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Fatto è poi che non un motto di dolore gli sfuggì dal labbro, a proposito della sua infelicissima fine, salvo questa sola frase: «Credo che nel morire abbia rimpianto il carcere d’Avignone» (De Sade, 375, ii).

Frase punto compassionevole e anche niente verosimile, perchè nel morire, se pure a qualcosa, ha pensato a ben altro che alla sua carcere; ma che prova quanto fosse fredda e platonica anche questa amicizia Petrarchesca.

E ciò si prova dalle ripetute scuse ch’egli quasi chiede pei passati entusiasmi nelle Familiari. Quando la catastrofe era finita, egli scrive: «Io gli diedi lodi e consigli, il che è più conosciuto che io forse non vorrei».

«Io amava la sua virtù, approvavo il suo progetto, credeva (notisi la vanità) partecipare alla sua gloria», ecc.

«Devo io pentirmi d’avergli scritto lettere? Se volessi sopprimerle nol potrei, perchè son pubblicate. Confesso non si potrebbe punire abbastanza un uomo che non seguì con costanza ciò che si prefiggeva, che



    il piede, e star fermo, e non offrire spettacolo ridevole ai nemici, lamentevole agli amici» (Familiari, VII, 7).
    Al 25 novembre gli aveva scritto: «È più facile discendere che montare; non credo a quanto si dice di te; ricordati che sei ministro e non padrone della Republica. Ricordati chi fosti, d’onde venisti, e se non ti preoccupi della tua fama, preoccupati almeno della mia!» (Singolare prova dell’egoismo dei poeti!). «Non obbligarmi a veder finire in una satira lo sfoggio lirico delle tue lodi di cui è testimonio la mia penna».