un generale, di un capo divisione, di un banchiere, di un ex ministro, di un milionario e via via! Avevo vinto un posto gratuito in uno dei più reputati collegi nazionali del Regno: di quei collegi che hanno in proposito l’educazione morale, intellettuale ecc. congiunta coi buoni abiti corporali. Questa era l’etichetta che ho ancora in memoria.
La borghesia e la plutocrazia vogliono fare sfoggio di una umanità che non hanno, e sono punite alimentando i loro futuri becchini. Sport imprudente! Questa almeno è la storia mia e della borsa di studio, regalata a me, figlio di un umile lavoratore. Quando entrai in collegio, il nome che mi fu dato subito dai compagni e che portai sino al liceo, e anche dopo, fu quello di Corame: nome indegno e sudicio a cui non mi rassegnai mai! E tanto più ne soffrivo in quanto non potevo vendicarmi. Se ne potrebbe ricavare una buona massima di morale pratica: «non offendete mai gratuitamente!»
Perchè questo sudicio nome? Ecco:
I miei aristocratici compagni avevano quasi tutti delle bellissime mamme. Inutile dire a voi, che siete donna, quanto la perfetta e ricca eleganza aiuti a formare il supremo bene per una abbondante metà del genere umano: cioè la bellezza: la quale, in fondo, è una forma di imperio! Ne convenite? Queste mammine nelle ore della visita avevano delle frenesie, degli accessi di amore pei loro figliuoli, forse per compenso dell’oblio in cui li lasciavano per tutta la settimana.
E nel parlatorio, dopo quell’ora mondana, rimaneva un profumo di essenze e di muschio, insieme all’odor del cioccolatte, della vaniglia e delle paste sfogliate di cui, insieme ai baci, rimpinzavano i loro figliuoli, scialbi, slavati, dalla fisonomia viziosa e stupida di tanti S. Luigi che prendono la comunione.
In quelle ore di visita, io, che non avevo nessuno che mi venisse a trovare, rimanevo in camerata con altri due o tre disgraziati senza famiglia.
Una volta chiamano anche me in parlatorio.
Figurarsi che festa: metto la tunica nuova, mi lucido le scarpe e scendo giù.
C’erano in un canto mio babbo e mia mamma che mi venivano a fare una sorpresa.
Ma cessata la confusione del primo incontro e del primo abbraccio, mi avvidi che le parole di quella folla signorile erano sospese e gli occhi malignamente rivolti su di noi tre.
Intuii, tacqui, mi irrigidii.
Mia madre e mio padre, invece, erano così felici che attorno a loro non c’era nessuno.
Mia madre parlava ben forte e dava tutte le notizie di casa: mi avrebbe voluto portare una ricottina, di quelle che mi piacevano tanto, ma siccome i regolamenti proibivano di portar roba mangereccia, non aveva voluto trasgredire alla legge. Mio padre, avendogli io scritto che soffrivo di geloni ai piedi, liberò da un grosso involto e mi fece ammirare un superbo paio di scarpettine da inverno.
Quando risalimmo in camerata — gli altri a gruppi rumorosi e con gli scroscianti cartocci dei dolci — io, solo, tenendo in mano quelle povere fatali scarpe, il mio sopranome era già formato.
Mia madre venne chiamata la ricottara, mio padre Crispinus ed io Corame.
