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frutto ne fu un enorme schiaffo che gli applicò un camerlengo della casa Colonna. Se la prese allora con un po’ più di calma, e cominciò prima a raffigurare, in quadri, le glorie antiche di Roma e le attuali miserie, dove gli omicidi, gli adulterii, i malfattori erano rappresentati da scimmie e da gatti, i giudici e notai corrotti da volpi e da vecchi, i senatori e i nobili da lupi e da orsi.

Un altro giorno mise fuori la tavola famosa di Vespasiano, e invitò il pubblico, compresi i nobili, ad una sua spiegazione drammatica; vestito d’una cappa tedesca con un cappuccio bianco, con un cappello pur bianco, cinto da molte corone, di cui una era divisa in mezzo da uno spadino d’argento, simboli bizzarri che nessuno sa interpretare, e che indicano già la sua mania (essendo caratteristico dei monomani il servirsene continuamente, come già dissi sopra, finchè finiscono a sacrificare alla passione dei simboli l’evidenza delle cose che vogliono raffigurarvi); e lì, applicando un po’ a suo modo il decreto del Senato che accordava diritto a Vespasiano di fare le leggi a suo gradimento, di aumentare o scemare i giardini di Roma e d’Italia (se fosse stato erudito avrebbe detto il circondario di Roma), di fare e disfare dei re, fece loro considerare in che tristo stato si trovavano: «Pensate che il giubileo s’approssima, e voi non avete viveri, nè provviste; finite le discordie, ecc.».

Ma insieme a questi teneva altri discorsi, per lo meno bizzarri. «So, per es., che si vuol trovare un delitto nei miei discorsi, e ciò per invidia; ma, grazie al Cielo, tre cose consumano i miei nemici: la lussuria,