Tre tribuni studiati da un alienista/II
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Un Tribuno medioevale.
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CAPITOLO II.
Era il 1330; Roma inabissava nel caos. «Ogni die (dice uno storico, Zeffirino Re, Vita di Cola, 1ª, pag. 5), si combattea; Rettori non ne avea: dov’era loco di vergini si vituperavano; le piccole zitelle si fiaccavano. Le mogli eran tolte al marito nel proprio letto, i lavoratori quando andavano a lavorare erano derubati alle porte di Roma. I pellegrini scannati». La pace (scriveva il Petrarca, Rerum famil., ii, Ep. 9, 1335), «è bandita da cotesti luoghi non so per qual delitto del popolo o legge celeste.
Il pastore invigila nei boschi, armato, più temendo i ladroni che i lupi: loricato è il colono. Nulla si tratta senz’arme. Qui non regna pace, non umanità, ma guerra, odio, e tutto ciò che assomiglia ad operazioni di malo spirito». I monumenti servivano di trincee ai nobili contro il popolo, che era impotente contro la loro tirannia, ringagliardita dall’aver essi dimora nell’agro su cui aveva speciale pretensione il pontefice. Per cui, nemmeno le rivoluzioni di piazza riuscivano a liberarnelo.
Le condizioni generali favorivano allora i moti popolari. Re Roberto, protettore dei baroni, era morto. Todi (1337), Genova con Adorno (1367) e Firenze (1343), avevano iniziato un reggimento democratico che preludiava al terribile moto dei Ciompi del 1378; in Europa corse in quel tempo un vero precoce fremito popolare, fino nella feudale e monarchica Francia - che un ingegno eletto, il Marcel, per poco tempo organizzò nella capitale, ma che tosto cessò essendo troppo immaturo, troppo sproporzionato, se non alle cause, alle forze del povero schiavo dei campi e dei semischiavi, neonati, Comuni1.
Cola. — In queste condizioni, Cola, un giovinetto nato nel rione del Tevere nel 1313 da un taverniere e da una lavandaia od acquaiola, fattosi, da mezzo contadino che era, da sè, archeologo, notaio, si vide ucciso il fratello da quei miserabili che erano al governo, o meglio, allo sgoverno di Roma.
Allora egli, che, come dice l’Anonimo storico, avea nella bocca sempre un riso fantastico, e già, meditando sui libri antichi e sui monumenti eloquenti di Roma, aveva pianto sulle sue miserie e spesso esclamato con quel suo strano sorriso: «Dove sono i buoni Romani dei vecchi tempi? Dove è la loro giustizia?», fu preso da un’irresistibile fantasia, come confessò poi (Lettera a Carlo IV, documento 33 nel Papencordt), di intraprendere coll’opera ciò che aveva imparato prima leggendo.
Come notaio si dà a proteggere i pupilli e le vedove, e assume il curioso titolo di loro Console, così come si davano a’ suoi tempi i Consoli dei falegnami, dei lanaioli, ecc.
E però, notisi, usava una penna d’argento, dicendo che tale era la nobiltà del suo ufficio da dovervisi adoperare solo quel metallo il che - a chi ben consideri, tradisce quella doppia passione dei simboli e del lusso, che poi tanto in lui giganteggiò - essendo chiaro che quell’ufficio si può esercitare nobilmente anche con una penna..... d’oca.
Nel 1343, in una delle molte rivoluzioncelle che eran abituali a quell’epoca, la plebe avea tentato abbattere il Senato, creando il Governo dei tredici sotto l’autorità papale.
In quella occasione il Cola fu mandato ad Avignone come oratore del popolo, e là vivamente dipinse le tristezze di Roma, e colla franca e potente eloquenza colpiva e seduceva i freddi prelati, da cui ottenne la nomina di notaio della Camera Urbana (1344).
Appena tornato in Roma continuò ad esercitare quella carica con una esagerazione di zelo, e facendosi chiamare Console non più delle vedove, ma Romano; sempre il primo a prevenire gli altri nella cortesia, rigido nella giustizia, e sempre trascinato in lunghi discorsi contro quelli, che egli chiamava i cani del Campidoglio.
Un giorno, in piena assemblea, in un momento di fanatismo esagerato gridò ai Baroni: «Voi siete cattivi cittadini, voi che succhiate il sangue del popolo». E rivolgendosi agli ufficiali e governatori, li avvertì che ad essi spettava provvedere al buono stato; il frutto ne fu un enorme schiaffo che gli applicò un camerlengo della casa Colonna. Se la prese allora con un po’ più di calma, e cominciò prima a raffigurare, in quadri, le glorie antiche di Roma e le attuali miserie, dove gli omicidi, gli adulterii, i malfattori erano rappresentati da scimmie e da gatti, i giudici e notai corrotti da volpi e da vecchi, i senatori e i nobili da lupi e da orsi.
Un altro giorno mise fuori la tavola famosa di Vespasiano, e invitò il pubblico, compresi i nobili, ad una sua spiegazione drammatica; vestito d’una cappa tedesca con un cappuccio bianco, con un cappello pur bianco, cinto da molte corone, di cui una era divisa in mezzo da uno spadino d’argento, simboli bizzarri che nessuno sa interpretare, e che indicano già la sua mania (essendo caratteristico dei monomani il servirsene continuamente, come già dissi sopra, finchè finiscono a sacrificare alla passione dei simboli l’evidenza delle cose che vogliono raffigurarvi); e lì, applicando un po’ a suo modo il decreto del Senato che accordava diritto a Vespasiano di fare le leggi a suo gradimento, di aumentare o scemare i giardini di Roma e d’Italia (se fosse stato erudito avrebbe detto il circondario di Roma), di fare e disfare dei re, fece loro considerare in che tristo stato si trovavano: «Pensate che il giubileo s’approssima, e voi non avete viveri, nè provviste; finite le discordie, ecc.».
Ma insieme a questi teneva altri discorsi, per lo meno bizzarri. «So, per es., che si vuol trovare un delitto nei miei discorsi, e ciò per invidia; ma, grazie al Cielo, tre cose consumano i miei nemici: la lussuria, l’invidia e il fuoco»2. Parole queste due ultime che furono applaudite, ma che viceversa poi io non comprendo, l’ultima in ispecie, e che credo fossero applaudite appunto perchè non comprese, come accade a molti oratori di piazza in cui il suono reboante e vuoto supplisce all’idea — ed accatta, anzi, meglio, gli applausi.
Il fatto è che nell’alta società egli passava per uno di quegli alienati, allora ricercatissimi per sollazzare le brigate 3. E i nobili, i Colonna in ispecie, se lo rubavano l’un l’altro, ed egli parlava loro delle glorie del suo futuro governo:«E quando sarò re, imperatore, farò guerra a tutti voi, farò impiccare il tale, e decapitare il tal altro». Nessuno di essi egli risparmiava, e li designava uno ad uno, faccia a faccia, e intanto a nobili e a plebei seguitava a parlare del buono stato e di sè che voleva esserne il restauratore 4.
E qui apro una parentesi. Si disse (dal Petrarca in ispecie) che egli fingesse la pazzia, che fosse un secondo Bruto; ma quando noi lo vedremo crescere man mano nelle pompe, nel lusso, negli stranissimi simboli e vestiari quanto più procede innanzi nella carriera politica e dopo conseguito il potere, esagerandoli anzi sempre più, non abbiamo più alcun dubbio che egli non già fingesse, ma, scusate il bisticcio, fungesse da alienato: che fosse, allora insomma in carattere, e non lo simulasse.
Egli continuò poi a mettere fuori nuove pitture simboliche, una fra le altre, coll’iscrizione: Il tempo della giustizia arriva — Attendi questo momento. Notisi che codesta pittura figurava una colomba che porgeva una corona di mirto ad un uccellino; la colomba voleva dire lo Spirito Santo (che vedremo essere uno dei prediletti oggetti del suo delirio), e l’uccellino era lui, che doveva coronare Roma di gloria. Finalmente nel primo giorno di quaresima 1347 appiccicò alla porta di San Giorgio un altro cartello colle parole: Fra poco i romani saranno ristabiliti in buono stato.
