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fero che ricordava i sette doni dello Spirito Santo». Concetto e parole assolutamente pazzesche in cui fa intervenire Dio a spegnere una famiglia di eroi per fare un tristo bisticcio in suo onore, egli, che poche pagine prima, con bugiarda ipocrisia, così tosto smentita dai fatti, aveva scritto: «Stando al nostro carattere, non volemmo impiegare la severità della spada, per quanto giusta, contro coloro che possiamo far rientrare in grazia senza danno della libertà, della giustizia e della pace».

Comica e pazzesca è pure la maniera con cui in altra lettera a Rinaldo Orsini (22 settembre 1347) orpella quel suo enorme errore di mettere in libertà i nobili arrestati poco prima con tanti inutili infingimenti. «Noi vogliamo che vostra paternità sappia come avendo giudicati alcuni nobili legittimamente sospetti al popolo ed a noi, piacque a Dio che cadessero nelle nostre mani (e noi sappiamo com’egli li aveva invece invitati). Noi li abbiamo fatti chiudere nelle carceri del Campidoglio; infine i nostri scrupoli e sospetti essendo stati levati, usammo di un innocente artificio (sic) per riconciliarli non solo con noi, ma con Dio. Perchè noi procurammo loro la felice occasione di fare una devota confessione. Fu nel 15 settembre che noi inviammo a ciascuno di essi dei confessori nel carcere, e come questi ignoravano le nostre buone intenzioni e credevano che noi saremmo stati severi, dissero ai nobili: «Il signor Tribuno vuol condannarvi a morte». La campana dei Campidoglio intanto suonava senza posa pel Parlamento; così i nobili spaventati si credettero perduti