La scoperta di questi tre nomi li divertì moltissimo per vari giorni: ma io versai molte lagrime segrete che nessuno asciugò e perciò esse, seccandosi, hanno formato quella durezza che si chiama odio. Per molte notti pensai: io rividi il campo del grano nel sole, il pergolato, l’orto ricco di maggiorana dove lavorava mio padre: rividi la fonte dell’acqua viva, la siepe di spino bianco dove mia madre stendeva i lini ad asciugare, cantando, e mi domandai: «Perchè mi strapparono dall’amorosa terra? Perchè tutti questi libri?» Ma il mio raccomandatario, umilissimo uomo anche lui, mi assicurò in segreto, come fosse un mistero, che da quei libri bene ismossi, come già i figli del vignaiuolo nella favola ellenica, avrei trovato il tesoro. Tesoro non so, ma vendetta, certo! E inghiottii le lagrime e stetti attento sui libri. E allora cominciò la persecuzione terribile e stolta: «Sporca il libro a Corame! Butta la palla, intinta di inchiostro, sugli abiti di Corame, così suo padre da Crispinus diventerà anche Sutor e gli porterà un abito nuovo nel giorno di visita.» A me delle macchie e dei castighi importava poco oramai: era l’idea che mio padre doveva lavorare di più per farmi i calzoni o la giubba nuova, quella che mi faceva fremere in segreto; sempre in segreto e mandare giù, e studiare, giacchè Corame studiava e vinceva con la rassegnazione e con la pazienza — armi terribili — quella crudele protervia. Le vendette lasciarono il posto alle imposizioni, alle prestazioni servili: «Corame, dammi il lavoro di latino, dammi da copiare il problema» e così via, e Corame ubbidiva.
Le sole varianti in questa vita uguale di otto anni erano le uscite col detto raccomandatario. Buon diavolo di maestro, carico di figliolini piccini e di compiti da correggere, che era una pietà.
Lui passava il mese d’agosto in campagna dai miei, e per compenso mi veniva a prendere nei giorni dell’uscita, Pasqua, Natale, Statuto, ecc. Il buon uomo, per pagare il debito di ospitalità, si credeva in obbligo di riversarmi a dosso un supplemento di buoni precetti morali e pedagogici. In verità io non ne aveva bisogno ma egli affermava che melius est abundare quam deficere.
Insisteva poi con specialissime cure nell’estirpare un mio grave vizio, quello di essere republicano. Già, in collegio io acquistai il titolo di republicano. Perchè? Non lo so, nè mi ricordo di averlo mai detto, nè di averlo pensato, ma i miei compagni lo ripetevano sempre e con tanta convinzione che mi persuasi che proprio io dovevo essere tale veramente.
Dimostrava il mio ottimo raccomandatario che non è lecito ad un giovane per bene essere republicano. «Republicano al tempo di Catone, di Cicerone, di Muzio Scevola, di Collatino e di Bruto va bene: ma dopo, no! il nome stesso republica si presta bensì all’esercizio di una declinazione composta: nominativo res publica e genitivo rei publicæ, come ius iurandum, genitivo iuris iurandi. Ma questo è il solo vantaggio che noi possiamo ricavare dalla parola republica.» Giacchè il povero uomo scivolava per effetto della lunga abitudine sempre nelle declinazioni.
Però era il solo che fosse sincero e mi volesse un po’ di bene.
Egli, in quelle solennità, mi veniva a prendere verso mezzogiorno, dopo colazione, quando già tutti i compagni erano usciti.
— Bondì, putèlo! oggi è un giorno che ci divertiremo — dicea — La colazione l’hai già fatta? Sì? Tanto meglio; così avrai più appetito per il pranzo. Intanto andiamo a comperare un bel dolce!
In quell’età, verso i quindici anni, io amoreggiavo letteralmente con certi speciali dolci, come è a dire i canditi, i fondants, le creme, le cioccolate, quei dolci siropposi che gemono icore e colore da tutti le parti. Ci lasciavo gli occhi nelle passeggiate! Ma il mio raccomandatario si accontentava di comperare una di quelle squallide ciambelle come se ne mangiavano anche in collegio.
Giunti a casa, doveva giocare e far divertire i suoi molti figliuoli: dalle tre alle cinque su e giù in piazza alla musica, dove mi vergognava a fianco del soprabito ritinto del raccomandatario, che era appunto il più umile e spregiato professore del ginnasio.
Alle cinque, pranzo col lesso di pollo, un piatto d’arrosto, dolci e bottiglia di vino moscato, la cui stappatura era una cerimonia: tutto ciò con la raccomandazione di bere e mangiare molto «perchè di questa roba tu non ne mangerai in collegio di certo.»
Alle sette, a spasso con tutta la famiglia. Io avanti a dar la mano ai piccini, dietro i coniugi, infine la nonna e la fantesca che in quelle occasioni solenni otteneva di lavare i piatti al mattino. Io arrossivo e fremevo di trovarmi in quella processione!