Non temuto dai nobili che il tenevano per pazzo, egli potè congiurare sottomano, o piuttosto far fermentare l’opinione pubblica, prendendo a parte, man mano, gli uomini che gli parevano adatti, e dando loro la posta sul monte Aventino verso la fine d’aprile, giorno in cui s’assentava il governatore.
Genio di Cola. — In questo solo convegno che si tenesse segreto, si deliberò sul modo di ottenere il buono stato. Qui si mostrò eloquente come chi parla convinto e di cosa troppo vera per non iscuotere gli animi; dipinse la discordia dei grandi, l’avvilimento dei piccoli, gli armati che scorrevano qua e là, le donne strappate dal talamo coniugale, i pellegrini sgozzati alle porte, i preti perduti nelle orgie, nessun vigore, nessuna prudenza in chi aveva il potere nelle mani; dai signori tutto poteva temersi, nulla sperare.
«Ove erano essi in mezzo a tanti disordini? Sortivano di Roma per godere il riposo nelle loro terre, mentre tutto periva nelle città». E siccome i popolani esitavano anche per la mancanza di fondi, fece loro intravvedere che se ne troverebbero da quelle tasse della Camera Apostolica, calcolando 100,000 fiorini solo pel sale, 100,000 di fuocatico e 100,000 dai porti, cifre che Sismondi dichiara assolutamente erronee (Capitolo 38), e facendo comprendere ch’egli agiva d’accordo col Papa (ed era falso), e che d’accordo con lui poteva mettere mano sulle sue rendite; aggiunse:
«Quanti cittadini v’hanno che saccheggiano i beni della Chiesa contro il suo volere», e firmò e fece firmare una carta per il buono stato, e si mise pure d’accordo col Vicario del Papa.
Al 18 maggio 1347 (giorno in cui S. Colonna era assente) fa avvisare colle trombe per le strade che tutti si trovino nella notte del giorno dopo, nella chiesa del Castel Sant’Angelo, per provvedere al buono stato. Notisi qui una congiura fatta a suono di tromba, come da noi nel 1848, ma per quei tempi stranissima; egli al 19 si trovò al convegno, armato, cinto da 100 uomini armati, e accompagnato dal Vicario del Papa e da tre gonfaloni carichi di simboli stranissimi, uno significante la libertà, uno la giustizia ed uno la pace, ecc.
Fra le misure che fece adottare in quel comizio improvvisato, alcune andrebbero bene ai nostri tempi, per esempio
I processi sarebbero chiusi in 15 giorni;
Che la Camera Apostolica provvederebbe alla sussistenza delle vedove ed orfane.
Che ogni rione di Roma avrebbe un granaio pubblico.
Che se un romano fosse ucciso in servizio della patria, i suoi eredi ne avrebbero 100 lire se era un fante, e 100 fiorini se era cavaliere.
Che le città e fortezze avrebbero soldati tolti dal seno del popolo romano.
Che ogni accusatore che non poteva giustificare la sua accusa andava soggetto alla pena cui sarebbe stata condannata la sua vittima.
Che non si distruggerebbero (come in tutti i Comuni allora avveniva) le case dei condannati, ma andrebbero al Comune.
Il Cola ebbe da quel parlamento popolare signoria piena della città; si assunse a compagno innocuo il Vicario del Papa, si intitolò Tribuno e fece veramente miracoli; restituì la pace dove era il caos; potè vedere chinati a’ suoi piedi i superbi baroni, perfino il ribelle e potente prefetto di Vico. Esercitò una giustizia severa con tutti, coi più potenti come coi popolani. Degli Orsini, dei Savelli, dei Gaetani, furono da lui, perchè violatori della legge, fatti appiccare, e, quello che è più, anche dei preti, come il monaco di Sant’Anastasio, imputato di parecchi assassinii.
Col così detto Tribunale di pace riamicò 1800 cittadini, prima nemici mortali. Abolì, o meglio, tentò abolire l’usanza servile del titolo del Don, che pure serpeggia tutt’ora fra noi nel sud; proibì il gioco dei dadi, il concubinato, gli inganni sui commestibili, con che si guadagnava più il favore della plebe. Creò, infine, una vera milizia cittadina, una vera guardia nazionale! Fece distruggere tutte le armi dei nobili sui palazzi, sugli equipaggi e sulle bande, non dovendosi avere in Roma altra signoria che quella del Papa e la sua.
Ristabilì una tassa di 1 carlino e 4 denari per fuoco in ogni villa e città del distretto di Roma, e fu obbedito sino dalle comunità di Toscana, che potevano addurre pretesti per esimersene — ed i ricevitori non bastavano alla bisogna — e tutti i governatori (meno due) si sottomisero, e persino istituì una specie di giudice di pace, di conciliatori, anche per le questioni penali.
Fece anche di più. Immaginò, egli, primo, quanto nemmeno Dante aveva pensato: un’Italia che non fosse Guelfa, nè Ghibellina, con a capo il Comune di Roma, in cui, primo, in Italia, come il contemporaneo Marcel a Parigi, tentò di radunare (e non fu compreso che da 35 Comuni), un vero Parlamento nazionale5.
Trasportato, infine, in Avignone seppe compiere la impresa che io credo maggiore di tutte l’altre; farsi, dopo tante opere e parole nemiche alla Corte papale, perdonare da coloro che non perdonano mai, i preti, e preti di quel secolo feroce ed implacabile, e farsi rimandare, benchè per poco, e benchè in posizione subalterna, ad un posto che avrebbe dovuto essere per essi la maggiore delle minacce6. Pazzia. — Ma tutti questi miracoli, ahimè! non durarono che pochi giorni; egli che nei concetti politici superò non solo i contemporanei, ma persino molti moderni, e prevenne nell’idea unitaria Mazzini e Cavour, era certamente un monomaniaco. Come, infatti concordano gli storici Re e Papencordt, se era grande nei concetti, era incerto e nullo nelle cose pratiche. Ben il mostrò, per esempio, quando avendo avuto in mano il suo nemico più grande, il prefetto di Vico, lasciavalo andare tenendone in ostaggio il figliuolo; e quando non approfitta della vittoria insperata sui Baroni.
Incapace, sempre, di prendere una risoluzione che non fosse teorica, credeva operare tutto in grazia dello Spirito Santo (Papencordt), con cui abbiamo veduto dar inizio alle sue imprese.
Confermossi vieppiù nella sua follia per una eresia sorta in quei giorni, secondo cui lo Spirito Santo dovea rigenerare il mondo, e sopratutto dal fatto, molto innocente per sè, che una colomba discese mentre egli mostrava al popolo uno dei suoi quadri allegorici. A quella attribuì il suo felice principio, come all’ispirazione profetica attribuì la vittoria contro il Colonna (Vita, I, 32), e contro il Prefetto (id., I, 17). Negli affari più grandi credeva d’ascoltare in se stesso, per sogno od altro cenno, la voce di Dio, con cui si consigliava e a cui tutto riferiva.
Sostenuto dal prestigio di questa ispirazione, dettava anche leggi religiose, l’obbligo, per esempio, della confessione una volta l’anno, pena la perdita di un terzo dei beni. Nel momento in cui doveva credersi vicino a morire, nella carcere di Praga (lettera a fra Michele), reputava di essere vittima di macchinazioni diaboliche, o di ubbidire ai voleri celesti, per cui: «Bacio, scriveva, il chiavistello del carcere quasi un dono di Dio».
Contraddizione e delirio. — E non mancarono in lui le solite contraddizioni speciali ai pazzi. Egli, religiosissimo, si paragona senza esitare a Gesù Cristo, solo per la coincidenza di avere a 33 anni (l’età in cui G.C. salì in Cielo) ottenuto una vittoria; ma, dopo le patite sconfitte si paragona ancora a lui, con uno di quei giuochi di cifre comuni agli alienati, perchè era esulo 33 mesi alla Majella, proprio come poi Lazzaretti, in un eremitaggio selvatico, in mezzo a certi allucinati, seguaci dello Spirito Santo che gli profetarono la sua rivincita e l’impero anzi del mondo. - Prevalse sopratutto in lui il delirio megalomaniaco, il che spiega in gran parte queste contraddizioni. Ei credette di raccogliere in sè tutte le speranze d’un Messia d’Italia, che dovesse ristaurare niente meno che l’impero, anzi redimere il mondo! (Papencordt, doc. 83).
