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e attendendo la morte si confessarono devotamente e fra le lacrime... Io poi ne feci gli elogi, ecc.».

Se questo può chiamarsi una felice occasione lascio al lettore il giudicarlo e giudicare se chi parla di ciò, anche in via diplomatica, come d’uno scherzo da nulla, possa dirsi un uomo d’integro senso morale.

Notisi poi che, diplomaticamente, una simile scusa, specialmente coi preti, che, essendo ed usando del mestiere, se ne intendono e ne sanno il valore, non era solamente inutile, ma mutavasi, anzi, in accusa gravissima. Nè meno strana è la sua conclusione: «Con ciò i loro cuori sono talmente uniti al nostro e a quello del popolo, che questa unione dovrà durare pel bene della patria, perchè così vedono che noi siamo imparziali e non vogliamo essere rigorosi quanto il possiamo».

Ma non finirono lì le inutili ipocrisie; egli probabilmente, messo in uzzolo da quella confessione dei patrizi, ordina (come accennai) che almeno una volta all’anno tutti i cittadini debbano confessarsi e comunicarsi, sotto pena di perdere un terzo dei beni, di cui la metà sarà data alla chiesa parrocchiale del reo e l’altra metà alla città. E i notai sono obbligati a fare la spia per ciascun testatore. Ora il Rienzi, in un poscritto a quella lettera (notisi, ripeto, questo ticchio dei poscritti in quasi tutte le sue lettere, che io ho trovato frequentissimo nei monomaniaci), dà notizia di questa sua nuova legge, aggiungendovi queste linee: «Ci parve decente che come un secondo Augusto cura l’incremento temporale della Repubblica, cerchi di favorirne, aumentarne il bene spirituale». Il che, a chi ci pensi, era un