D’inverno, si andava a mangiare la panna montata con le cialde, d’estate a sorbire il gelato.
Alle otto precise, ritorno in collegio.
Giunto alla presenza del rettore, venivo riconsegnato regolarmente.
In quelle occasioni il rettore si ricordava che anch’io ero uno dei cento venti infelici, soggetti alla sua giurisdizione.
Levava il dito all’altezza della fronte, corrugava le ciglia e mi scatenava senza motivo un’esortazione morale preceduta da un «Macte animo! Principiis obsta! Cursus in fine velocior! Obœdite prepositis vestris! Seggendo in piume in fama non si vien nè sotto coltre ecc.! Itala gente, se virtù suo scudo su voi non stende libertà vi nuoce!»
Il raccomandatario con la zucca pelata e scoperta, chiosava sorridendo e sorbendo il dolce e la saggezza di quelle parole che evidentemente formavano parte degli annessi e connessi all’ufficio di rettorato, per rendersi meritevole del ventisette del mese.
Per mio conto, senza giungere allora tanto in là, sentivo un odio implacabile quanto ingiusto contro Ovidio, Orazio, il Petrarca, contro tutti questi poeti e filosofi, divenuti carabinieri ed aguzzini al servizio del rettore. Il quale con uno schiaffetto episcopale mi accomiatava.
«Attento alle cose dette!» ammoniva il raccomandatario con segreta significazione, e si riferiva alla Republica, genitivo rei publicæ.
Con le dame che venivano poi in ritardo il Principiis obsta, e il Macte animo! erano detti con un tuono tale che tutta la colpa era di Ovidio e di Orazio: gli inchini erano inoltre così profondi, le parole di indulgenza così convinte che non si avvedeva degli enormi contrabbandi di caramelle, cioccolatte, pasticci d’ogni maniera.
Si sentiva sino ad ora tarda in dormitorio sgretolare dolci, e ogni tanto a me: «Ehi, Corame, ti sei divertito? era buona la panna? Con un franco ne danno da riempire un pitale. E il pranzo era buono in casa di Gattina arrabbiata! Per un republicano di Sparta basta la broda nera.»
Gattina arrabbiata era il sopranome del raccomandatario.
E, a proposito di dolci, mi ricordo che una volta mio padre me ne comperò una scatola, seguendo le mie precise ordinazioni. Il contrabbando fu eseguito felicemente: chiuso nella mia stanzetta, dopo essermi bene assicurato che nessuno mi vedesse, alzai devotamente i quattro veli di carta ricamata che coprivano la scatola. Un tesoro! I marroni canditi gemevano il loro rosolio sugli ananassi e su certe meravigliose prugne verdi, grinzose, dense. I fondants, dal lilla tenue al rosa ardente, erano allineati su di un letto di cioccolatte finissima.
Povero babbo mio! mangiando quei dolci, io mi comunicavo con lui come i credenti comunicano con Cristo quando sulle labbra loro si posa l’ostia consacrata. Lagrimavo di commozione e di gioia.
Dove nascondere il meraviglioso dono? A quale angolo confidarlo? Il tempo stringeva. La stanzetta povera, nuda, non offriva alcun nascondiglio. Alzai il capezzale e sotto vi occultai la scatola.
Al mattino seguente in camerata, dalle sei alle otto, era tempo di studio, a lume di gas.
Ma per capir bene, bisogna che sappiate come fra quei marchesini, fra quei S. Luigi blasonati, esistesse una vera e perfetta camorra.