Un giorno si levò dal trono, ed avanzandosi verso i suoi fedeli disse ad alta voce: «Noi ordiniamo al Papa Clemente di presentarsi al nostro tribunale e di abitare in Roma e diamo lo stesso ordine al collegio dei cardinali. Citiamo davanti a noi i due pretendenti Carlo di Boemia e Luigi di Baviera, che si prendono il titolo d’imperatori. Comandiamo a tutti gli elettori dell’Allemagna di informarci per qual pretesto abbiano usurpato il diritto inalienabile del popolo romano, il quale è l’antico e legittimo sovrano dell’impero».
Quindi trasse fuori la sua spada, l’agitò tre volte verso le tre parti del mondo, e nella sua stravaganza disse tre volte: «E ancor questo mi appartiene».
E tuttociò perchè, per aver fatto un bagno nella vasca di Costantino, scandalizzando perciò i suoi seguaci, credeva averne ereditato il potere.
Mentre egli così operava, il legato papale, dal cui concorso solo potevasi ancora fino ad un certo punto giustificare tanta bizzarria, protestava con tutta la forza che gli permetteva la sua scarsa energia! Sarebbe presso a poco come se il console di San Marino si mettesse in mente, per aver avuto i suffragi a pieni voti, o per aver portato il cappello di Napoleone I, di poter chiamare davanti il suo ufficio gl’imperatori d’Austria, di Germania, di Russia, con qualche Duchino per giunta. E pazienza ancora ai nostri tempi in cui, almeno a parole, si pretende che il diritto primeggi sulla forza, ma allora!
Nè quella lì era una momentanea scesa di capo.
A noi resta ancora la comunicazione diplomatica (12 agosto) destinata agli imperatori dopo quella mattesca cerimonia teatrale. Ne caviamo alcuni passi (Oxemio, De actis pontific., tom. 2° e 3°):
«In virtù della medesima autorità e dei favori di Dio, dello Spirito Santo e del popolo romano noi diciamo, protestiamo e dichiariamo che l’Impero romano, l’elezione, giurisdizione e monarchia del S. Impero appartengono di pieno diritto alla città di Roma e a tutta Italia, per molte buone ragioni che noi diremo a tempo e luogo, e dopo aver indetto ai Duchi, ai Re, ecc., di comparire da quel giorno fino a quel di Pentecoste prossimo davanti a noi in S. Giovanni Laterano, coi loro titoli e pretese, senza che, spirato il termine, si procederà in avanti contro loro, secondo le forme del diritto e l’ispirazione dello Spirito Santo».
E tuttavia aggiunge, quasi che non si fosse espresso abbastanza oltre il fin qui detto: «pro generale e pel particolare noi citiamo personalmente gli illustri Principi Luigi Duca di Baviera e Carlo Duca di Boemia, sedicenti Imperatori, o eletti dell’Impero; inoltre il Duca di Sassonia, marchese di Brandeburgo, ecc., perchè compaiano nel suddetto luogo davanti a noi in persona e davanti agli altri magistrati, senza che procederemo contro essi come contumaci, ecc.».
Era troppo! L’animosità dei Colonna e degli Orsini venne sospesa per un momento. Essi si riunirono per combatterlo, per cospirare.
Un loro sicario che voleva attentare ai giorni del tribuno, fu arrestato, e messo alla tortura, accusò i nobili; da quell’istante Rienzi incorse nella sorte di un tiranno, ne prese i sospetti e le massime. Poco dopo, con differenti pretesti, invitò al Capitolino i suoi principali nemici, fra i quali erano anche molti degli Orsini e tre dei Colonna; giunsero persuasi che li chiamava ad un consiglio o ad una festa, e Rienzi dopo convitatili a lauto desco li fece arrestare; innocenti e colpevoli dovettero provare lo stesso spavento.
Il suono della grande campana avendo fatto accorrere il popolo, vennero accusati di una cospirazione contro la vita del tribuno: nè si alzò una mano od una voce sola per difendere i capi della nobiltà dal grande pericolo.
Essi passarono la notte in camere separate, e Stefano Colonna, battendo alla porta della sua prigione, scongiurò più volte lo liberassero con una pronta morte da una schiavitù così umiliante. L’arrivo d’un confessore e il suono della campana funebre li fecero accorti di ciò che li aspettava.
La grande sala del Capitolino dove si doveva giudicarli era tappezzata di bianco e di rosso come solevasi nei giudizi di sangue. Tutto parea pronto per la condanna, quando il tribuno, intimorito od impietosito, con un lungo discorso al popolo, in loro difesa, li fece assolvere, e anzi loro diede benefizi (Prefettura dell’armata) che dovevano essere armi terribili contro lui. Non sono cose che si facessero a quel tempo; fin il Petrarca trovo ch’era stato troppo clemente; e il popolo minuto l’espresse in un modo più osceno ma anche più energico (costui emette il flato e poi ritira le natiche).
E tanta fu la sua pazzia, dice l’Anonimo (veramente dice pascia), che li lasciò fortificarsi, di nuovo, contro lui e poi mandò loro un messaggero perchè gli comparissero dinanzi; il messaggero fu ferito, ed egli li citò di nuovo e poi ne fece dipingere due col capo all’ingiù e quelli, a loro volta, gli prendevano Nepi; nè egli seppe trarre altra vendetta che annegare due cani che dovevano rappresentarli, e dopo incruente ed inutili scorrerie, tornare a Roma e indossata la dalmatica (!) degli imperatori farsi incoronare per la terza volta. Ma quel che è peggio cacciava intanto il legato del papa, Bertrando (Muratori, Cronaca Estense, XVIII, pagina 409), gettando via così l’ultima àncora di sicurezza nel giorno che più n’abbisognava.
Oltre la bizzarria della consacrazione a cavaliere dello Spirito Santo, preceduta dal bagno nella vasca di Costantino (che ancora poteva spiegarsi colle idee dell’epoca, ma che gli fece grave danno, come di profanazione, nell’estimazione dei più, dei religiosi in ispecie), commise l’insigne follia politica di dichiarare che dopo quella cerimonia il popolo Romano era tornato nel pieno possedimento della sua giurisdizione sul mondo: che Roma era capo del mondo, che la monarchia dell’impero e l’elezione dell’imperatore spettavano alla città, al popolo Romano e all’Italia, il che era voler combattere e il Papa e l’Imperatore. Più tardi, al 15 agosto, colla solita sua tendenza monomaniaca pei simboli, volle incoronarsi con 6 diademi di diverse piante; di edera, perchè amava la religione, di mirto perchè onorava la scienza, di appio, perchè esso resiste ai veleni (come l’imperatore alla malizia); infine vi aggiunse, Dio sa il perchè, la mitra dei re Troiani!! e una corona d’argento!!!
Tutto prova, dice il Gregorovius, che egli avesse intenzione di farsi incoronare imperatore.
E come gli Imperatori Romani dopo la incoronazione promulgavano editti, così egli, subito dopo, con decreti poetici, confermò a tutta Italia il diritto di cittadinanza romana.
Dopo vinti, e non per suo merito, i nobili, egli, che prima fu così generoso, proibiva alle vedove di piangere i morti, ed anzi, invece di proseguire la guerra, il giorno dopo, con un atto inutilmente vigliacco, che fu una delle cause della sua rovina, eccitando tutti i suoi volontari a montare a cavallo: Seguitemi, loro disse, voglio procurarvi doppiamente la pace. E fe’ suonare la tromba, e li condusse, avendo alla sinistra il figlio Lorenzo, là dove il Colonna era stato ucciso, e con l’acqua tinta nel suo sangue ne asperse il figlio, sentenziandogli: D’ora in poi tu sarai il cavaliere della vittoria. E volle che ogni capitano gli battesse colla spada nelle reni, e finì la cerimonia tristamente burlesca con un discorso: "Ricordatevi, ciò che ora io feci ci accumuna a voi soli ed a noi appartiene".
