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CAPITOLO II.
Era il 1330; Roma inabissava nel caos. «Ogni die (dice uno storico, Zeffirino Re, Vita di Cola, 1ª, pag. 5), si combattea; Rettori non ne avea: dov’era loco di vergini si vituperavano; le piccole zitelle si fiaccavano. Le mogli eran tolte al marito nel proprio letto, i lavoratori quando andavano a lavorare erano derubati alle porte di Roma. I pellegrini scannati». La pace (scriveva il Petrarca, Rerum famil., ii, Ep. 9, 1335), «è bandita da cotesti luoghi non so per qual delitto del popolo o legge celeste.
Il pastore invigila nei boschi, armato, più temendo i ladroni che i lupi: loricato è il colono. Nulla si tratta senz’arme. Qui non regna pace, non umanità, ma guerra, odio, e tutto ciò che assomiglia ad operazioni di malo spirito». I monumenti servivano di trincee ai nobili contro il popolo, che era impotente contro la loro tirannia, ringagliardita dall’aver essi dimora nell’agro su cui aveva speciale pretensione il pontefice. Per cui, nemmeno le rivoluzioni di piazza riuscivano a liberarnelo.