Date un ambiente sociale falso e viziato, e voi avrete naturale e spontaneo il fenomeno della camorra, nel modo stesso che se non rifate il letto e la stanza, vi si annideranno le cimici. Il linguaggio simbolico, i segni di riconoscimento, l’astuzia e la violenza collegate insieme, il segreto, la vendetta, l’omertà: non mancava niente! Mi stanno ancora alla mente certi fenomeni di depravazione e di raffinatezza del vizio che se li leggessi in un libro di patologia, stenterei oggi a crederli. I prefetti stessi subivano, che v’ho a dire? il fascino di quella corruzione: molte volte la alimentavano essi stessi spiegando in segreto alle avide orecchie, ai viziosi sensi mal desti, le oscenità dei sessi. Accumulate per anni questi adolescenti, questi efebi, assieme; provocate la pubertà nella serra dell’inazione forzata; nutriteli di ipocrisia obbligatoria; impedite il sano sviluppo organico con una disciplina stupida ed inumana, e il fenomeno patologico e il pervertimento scoppierà da ogni parte come uno sfogo voluttuoso. E dire che sono cinquecento anni da che Rabelais scrisse un suo mirabile trattato di pedagogia! Noi, i timidi, i pusilli, i lavoratori, formavamo il campo di sfruttamento. Sempre così, dovunque: nel vasto mondo e nel minuscolo collegio!
Dunque vi dicevo che al mattino c’erano due ore di studio a luce di gaz.
E una voce allora, beffardamente nasale, disse nel silenzio:
— Ho il piacere di annunciare ai compagni che abbiamo requisita, dopo debite e diligenti ricerche, una mastodontica scatola di dolci. Eccola!
Tutti si erano voltati: un gelo mi corse al cuore; era la mia scatola!
Mi levai, corsi per afferrarla.
— È la mia! — gridai, e molte braccia mi trattennero.
La voce seguitò imperterrita e sarcastica:
— Noi potremmo, a norma degli statuti che ci reggono, punire con la suprema pena dell’interdetto, come insegna la storia magistra vitæ, l’audace ribelle, il prepotente soggetto, detentore e occultatore di cose appartenenti alla proprietà comune.... Vero, signori?
— Sì, interdetto! — si alzò un coro di voci.
— Un momento, signori! Ma considerando la bontà eccezionale dei dolci e d’altronde volendo dare saggio della nostra magnanimità, così non terremo conto della grave ingiuria: summa iniuria! Unica pena sarà il non partecipare al dolcissimo banchetto, epulæ suavissimæ, che ora sta per incominciare; tanto più gradito in quanto che inaspettato. Alla guardia!
«Alla guardia!» era l’ordine dato a coloro che dovevano spiare se il censore o il rettore a caso passassero.
La scatola fu rovesciata sul biliardo, posto in mezzo alla camerata.
Un grido selvaggio di gioia accompagnò il cadere dei preziosi canditi.
— È mio, me li portò mio padre! — singhiozzai e feci per lanciarmi.
— Tacete Corame, figlio di Sutor o di Crispinus che dir si voglia! — tuonò ancora la voce — Voi non avete diritto di parlare!
Fui preso, percosso, costretto al mio banco. Mi vennero meno le forze. Piansi.
Dopo mezz’ora i dolci erano scomparsi. Una orgia famelica! la scatola, fatta a pezzi, mi percosse ripetutamente sulla schiena e sulla testa.
Feci rapporto al prefetto, il quale mi disse:
«Ella sa bene che dolci in collegio non se ne possono portare. Dunque il primo colpevole è proprio lei! In secondo luogo io le osservo che se i compagni hanno fatto male a portar via i suoi dolci, lei pure ha fatto male a volere egoisticamente tenerli tutti per sè. In fine non dimentichi che lei, qui, ha il posto gratuito, e perciò il pane che mangia è tolto in parte dalla pensione di quelli che pagano la retta intera!»
— Povero piccino! — fece allora Regina — come se lei fosse stata una mamma, e lui il giovanetto pauroso d’allora: e gli prese la mano.
Leo sentì la carezza di quelle due parole, e crollò le spalle come per buttar via la commozione che l’aveva vinto nel raccontare.
***
Nel prolisso racconto si erano dilungati in luogo solitario, sotto i tigli dove sul vespero vanno a spasso gli innamorati.
Il vento era calato; e le chiome dei tigli riposavano nella dolcezza della notte primaverile.
E Leo fu sorpreso di trovarsi solo a quell’ora tarda con quella donna presso di lui, che gli camminava a canto assai dolcemente, senza interrogare: con quella parola materna, soave come un balsamo sopra una ferita, con quella mano che fasciava di morbidezza pietosa la sua rozza mano: «Povero piccino!»