Atti e parole che anche in quell’epoca selvaggia apparvero così barbari e pazzi a quei suoi Cavalieri sacri, com’egli li chiamava, ch’ei non vollero più portar l’arme per lui; e da quel momento comincia da una parte la sua manifesta pazzia, dall’altra il disprezzo di tutti gli onesti, espressogli fieramente fin dal Petrarca in una lettera notissima al pubblico (v. s.).
Ed ora si comprende perchè egli fosse così tenero dei titoli pomposi fin dalle prime sue armi: che appena egli incominciò ad adoperarsi per le vedove, si facesse chiamare loro console, e non iscrivesse fin d’allora che con una penna d’argento; come questo Console delle vedove, appena tornato da un’ambasciata ad Avignone divenisse Console Romano, che è ben altro; e declamasse cinto di un berretto trapunto a corone; come dopo ottenuto il trionfo dell’acclamazione popolare, si facesse chiamare prima Tribuno, poi Tribuno Clemente e Severo, non badando alla contraddizione, pur di ricordare Severino Boezio, di cui aveva adottato anzi lo stemma; e poco dopo (giocando nuovamente con quelle omonimie che sono si care agli alienati ed ai citrulli, sulla sua nomina in agosto), Tribuno Augusto (Gregorovius, volume 6°, pag. 294).
E quando ormai era destituito d’ogni potere e profugo e prigione, ei si rivolgeva al prosaico Imperatore Carlo IV, comunicandogli (come vedremo) con tutta sicurezza i suoi sogni, come fossero avvenimenti reali.
A Roma, dopo la sua prima caduta (e fu forse questa una delle cause della papale indulgenza), era ripullulato di nuovo il disordine, a cui aveva tentato inutilmente porre argine un tribuno, restato quasi ignoto, il Baroncelli; nè meglio vi riescì egli, ritornando ormai senza prestigio e senza quella baldanza giovanile, che, insieme all’eretismo maniaco, centuplicava le forze del povero letterato; e fu abbattuto dal popolo stesso. Poichè contro la forza naturale delle cose non valgono gli uomini, siano essi pazzi di genio od anche genii completi. — E non riescì a Parigi il Marcel, che disponeva di forze ben maggiori, e dell’alleanza colle campagne (Jacquerie).
Demenza. — Ma egli del resto non poteva fare nemmeno i prodigi del genio pazzesco perchè era allora disceso alla vera demenza.
Da uomo parco e sobrio che parve almeno nei primi tempi del suo governo, e per cui bisognava che si sforzasse per trovare il tempo di mangiare, era passato agli estremi opposti, all’orgia continuata, ad una vera dipsomania, che egli scusava cogli effetti d’un veleno che gli sarebbe stato propinato in carcere7, e che noi invece crediamo l’effetto del progredire del male, perchè vediamo che era un fenomeno cominciato fino dai primi mesi del primo Tribunato8, e perchè i veleni lenti rendono tabifiche, non grasse le loro vittime.
«In ogni ora confettava e beveva, non osservava nè ordine nè tempo, temperava il greco col flavione: ad ogni ora era del bevere vino fresco. Troppo beveva» (Anonimo, pag. 192).
«Ancora era diventato grasso sterminatamente; avea ciera fratesca, tonda, trionfale come da abate Asiano, viso rosso e barba lunga. Aveva occhi bianchi, e tratto tratto s’arrossiva come sangue, e subito i suoi occhi si infiammavano».
Come, insomma, chi inclina a demenza, il corpo si era fatto enorme, gli occhi spesso sanguigni, la faccia con un’impronta tutta brutale. La mente assai meno attiva, e l’umore profondamente alterato, l’incostanza, l’inquietudine, la bizzarria che gli avevano servito presso il popolo per provocarvi una profonda ammirazione, erano degenerate invece così da danneggiarlo e di molto. I suoi famigliari dicevano che egli cambiava di sentimenti come nell’espressione del viso da un minuto all’altro, che non era un quarto d’ora di seguito costante nello stesso pensiero. Egli è così che comincia l’assedio di Palestrina e poi lo lascia, che nomina un abile comandante e poi lo destituisce.
Negli ultimi tempi, quando dovette imporre tasse sul vino, sul sale ai poveri, anch’egli temperò il suo lusso e tornò in apparenza sobrio: ma non mutò punto nelle altre tristi tendenze. Alla intermittente generosità di cui avea dato prova nel primo periodo succedette un freddo egoismo, una perdita del senso morale che, anche in quei tempi crudeli, destò ribrezzo, quando, per es., fece decapitare fra Monreale per non restituirgli la somma avutone in prestito: il Pandolfo Pandolfuccio, l’amico suo, rispettato da tutta Roma, come modello di vita onesta, senza una causa al mondo, solo per gelosia della sua fama, fu da lui fatto decapitare; e così immolava o spogliava dei beni i migliori del paese. E ora timido, ora feroce, passava dall’uno all’altro eccesso.
Lo si vedeva ora ridere, ora piangere quasi nel medesimo tempo e senza una causa legittima: i suoi accessi di gioia erano seguiti da sospiri e da lagrime.
Epistolario. — Ma è sopra tutto dalle lettere che appare tutto il suo genio e più la sua pazzia.
Le lettere di Cola da Rienzo eran cercate ed accolte con singolare curiosità quasi cadessero (gli scrive il Petrarca più volte) giù dagli antipodi o dal mondo della luna, e di lui si possiedono quattro epistolari: a Mantova, a Torino (22 pagine fitte), a Parigi, a Firenze (autografi questi), pubblicati e ripubblicati dal Gaye, dal De-Sade, dall’Hobbouse, dall’Hoxemio, dal Pelzel, dal Papencordt9; e che basterebbero da soli a darcene la diagnosi.
E non ve n’è infatti quasi una che non porti una impronta o di una vanità morbosa, o di quei giochetti di parole e di quelle ripetizioni di cui si dilettano specialmente gli alienati.
E prima di tutto la loro grande abbondanza in un’epoca in cui sì poco si scriveva.
Quando, dopo la sua prima fuga, si saccheggiò il Campidoglio, ove risiedeva, ciò che più sorprese chi penetrò nel suo ufficio fu la massa delle lettere cui egli aveva abbozzate e non ancora spedite: ed era noto come i moltissimi scrivani da lui arruolati non bastavano alla fatica delle sue dettature, come che egli mandasse corrieri su corrieri, non solo alle repubbliche amiche, ma anche ai potentati indifferenti o sdegnosi, come il Re di Francia, che gli rispose per beffa col mezzo di un arciere, qualche cosa di simile ad una guardia di P. S., e come i Signori di Ferrara, di Padova, di Mantova che gli rimandavano le sue lettere. S’aggiunga, lo stile, il volume esagerato, irto da poscritti più lunghi del testo, la firma singolare così ricca di titoli laudatori quale solo era usata dai principi orientali ed africani.
E veramente quelle sue lettere hanno un sapore loro proprio, una vivacità che usciva dal compassato classicismo preso a modello, un’esuberante confidenza che obbligava a prestar, sulle prime, fede alle bugie di cui formicolavano: e pare, anzi, che, come accade a certi matti ed a certi impenitenti bugiardi, egli finisse per credere egli stesso alle menzogne che vi dettava.
Lasciando stare i motti spropositi strani in un dotto latinista10 e l’abbondanza che abbiamo accennato e che è un carattere morboso, e tanto più in un uomo di Stato di quei tempi, per cui il silenzio era più aureo che non ai nostri, necessario anzi, grazie alla generale incoltura, un fatto mi ha colpito: il giuoco continuo delle omofonie, o, per dirlo con un motto moderno, il pompierismo, che è uno dei segni della massima leggerezza umana, e che certo non era uno dei caratteri della diplomazia di quei tempi.
Qual è l’uomo assennato che anche in pieno Medio Evo scriverebbe come fa egli a papa Clemente nella lettera del 5 agosto 1347: «Avendo la grazia dello Spirito Santo liberata la repubblica sotto il mio regime, ed essendo stata nei primi di agosto promossa la mia umile persona alla milizia, mi si attribuisce come nella sottoscrizione il nome ed il titolo di Augusto.
