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(Vita, I, 32), e contro il Prefetto (id., I, 17). Negli affari più grandi credeva d’ascoltare in se stesso, per sogno od altro cenno, la voce di Dio, con cui si consigliava e a cui tutto riferiva.
Sostenuto dal prestigio di questa ispirazione, dettava anche leggi religiose, l’obbligo, per esempio, della confessione una volta l’anno, pena la perdita di un terzo dei beni. Nel momento in cui doveva credersi vicino a morire, nella carcere di Praga (lettera a fra Michele), reputava di essere vittima di macchinazioni diaboliche, o di ubbidire ai voleri celesti, per cui: «Bacio, scriveva, il chiavistello del carcere quasi un dono di Dio».
Contraddizione e delirio. — E non mancarono in lui le solite contraddizioni speciali ai pazzi. Egli, religiosissimo, si paragona senza esitare a Gesù Cristo, solo per la coincidenza di avere a 33 anni (l’età in cui G.C. salì in Cielo) ottenuto una vittoria; ma, dopo le patite sconfitte si paragona ancora a lui, con uno di quei giuochi di cifre comuni agli alienati, perchè era esulo 33 mesi alla Majella, proprio come poi Lazzaretti, in un eremitaggio selvatico, in mezzo a certi allucinati, seguaci dello Spirito Santo che gli profetarono la sua rivincita e l’impero anzi del mondo. - Prevalse sopratutto in lui il delirio megalomaniaco, il che spiega in gran parte queste contraddizioni. Ei credette di raccogliere in sè tutte le speranze d’un Messia d’Italia, che dovesse ristaurare niente meno che l’impero, anzi redimere il mondo! (Papencordt, doc. 83).
Un giorno si levò dal trono, ed avanzandosi verso i suoi fedeli disse ad alta voce: «Noi ordiniamo al
Lombroso, Tre Tribuni - 3. |