Sentiva anch’egli il turbamento e la passione del suo dolore insieme alla pietà per se stesso ora che con la parola aveva animate le memorie delle piccole, irrevocabili cose.
Piccole sì, se la lunghezza della vita si misurasse alla stregua che il geometra usa per la materia: e non fosse vero cioè il contrario, cioè che il giorno, il mese e l’anno hanno valore di misura se non in quanto tu li combini con le fasi del vivere, col piacere e col dolore: vere misure della vita!
Come al mattino di estate, se ti levi quando rifulge ancora la Stella, ti sorprende il lento procedere della luce, così è del salire degli anni della giovinezza: e la materia stessa del cervello ritiene soave, come in tabernacolo, solamente quelle memorie: il resto è cronaca che si compone e si scompone ogni dì!
Così Leo rivide la camerata dei compagni crudeli sotto il gaz al mattino, le sentenze del prete Rettore, le ricottine della mamma, le scarpe del babbo, la scatola dei dolci del babbo, rivide anche le speranze del babbo fiorite più del grappolo delle sue viti, più del grano del suo campo amoroso!
Aveva richiamate queste memorie, ed esse erano vive davanti a lui.
Or dunque perchè odiare così gli uomini se essi sono fatti così? Tutto al più sdegnarsi: ma il sole non tramonti sopra la nostra ira, ma i fantasmi dell’odio non turbino il sonno e la notte; piuttosto cerchiamo alcun bene.
«Alcun bene, riposto e lontano!» diceva il piccolo piede di Regina che avanzava agile e sciolto, come a terra lontana. «E la purità delle opere buone discenda sulla vita come l’olio scende sulle onde in procella e le acqueta» diceva la mano di Regina che stringea la sua mano al modo che i piccoli bambini si tengono e si sorreggono quando camminano avanti.
Ad un tratto la mano di lei si staccò da lui, e l’indice si tese indicando davanti a sè: disse:
— Quello è il lumino di una bara!
Il viale dei tigli corre presso l’ospedale, da cui portano via i morti di notte, che così quivi è costume.
Il viale dei tigli era buio: in fondo un lumicino si accostava.
Quando il lumino fu da presso, apparve quello che era realmente.
Cioè una bara.
I due becchini la reggevano e avanzavano con quel loro largo e greve passo che oscilla or da una parte ora dall’altra.
Parve venire addosso la bara: Leo si tolse il cappello, Regina si segnò, della croce di Cristo.
Nessuno avanti, nessuno dietro: il fanale era infisso sopra la bara. Il lume si allontanò.
Quando il lume si fu allontanato, Regina disse:
— Sarà un pregiudizio, signor Leo, ma così senza croce, senza nessuno, fa pena: pare che l’essere nato, che l’essere vissuto sia stata una colpa; e gli uomini ne portino a seppellire le tracce come di un delitto.
— Eppure otto anni or sono, così, per questo viale, qui, più tardi che quest’ora, così fu sepolto mio padre che non ebbe colpe!
— Così senza croce? così orrendamente come di soppiatto? — chiese Regina.
— Così orrendamente! — ripetè Leo confermando — No! via via! via! via, dico! — e le mani di lui ferocemente, villanamente avevano ributtato le mani di lei che lo avevano afferrato alle spalle, al collo, alle guance.
Un enorme singulto aveva gonfiato il petto dell’uomo ed era scoppiato in orrido pianto.
Ella assistette al suo pianto: lì presso, immobile e la mano, levata per appressarsi a lui, non osava e tremava dalla pietà di bagnarsi di quelle lagrime disperate dell’uomo.
Egli si vinse però con uno sforzo supremo, ma bensì fremeva e ruggiva della sua debolezza, della viltà con cui quella confessione era venuta spontaneamente alle labbra, come un rigurgito.
Poco dopo si tranquillò: un esaurimento di forze che pareva dolcezza, subentrò a quello spasimo e disse con voce calma:
— Vedete, è stato così: io faceva qui il primo anno di legge, quando, in questo ospedale, venne mio padre per curarsi di un male che non perdona.