- «Dato come sopra il 5 agosto.
- Umile Creatura
- Candidato dello Spirito Santo, Nicolò Severo e Clemente, Liberatore della Città, Zelante d’Italia, Amante del Mondo che bacia i piedi dei beati».
- «Dato come sopra il 5 agosto.
E notisi che, dopo tanto di firma, segue ancora la lettera per ben tre altre pagine, con argomenti ben più serii di questi e che egli aveva posposto a quella pompierata sull’agosto.
Ed, a questo proposito, un documento chiaro della sua pazzia è la lettera che scrisse, nell’ebbrezza della vittoria sui baroni, a Rinaldo degli Orsini, notaio del papa (Hoxemio, III, 35). Senza fermarci alla indelicatezza, ben poco diplomatica, di che dà prova nel citargli fra i traditori, due suoi congiunti, Rainaldo e Giordano degli Orsini, e senza fermarci alla strana dimestichezza con Dio, che mostra quanto scrive: che Dio formò alla guerra quelle dita che l’arte aveva istruito alla penna, mentre, in fondo, egli non ebbe nessuna arte di guerra; giova notare come, lì, fra le più gravi accuse contro i Colonna, annoveri che essi abbiano saccheggiato una chiesa dove egli aveva deposto la sua corona d’oro. Più strana è questa pretesa alla profezia spedita ai preti, che di tali ubbie sono più scettici, come quelli che ne fanno mercato. «Non dobbiamo, aggiunge poi, dimenticare di dirvi che due giorni prima di questi avvenimenti ebbimo la visione di papa Bonifazio, che ci predisse il trionfo su quei tiranni; noi ne femmo rapporto in pieno Parlamento ed in presenza dei Romani riuniti, ed andammo in S. Pietro all’altare di Bonifazio e gli offrimmo un calice ed un velo.
La visione, infine, grazie al Cielo, si è effettuata, grazie all’aiuto del Beato Martino, suo Tribuno (e qui dimentica che due pagine prima aveva, nella stessa epistola, attribuito le vittorie a S. Lorenzo ed a S. Stefano).
Come, continua egli, quei traditori avevano saccheggiato i pellegrini nel giorno della sua festa, quel Santo ne prese vendetta per mano di un tribuno, tre giorni appresso, cioè a dire nel giorno di S. Colombano, che glorificò la colomba del nostro drappello». Si noti questo gioco di parole di Colombo e Colombano, di tribuno e di tre giorni.
E con quei poscritti, che sono così abituali nelle lettere dei monomaniaci e che si trovano in pressochè tutte le sue corrispondenze, egli finisce:
«Dato al Campidoglio, il giorno proprio della vittoria, il 3 novembre, in cui perirono sei tiranni della casa Colonna, non restando più che lo sciagurato vecchio Stefano Colonna, che è mezzo morto. È il settimo, ed ecco come il Cielo volle eguagliare il numero dei Colonna uccisi alle corone (sic) del nostro incoronamento11, ai rami dell’albero fruttifero che ricordava i sette doni dello Spirito Santo». Concetto e parole assolutamente pazzesche in cui fa intervenire Dio a spegnere una famiglia di eroi per fare un tristo bisticcio in suo onore, egli, che poche pagine prima, con bugiarda ipocrisia, così tosto smentita dai fatti, aveva scritto: «Stando al nostro carattere, non volemmo impiegare la severità della spada, per quanto giusta, contro coloro che possiamo far rientrare in grazia senza danno della libertà, della giustizia e della pace».
Comica e pazzesca è pure la maniera con cui in altra lettera a Rinaldo Orsini (22 settembre 1347) orpella quel suo enorme errore di mettere in libertà i nobili arrestati poco prima con tanti inutili infingimenti. «Noi vogliamo che vostra paternità sappia come avendo giudicati alcuni nobili legittimamente sospetti al popolo ed a noi, piacque a Dio che cadessero nelle nostre mani (e noi sappiamo com’egli li aveva invece invitati). Noi li abbiamo fatti chiudere nelle carceri del Campidoglio; infine i nostri scrupoli e sospetti essendo stati levati, usammo di un innocente artificio (sic) per riconciliarli non solo con noi, ma con Dio. Perchè noi procurammo loro la felice occasione di fare una devota confessione. Fu nel 15 settembre che noi inviammo a ciascuno di essi dei confessori nel carcere, e come questi ignoravano le nostre buone intenzioni e credevano che noi saremmo stati severi, dissero ai nobili: «Il signor Tribuno vuol condannarvi a morte». La campana dei Campidoglio intanto suonava senza posa pel Parlamento; così i nobili spaventati si credettero perduti e attendendo la morte si confessarono devotamente e fra le lacrime... Io poi ne feci gli elogi, ecc.».
Se questo può chiamarsi una felice occasione lascio al lettore il giudicarlo e giudicare se chi parla di ciò, anche in via diplomatica, come d’uno scherzo da nulla, possa dirsi un uomo d’integro senso morale.
Notisi poi che, diplomaticamente, una simile scusa, specialmente coi preti, che, essendo ed usando del mestiere, se ne intendono e ne sanno il valore, non era solamente inutile, ma mutavasi, anzi, in accusa gravissima. Nè meno strana è la sua conclusione: «Con ciò i loro cuori sono talmente uniti al nostro e a quello del popolo, che questa unione dovrà durare pel bene della patria, perchè così vedono che noi siamo imparziali e non vogliamo essere rigorosi quanto il possiamo».
Ma non finirono lì le inutili ipocrisie; egli probabilmente, messo in uzzolo da quella confessione dei patrizi, ordina (come accennai) che almeno una volta all’anno tutti i cittadini debbano confessarsi e comunicarsi, sotto pena di perdere un terzo dei beni, di cui la metà sarà data alla chiesa parrocchiale del reo e l’altra metà alla città. E i notai sono obbligati a fare la spia per ciascun testatore. Ora il Rienzi, in un poscritto a quella lettera (notisi, ripeto, questo ticchio dei poscritti in quasi tutte le sue lettere, che io ho trovato frequentissimo nei monomaniaci), dà notizia di questa sua nuova legge, aggiungendovi queste linee: «Ci parve decente che come un secondo Augusto cura l’incremento temporale della Repubblica, cerchi di favorirne, aumentarne il bene spirituale». Il che, a chi ci pensi, era un usurpare i più speciali diritti e doveri del pontefice, anche nel senso il più moderno della cosa, così come poi quando ordinava al clero delle speciali cerimonie e processioni ecclesiastiche di sua invenzione e dettava dei decreti contro i religiosi che non rientrassero in Roma. Questa, infatti, fu una delle precipue e giuste accuse che gli opposero a Praga e ad Avignone, e di cui non si scolpò che..... mentendo.
E quando la guerra contro Giovanni di Vico e il Ceccano conte di Fondi andava male, egli scrisse un’altra lettera (7 luglio 1347), in cui, mentre al Papa dà del signore e gli parla del suo popolo romano, dichiara come questa medesima Roma e questi medesimi popoli fecero giuramento nelle sue mani di mantenere il governo che egli stabilì, secondo il regolamento ispiratogli dallo Spirito Santo; e data la sua lettera dal primo anno della liberazione della Repubblica, e parla con una sicurezza nella sua ispirazione dello Spirito Santo, che non potrebbe comprendersi se non in un uomo di buona fede, e quindi in un allucinato.
«Io ebbi già cura, scrive, d’informare la Vostra Santità della grazia eccellente e del dono prezioso che il padre delle luci fece discendere il giorno di Pentecoste ultimo sul vostro popolo romano per fargli intravvedere con un raggio del suo splendore e fargli abbracciare la libertà nell’unione e il santo bacio della pace e della giustizia.
È in grazia dello Spirito Santo, d’onde la mia amministrazione prese origine e stabilità, che la destra del Re dei Re ridusse sotto la mia obbedienza tutti i grandi, i tiranni, i principi della città così meravigliosamente e in così poco tempo, che sarebbe stato difficile ed anche impossibile a qualunque altro, non dico d’intraprendere questa grand’opera, ma di formarne il pensiero e l’espressione; è ora la clemenza, ora la forza, ora la virtù, ora l’assistenza, ora la grazia e ora la libertà dello Spirito Santo che lo illuminarono dei suoi progetti».
Eppure, in quei giorni, non toccava che continui e gravissimi scacchi (v. s.).
Chi vede le altre corrispondenze subito capisce che il bagno nella vasca di Costantino era (come fu per il Lazzaretti il tatuaggio della fronte) uno di quei giochi simbolici a cui annettono gli alienati significati affatto particolari, e una specie di investitura imperiale!
Così in un’altra lettera al Papa ei vi ritorna a proposito della sua vittoria sui piccoli principotti e sui ladroni dei dintorni e vi afferma: «Visto le loro nequizie, fu una gran fortuna se un cotale si lavò nella conca di Costantino», ecc. (Lettera 4 ottobre 1317).
Nella lunga epistola a Carlo IV (luglio 1350), dalla prigione, scrive a proposito di certi amori poco onorevoli di sua madre coll’imperatore Enrico VII12
«Essa disse esserne gravida ad una sua amica in segreto; l’amica, segreta al modo delle donne, trovò un’altra amica in segreto (diremo noi ciarlona), a cui come in segreto raccontò la cosa, e la donna tenne alla peggio segreto il negozio, e così di segreto in segreto, si propalò la notizia, ecc.". (Cod. Pelzel, pag. 44-57).
Ora tutto questo giochetto sulla parola segreto trattandosi degli amori della propria madre raccontati ad un imperatore, in una lettera non confidenziale, è proprio pazzesco, e non è il solo; chè, poco dopo, fa un’altra pompierata sull’essere egli Tribuno-Augusto mandato dal Cielo in agosto all'Augusto Carlo (15 agosto, 1350, dal carcere), e gli viene narrando con bisticci doppiamente assurdi come egli, nell’idea che la madre di Severino Boezio discendesse dai re di Boemia (!!), chiamò Boezio il figlio e se stesso Severo; più ne addottava lo stemma delle sette stelle, tutte cose che proprio non avevano nulla che potesse interessare quel Re, nè giovare a lui, ma che hanno tutto il conio pazzesco.
E così quando gli scriveva di essersi persuaso, grazie alle profezie di quei tai Romiti di cui parlammo, che il secondo proprio innalzamento sarebbe molto più splendido del primo; come il sole lungamente occultato dalle nuvole appare più grato agli occhi degli spettatori. "Forse Iddio, giustamente sdegnato della nefanda ed inaudita morte del serenissimo di lui avo (Enrico VII), e delle perdite d’anime e corpi sofferte dal mondo per la vacanza dell’impero, aveva fatto nascere Cola a vantaggio di Carlo, elettolo a ristabilire l’impero, ed aveva disposto che fosse battezzato in Laterano nella chiesa del Battista e nel lavacro di Costantino perchè divenisse precursore dell’Imperatore, come Giovanni lo era stato di Cristo. Carlo aveva detto bensì non potersi che per miracolo ristabilire l’impero; ma questo essere appunto un miracolo, che un pover’uomo potesse soccorrere l’impero cadente, siccome San Francesco aveva soccorsa la Chiesa; si svegliasse egli e cingesse la spada; non doversi ritener nulla la rivelazione dei frati, poichè tutto il nuovo e vecchio Testamento erano pieni di rivelazioni; poter egli solo impadronirsi di Roma. Se non lo faceva subito, Carlo perderebbe almeno centomila fiorini d’oro, delle gabelle del sale e degli altri proventi della città, accresciuti pel giubileo.
«Entro un anno e mezzo il Papa morrebbe: molti cardinali sarebbero uccisi.
In quindici anni non vi sarà che un pastore ed una fede, e il nuovo Papa, l’Imperatore Carlo e Cola saranno come un simbolo della Trinità sulla terra. Carlo regnerebbe nell’Occidente, il Tribuno nell’Oriente. Per ora gli bastava di sostenere l’Imperatore nella sua andata a Roma; voler egli aprirgli la strada presso i Romani e gli altri popoli d’Italia, d’altronde avversi all’impero, così che scenda fra essi tranquillamente e senza sparger sangue e la sua venuta non sia cagione di lutto per la città e per tutta la nazione, come lo era stata quella degli altri imperatori».
Tanto che l’arguto arcivescovo di Praga gli scriveva: (Cod. Pelzel, pag. 121-122) «meravigliarsi come il Tribuno, dopo aver fatte cose che parvero sul principio venir da Dio, sì poco tuttavia esercitasse la virtù dell’umiltà, da considerare la propria elevazione come opera dello Spirito Santo, e da nominarsi suo candidato»13 — il che gioverà notare contro coloro che credono quella sua follia non altro che un’ubbia dell’epoca.
E quel Re gli rispondeva con molto buon senso «Cola dover consolarsi della sua sorte colla sentenza della Bibbia, che tutta la legge dipende da due precetti: amare Iddio sopra ogni cosa ed il prossimo come se stesso. Se qualcuno deve essere punito, ne lasci a Dio il còmpito; Cristo ci avverte di guardarci da quelli che ci vengono in veste d’agnello e son lupi. Perciò ti ammoniamo di desistere dagli ignoranti eremiti, i quali credono camminare nello spirito di umiltà, senza che possano nemmeno resistere ai loro peccati, e salvare le loro anime, e che fantasticano di sapere i secreti arcani e di governare in ispirito tutto che sta sotto il cielo, e se anche cominciano coll’apparenza dell’umiltà, mirano sempre più alle cose terrene che alle celesti. Laonde, amando noi Dio di tutto cuore ed il prossimo come noi stessi, per amor di Dio, ti abbiamo fatto imprigionare come autore di zizzanie e poi per amore dell’anima tua, per curarla».
E più tardi «smettesse quelle stramberie, e qualunque fosse la sua origine, pensasse che tutti siamo creature di Dio, figli di Adamo e fatti di terra, ecc.».
Curiosa lezione di democrazia data da un re Boemo ad un ex-tribuno di Repubblica italiana!
Ma non gli servì, e quando, dopo tante sventure, riebbe una larva del pristino potere, grazie a denari carpiti con una vera truffa, ne avvisava pomposamente Firenze, aggiungendo: «che le donne, i ragazzi, i maschi, i chierici, i laici gli erano andati incontro con palme e olivo e trombe e grida di evviva».
Quei discorsi sembrarono così bizzarri, che il Re Zeffirino non possedendo i documenti poco sopra riassunti, dichiara falso il Polistore che vi accenna 14, fondandosi sul fatto che con tali pazze ed eretiche idee il Petrarca non avrebbe osato difenderlo, nè l’Imperatore l’avrebbe potuto favorire un solo momento, nè il Cola avrebbe potuto scrivere al cardinale Guido di Bologna, protestandosi innocente, e domandando di essere mandato al Pontefice, o essere ammesso al sacro Ordine Gerosolimitano, e che ad ogni modo avrebbe dovuto esserne fatta menzione in quei quattro capi d’accusa indettigli ad Avignone conservatici dall’Hoxemio, cap. V, 2, e dal Petrarca (Epistola 16, libro 13); nè da un’accusa documentata a quel modo egli avrebbe potuto lavarsi e non avrebbe potuto essere dichiarato, come fu poi da Innocenzo VI, fedele cristiano.
Ma che tutto ciò, per quanto inverosimile, fosse vero, risulta già, a priori, anche senza l’esame di quelle strane lettere e più strane circolari, da chi conosce la follia sempre progrediente di Cola, e che trionfava appunto per la sua audacia, e da chi sa che quei buoni boemi non furono tanto scandolezzati quanto intontiti (lo dice l’Anonimo, pag. 92) e stupefatti e commossi, poi anche, dalle sue ritrattazioni.
E quegli scritti furono confutati dai vescovi boemi con documento che si conserva, e poi ritrattati da lui stesso; e per una delicatezza, di cui gli storici non tennero abbastanza nota, non furono consegnati, integralmente, alla Corte Papale insieme alla persona del Tribuno, la cui condanna certo non poteva tornare gradevole nè utile all’ospite già costretto dalla politica a tradire la confidenza in lui riposta.