Ogni tanto usciva e mi aspettava qui di fronte all’ospedale, in un sedile, sotto questi tigli. Io non avevo allora un’idea esatta del perchè si muore, e come si muore e perchè muore il padre e la madre.
Non ero, dunque, molto preoccupato e seguitavo la solita vita.
Ma un giorno io lo attesi invano; non venne, e allora entrai con angoscia nell’ospedale: i medici e gli infermieri mi dissero che sarebbe morto presto. Passò la notte dell’agonia, eterna come una vita di dolore: io era presso il letto, la sua mano era sulla mia: i suoi occhi su me: egli si spegneva, io cadevo esausto ai piè del letto, come sotto un letargo potente: mi scuoteva ogni tanto un lume, poi un infermiere, poi un medico, poi un prete e molta luce, poi un gran silenzio finchè la mano di mio padre si staccò dalla mia. Allora mi portarono via di lì.
Fuori era levato il giorno.
Io ero solo e ho dovuto provvedere a tutto.
Venne in cerca di me un mercante di bare che mi condusse nel suo deposito, dove aveva molti suoi soprabiti dei morti, ed io volli comperare la più bella, la più forte bara.
Io ho voluto provare la misura e mi sono disteso dentro, e lui mi diceva: «Oh, ci sta benissimo!»
Allora io compii l’atto macabro con una grande indifferenza: ma da allora qualcosa di quel soprabito dei morti rimase attaccato a me.
Dopo io andai ad un convento di frati e dissi che mio padre era morto e che aveva desiderato una croce e un frate. Io pregavo uno di loro di trovarsi con la croce la sera seguente davanti alla cella mortuaria dell’ospedale. Mi pare che rispondessero di sì ed io quando fu sera aspettai: ma non venne nessuno. I becchini avevano fretta.
I frati, dicendo che io ero studente, forse sospettarono una burla. Avrei dovuto lasciare del danaro per caparra. Ma non sapevo che per l’ufficio funebre di una croce ci volesse del denaro: comunque sia, il fatto è che non vennero. Parliamo d’altro. Ora basta!
Nel ritorno parlarono d’altro e Regina chiese timidamente:
— Nessuna speranza di rivederli di là i nostri cari, quando che sia?
— Nessuna! oramai è deciso!
— Allora tutto qui? Tutto quello che c’è di bene e di male, tutto qui? Ma sa che è poco, signor Leo? Anche tutta la nuova vita che lei disegna dalla cattedra, sa che è poco?
— Mah! Quello che è. La morte è necessaria alla vita: questo è quanto noi sappiamo di certo.
***
Poco dopo si erano lasciati.
Quella notte il sonno non scese sulle palpebre di Leo: un malessere come di febbre, un senso di isolamento nel mondo lo tenne desto e agitato sul letto. Come lunga la sua breve vita!
Il giorno venne, ed egli volle riprendere le sue occupazioni serene, ma non gli riusciva: il mondo in una gran tristezza, in una stanchezza di morte, si allontanava da lui.
Lo stesso come otto anni fa, dopo la morte del padre, quando gli pareva che la gente attendendo alle opere della vita, fugisse, esulasse da lui! Volle vincersi e non ci riuscì. Aperse i libri della scienza e della esperienza, ma i periodi gli si disfacevano, come cosa ridicola e vana, nella mente. Manca il cemento dell’amore ai libri della esperienza e della scienza, e però talora essi franano. Vero è che a certe verità è cosa prudente non accostarsi con il pensiero, e molto meno con la parola concreta!
Ma quando venne la sera seguente e Leo rincasò e sollevò le coperte del letto per coricarsi fu sorpreso nel trovarvi una cosa inaspettata e strana.
***
Era un grosso involto finamente legato: sciolse i nodi di raso e ne venne fuori una magnifica scatola di dolci.
Sollevò i quattro veli di carta e vide dei magnifici canditi che posavano su di un letto di cioccolatte: delle enormi prugne che gemevano il loro rosolio sugli ananassi. I fondants, dal tenue lilla e del profumo di vaniglia, si allineavano in fila alternata coi più rari confetti.