Psichiatria. — Egli restò, intanto, un fenomeno singolare, una specie di monolito in mezzo al deserto, e per gli storici un geroglifico: perchè non tanto la storia, quanto la psichiatria, potevano riescire a spiegarcelo compiutamente; la psichiatria che ci addita in Cola tutti i caratteri dei monomani: fisionomia e scrittura regolare; tendenza esagerata ai simboli ed ai giochi di parole; attività sproporzionata alla sua posizione sociale, ed originale fino all’assurdo, e che tutta si esauriva nello scrivere; senso esagerato della propria personalità che l’aiuta sulle prime fra la plebe, e supplisce alla mancanza di tatto e di abilità pratica, ma poi lo trascina all’assurdo; mancanza di senso morale; calma non alterata che dagli abusi dell’alcool, e dalle vive opposizioni all’avvicinarsi della demenza.
Giudizi altrui. — E qui mi preme si sappia non essere io stato il primo a giudicarlo alienato; l’avevano battezzato tale fino i suoi contemporanei, che lo dissero Re da teatro (Villani), ed il contemporaneo Anonimo che scrive (pag. 153):
«Poichè fu palesato che bagnato s’era nella conca di Costantino e che aveva citato il Papa, molto stette dubbiosa la gente e tale disse che era fantastico e pazzo».
E parlando della cerimonia in cui comparve con «un cappello tutto di perle con sopra una colomba pure di perle, ecc.,» aggiunge: questi vizi lo fecero stramazzare.
E Gibbon, commentando la tristissima lettera sui Baroni, aggiunge: «Che non poteva essere dettata se non da un pazzo o da un tristo».
Il gesuita Du Cerceau lo dipinge assai bene (Conjuration de Nicolas Gabrini, 1734, p. 28), come il potrebbe uno dei più moderni psichiatri.
«Rienzi è un genio difficile a definire, misto di virtù e di vizi, di talento e di incapacità, che sembravano in contrasto, ma che egli riuniva in istrano modo: era spiritoso e grossolano, furbo e semplice, ardito e timido, fiero e pieghevole, un’apparenza di saggezza e gravità lo faceva credere un politico profondo; ma gli sfuggivano dei tratti di bizzarria che subito lo facevano giudicare pazzo dalla gente di buon senso; capace delle imprese più temerarie, aveva una paura che non gliele lasciava compiere; avea troppo poco giudizio per comprendere gli ostacoli e troppa viltà per poterli vincere. La sua fierezza volgevasi ben presto in vigliaccheria, e i suoi colpi di politica, in bizzarrie deplorevoli, seppure la follia non ne era la causa. Il suo coraggio passava all’eccesso e poi si mutava in fiacchezza. La sua furberia era fondata sulla sua semplicità.
Credendo che il mondo reputasse vero tutto ciò che egli inventava anche fuor di senno, ne profittava per mettere in pratica le sue chimere più strane, e finiva per crederle egli stesso.
E così la sua ipocrisia partiva da una pazza sincerità, che gli faceva prendere per ispirazioni divine le bizzarrie che gli passavano pel capo. Del resto, era ambizioso fino a concepire il disegno di una monarchia universale: eloquente così da imprimere le sue idee nello spirito degli altri, non distingueva, o fingeva non distinguere, gli applausi ironici dai veri; conoscitore della storia antica, zelante a parole, e anche a fatti, della giustizia, ma in fondo artificioso e interessato, faceva servire ai proprii interessi ciò che immaginava di buono ed utile pel pubblico. Pazzo fino alla stravaganza, e sensato fino alla esagerazione della saggezza: nato pure per governare, ma non per governare a lungo, atto a fare una rivoluzione e iniziare un governo tirannico, non a conservarlo; insomma, uno di quegli ingegni che Dio manda, ogni tratto, per essere il flagello o la felicità dello Stato».
È più che non occorra questo giudizio per l’alienista! — Oh! se le nozioni psichiatriche son così scarse ora fra gli uomini di Stato ed i letterati, che non vedono la pazzia se non nella pretta demenza, quanto meno lo dovevano essere nei tempi antichi, in cui la psichiatria non era ancor nata e i pazzi erano o stregoni, o stregati, o profeti!!
L’opinione pubblica si è falsata, di poi, in proposito di Cola, grazie alla famosa ode dello Spirto gentil di Petrarca, che ora si provò non essere stata a lui dedicata, e dove infatti elogiava il suo più tenace nemico, il Colonna; gli è verissimo però che malgrado fosse legato col Clero d’Avignone e amicissimo dei nobili romani suoi avversari, Petrarca vide in lui un ideale di eroe classico; e lo inneggiò nelle sue lettere destinate già prima alla pubblicità, presso a poco come qualche democratico in guanti gialli inneggia, tra un pollo ed un tartufo bene ammanito, alle teorie di Lassalle e di Marx15. Ma gli era, sempre, un amore assai platonico, come quello sì poco consistente per Laura.
Infatti la passione politica non passa mai oltre all’invio di lettere e di commendatizie, salvo quando si dispose a mettersi in viaggio per vederlo di persona ed è notò che egli, poi, s’arrestò, a mezzo cammino, a Genova.
Il De Sade (Vie de Pètrarque, III, 317) osserva che in quell’anno in cui egli pareva tanto preoccupato di Cola, scrisse il maggior numero dei canti a Laura. Ed egli, il fautore di Cola, ha un gran numero di sonetti pei suoi più implicati nemici, i Colonna (il n° 30, 71, 45, 52, 77, 82, 281), e pone anzi la loro amicizia a lato dell’amore di Laura (227, 229). — Evidentemente la politica gli permetteva delle divagazioni, e di molte!
Quando lo seppe prigioniero in Avignone, è vero, scrisse ai Romani perchè si adoperassero in suo favore, il che essi non fecero: ma la lettera non era, come egli stesso confessa, firmata, il che proverebbe che l’entusiasmo non giungeva fino all’imprudenza.
Ed era, ad ogni modo, una specie di consorteria professionale, che parve ispirarlo: perchè l’argomento principale che assumeva a sua difesa era l’immunità concessa ai poeti: argomento che pare cogliesse nel segno, in quell’epoca in cui forse l’ignoranza grande aumentava il rispetto ai cultori delle muse. È probabile, anche, che egli mandassegli lettere così spesso, per riceverne anche altrettante, e soddisfare la sua vanità e la curiosità dei suoi Avignonesi.
Notisi, poi, che anche in quelle lettere non è escluso un cenno sulla sua poca prudenza e sulla sua follia.
»Tutti e due, parlando egli di Bruto e di lui, finsero di essere folli quando il fingerlo era necessario per coprire l’impresa e il talento; il primo fu sprezzato dai re ch’egli cacciava; voi vedete il secondo servire di trastullo ai tiranni (Lettera 1347, De Sade, vol. ii). «Ammiro, scrive a lui stesso, l’arte con cui vi esprimete per mettervi al riparo dai rimproveri; vi scongiuro di stare attento su questo punto.» Dunque egli dubitava della sua prudenza e finisce con una raccomandazione che pare proprio un rimprovero, e ben meritato, diremo noi: Far egli bene a tenere copia d’ogni sua lettera, acciocchè l’una non appaia in contraddizione coll’altra16 (Biblioteca di Torino, Codice 784, xxi).
Fatto è poi che non un motto di dolore gli sfuggì dal labbro, a proposito della sua infelicissima fine, salvo questa sola frase: «Credo che nel morire abbia rimpianto il carcere d’Avignone» (De Sade, 375, ii).
Frase punto compassionevole e anche niente verosimile, perchè nel morire, se pure a qualcosa, ha pensato a ben altro che alla sua carcere; ma che prova quanto fosse fredda e platonica anche questa amicizia Petrarchesca.
E ciò si prova dalle ripetute scuse ch’egli quasi chiede pei passati entusiasmi nelle Familiari. Quando la catastrofe era finita, egli scrive: «Io gli diedi lodi e consigli, il che è più conosciuto che io forse non vorrei».
«Io amava la sua virtù, approvavo il suo progetto, credeva (notisi la vanità) partecipare alla sua gloria», ecc.
«Devo io pentirmi d’avergli scritto lettere? Se volessi sopprimerle nol potrei, perchè son pubblicate. Confesso non si potrebbe punire abbastanza un uomo che non seguì con costanza ciò che si prefiggeva, che potendo distruggere d’un colpo i suoi nemici, nol fece, nè seppe approfittare d’occasioni che nessun imperatore ebbe sì propizie. Perchè cangiasse così tutto d’un tratto nol so. Scelse forse fra i compagni malvagi i più tristi».
Oh! da siffatti amici che ci guardi Iddio!
Note
- ↑ Vedi PERRENS, E. Marcel, 1880. — Démocratie en France dans le Moyen âge, Paris, 1875.
- ↑ Così l’Anonimo e Z. Re. Muratori vorrebbe leggervi juoco, il gioco: ma nemmeno così si può spiegare, perchè erano ben altri vizi che non il giuoco e l’invidia quelli che consumavano il patriziato d’allora.
- ↑ Anche dopo il primo plebiscito, Stefano Colonna nell’opporglisi disse: «Se questo pazzo mi fa arrabbiare, lo fo gettar a giù dal Campidoglio» (pag. 349).
- ↑ «In questi giorni usava a li mangiari» (Anonimo, pag. 37)
- ↑ Vedi Papencordt, Cola di Rienzo, 1844. — Gregorovius, Storia della città di Roma, VI, p. 267.
- ↑ Vi contribuì l’opinione pubblica facendone, nella sua ignoranza, come dice il Petrarca, un gran poeta; e quelli, bisogna pur dirlo, erano tempi in cui si aveva un maggiore rispetto delle opinioni che non forse ai nostri.
Chi più disse male dei tiranni italiani, romani in ispecie, di Dante e di Petrarca che furono loro ospiti! Chi sentì mai che Dante, Petrarca fossero scomunicati per le invettive così fiere contro la Corte Pontificia! Forse anche in quei tempi barbari la letteratura era circoscritta fra così pochi che poco influiva nella grande politica (nè molto si può dire vi contribuisca ora) e che la tolleranza poteva non essere altro che figlia di una giusta noncuranza — e anche di quella paurosa ammirazione che desta una cosa troppo rara. - ↑ «Dice che nella prigione l’aveano straniato (stregato?)» (Anonimo).
- ↑ Sin dopo pochi mesi del I° tribunato, si diè alle dapi succulenti, cominciò (scrive l’Anonimo, p. 92) a moltiplicare cene e conviti e crapule di diversi cibi e vini, ed agli ultimi del dicembre mise colore e carne assai e meglio manicava.
- ↑ Gaye, Carteggio inedito d’artisti, ecc. Firenze, 1839. — Hoxemio, Qui Gesta Pontificum, Tungrefium, etc. Leodii, 1822, II, pag. 272-514. — Papencordt, Cola di Rienzi. Amburgo, 1847. — Hobbouse, Historie Illustrat. of Childe Harold, 1818. — De Sade, Mèmoires de Pètrarque, III.
- ↑ Anche negli autografi troviamo cotidie per quotidie, Capitalo per Capitolio, patrabantur per perpetrabantur, speraverim per spreverim, michi per mihi; ho notato lo strafalcione da lui preso nello interpretare il pomoerium, il Circondario di Roma pel giardino d’Italia; il che tutto indica come non era punto precisa e punto completa la sua coltura.
Quanto alla calligrafa non troviamo nulla di particolare. Vedasi questa sua firma, che dò per coloro che credessero non esistere di lui pure una riga di scritto. . - ↑ Tra le sue bizzarrie abbiamo notato quella di farsi incoronare con 7 corone. E nei suoi sigilli v’erano 7 stelle e 7 raggi; solo nel 2° Tribunato divennero otto.
- ↑ I monomani, pur restando fissi nell’idea principale, variano, fin contraddicendosi nei particolari: così mi spiego che egli nel 2° Tribunato pretendesse, invece, di discendere da un suo bastardo, essendosi trovata presso il ponte Senatorio in uno scavo di una fabbrica restaurata, pare, da Rienzi, quest’epigrafe da lui dettata, secondo Gabrini, per esternare il suo vergognoso delirio: Nicolaus. Tribunus. Severus. Clemens. Laurentii. Teutonici. filius. Gabrinius. Romae. Senator, con timida allusione ad un tedesco che non era più Enrico, ma un suo bastardo. (Gabrini, Osservazioni storico-critiche sulla vita di Rienzi, 1706, pag. 96).
- ↑ Cola gli rispose: «Essere stato sedotto dallo spirito della superbia, e aver meritato la condanna scagliata contro di lui. L’angelo satanico che nelle selve l’aveva inebriato coi suoi pomi e gli aveva sconvolta la mente, essergli nuovamente apparso colle sue glosse; ma averne tosto reso consapevole il comune signore. Voglia l’arcivescovo pregare Iddio per lui, tenere secreti i suoi falli». — Ma, poco dopo, colle solite contraddizioni, in un’altra lettera, di cui non ci rimase che un frammento, autorizza l’arcivescovo a palesare ciò che aveva prima confidato a lui e al Preposito della cattedrale, sotto il suggello della confessione, quando ciò piacesse all’Imperatore, e spera che, siccome Ester aveva abbattuto i nemici dei Giudei mediante lo stesso Assuero, così Maria Vergine domerà, mediante l’Imperatore, i nemici infernali — con allusioni chiare ai suoi deliri ambiziosi, che evidentemente il carcere, come suole, acutizzava.
- ↑ Il Polistore (Collez. del Muratori, tom. IV, cap. XXXVI, pag. 819) racconta ch’egli, andato a Praga all’Imperatore Carlo, gli dicesse: «Esser ambasciatore di un frate profeta, il quale gli comunicò aver mandato nel mondo il Padre e il Figliuolo di Dio. Ora è tolta la possanza e data allo Spirito Santo, il quale deve regnare sul tempo che ha a venire, e che un altro messo del frate andrebbe a dire altrettanto al Papa, e che il Papa per quelle parole il farebbe abbruciare, ma egli risusciterebbe il terzo di per la virtù dello Spirito Santo. Per la qual cagione il popolo di Vignone correrebbe alle armi e ucciderebbe il Papa con tutti i cardinali, e poi fatto sarebbe un Papa italico, il quale rinnoverebbe la corte di Vignone e ridurrebbela a Roma.
«Il quale Papa manderà per voi, imperatore, e per me, i quali dobbiamo essere una cosa col detto Papa, il quale coronerà voi con la corona d’oro del reame di Sicilia, di Calabria e Puglia, e me coronerà di argento facendomi Re di Roma e di tutta Italia.
Quegli arcivescovi udendo quelle parole partironsi, dicendo che colui era uno stolto eretico. E fecero che il tribuno scrivesse tutto quello che aveva detto». Ora i documenti di Pelzel mostrano esattissimo il Polistore. - ↑ «Voi, che avete veduti i re ai vostri piedi, ora siete servi. Di chi? Di nobili venuti signori, scozzoni delle valli del Reno e dei Rodano; non ricchi se non perchè vi rubano. Discordi l’uno all’altro, in ciò solo s’accordano di derubarvi. E voi avete avuto i due Bruti! Il nuovo tribuno raccoglie le glorie dei due Bruti» (Rerum. famil. Epist.).
- ↑ E nel novembre, 29, quando cominciò a sentire la novella delle sue follie, gli scrive: «Ti bisogna piantare solido
il piede, e star fermo, e non offrire spettacolo ridevole ai nemici, lamentevole agli amici» (Familiari, VII, 7).
Al 25 novembre gli aveva scritto: «È più facile discendere che montare; non credo a quanto si dice di te; ricordati che sei ministro e non padrone della Republica. Ricordati chi fosti, d’onde venisti, e se non ti preoccupi della tua fama, preoccupati almeno della mia!» (Singolare prova dell’egoismo dei poeti!). «Non obbligarmi a veder finire in una satira lo sfoggio lirico delle tue lodi di cui è testimonio la mia penna».