E mentre fissava, vide che c’era una lettera, con un carattere che gli era nuovo, e diceva:
«Regina manda questi confetti a Leo. Il male che gli uomini fanno, gli uomini possono riparare in qualche misura.»
E Leo contemplò a lungo quei dolci senza toccarli. E gliene veniva una sensazione nuova e pietosa. Se il mondo pareva allontanarsi da lui, la donna veniva a lui e bastava per tutto il mondo.
Una mano carezzevole si accostava senza ripugnanza e senza paura alla piaga del suo dolore, ed era la mano di Regina timidamente levata nel desiderio di bagnarsi del pianto di lui!
Ne sentiva pietà, confusione e gran dolcezza insieme.
«Domattina la rivedrò!» pensò con piacere come avesse pensato: «Domattina rivedrò il padre mio!»
Manifestamente esisteva una comunione di spiriti tra quella viva e quel caro morto: una voce era partita dalla bara e aveva parlato a lei, e quella soavità senza nome che gli distillava nell’animo ebbe virtù di calmare il pensiero e chiudere gli occhi nella dolcezza santa del sonno.
Era ben tardi: la candela, sibilando, si distruggeva nello spegnersi.
***
Rideva l’alba al mattino; le lagrime della notte splendevano come le gocce della rugiada che la rosea aurora rinfranse.
Le rondini squillavano festose sotto la gronda.
Egli si destò: sorrise dei suoi fantasmi, si placò nella sua passione: il sogno doloroso cedeva alla realtà ed alla ragione. Tuttavia la scatola dei dolci rimaneva ed egli disse: «Povera ragazza! questo è stato un pensiero gentile. Bisognerà andare per ringraziarla!»
E disse queste parole forte quasi per persuadersi al suono delle parole che l’animo non diceva di più. Ma in verità, l’anima di Leo voleva dire di più.
E Leo andò in casa di Regina. Se non che quando la signora di casa gli aperse, egli si avvide che era troppo presto per una visita, e ne ebbe pentimento e voleva ritornare. Ma gli fu risposto che a quell’ora Regina era sempre levata.
Egli si sentiva assai turbato, assai impicciato. Le semplici parole: «Il suo pensiero è stato molto gentile ed io vengo adesso per dirle grazie» gli parevano poche. Bisognava dire qualche altra cosa. Anche il farsi rivedere da lei lo turbava.
Ma lo tolse dall’impaccio Regina che gli venne ella stessa in contro festosamente così come era.
— Così come sono, in un déshabillé poco adatto per ricevere dei professori di Università — e così gaiamente lo presentò alla sua padrona di casa e gli fece strada nella sua stanzetta.
— Ha trovato buoni quei confetti? Non li ha assaggiati? Ingrato! Io, uno ne mettevo nella cassettina, uno ne assaggiavo. Adesso perchè è uomo non è più goloso come una volta? Peccato: un piacere di meno! Ma badi a me, non stia a girar gli occhi per la stanza. Quello che c’è di meglio sono io, guardi me, invece di guardare la penna d’airone, quella che fa venire il mal di mare alle persone per bene.
E Leo guardò Regina: La guardò negli occhi buoni, nella fronte serena.
— Povera ragazza! — disse in fine Leo.
— Oh sì, molto povera e poco buona! — disse ancora celiando Regina.
Ma non ne ebbe più tempo di celiare perchè le mani di lui erano state invincibilmente attratte da quella ricca chioma scomposta e ci si erano immerse senza opposizione, facilmente sino alla nuca, con un senso voluttuoso come di penetrare entro un’anima docile.
— Povera ragazza! — ripeteva, nè altro dicea e s’avvide che quelle due parole avevano avuto la virtù di far tacere le vivaci espressioni di lei e di far lagrimare quelle pupille: e come la testa di lei stringea sul suo petto, così sentì il tepore ardente delle lagrime di lei gettare alimento di nuova vita dentro il suo cuore maschile.
***
E fu così che Leo amò Regina.