Storia della rivoluzione di Roma (vol. III)/Capitolo X
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[Anno 1849]
Entriamo ora a parlare delle cose accadute in Roma nella seconda quindicina di marzo, epoca nella quale la repubblica romana se era odiata all’esterno, non era nell’interno stimata, e trovavasi esposta agli attacchi di una stampa ostile fra gli stessi suoi vagheggiatori. Proseguiva quindi, ma con passo incerto, nell’intrapreso cammino.
Quantunque per altro il detto periodo nulla ci presenti di veramente importante, nè atto veruno di carattere memorabile e grandioso, pure o per la qualità dei decreti o per la sequela non interrotta di disposizioni governative, ne obbliga a diffonderci in una infinità di particolari e di narrazioni, che mentre opprimono noi che scriviamo, affaticheranno pure i nostri lettori.
Coerenti dall’altra parte a quel che promettemmo in principio, di voler cioè quasi portare per mano i nostri lettori, affinchè possano tutto esaminare e conoscere, per quindi rettamente giudicare ed istudiare la nostra singolare rivoluzione nelle sue più ascose latebre, ci è forza di perseverare nel nostro proposito.
Incominciando pertanto dal 16 di marzo diremo che venne dal comitato esecutivo notificata la istituzione di una commissione di guerra, ed il 18 si fecer conoscere i nomi de’ membri che ne facevan parte. Eccoli:
Bartolucci presidente provvisorio | Zambeccari |
Giusti | Politi Corrado |
Pisacane | Antinori Orazio |
Cerroti | Faella Attilio |
Carducci | Orsini Felice |
Maubeuge (francese) | Filopanti Quirico.1 |
Ripetevansi poi le solite scenate per avvilire con dileggi ed inspirare disistima verso gli ordini religiosi, il quale divisamente suggeriva di dare la sera del 19 nel teatro Valle un balletto Una lezione ai neri, e i neri erano i Gesuiti.2 E come nel sistema cosmico degli antichi, o come base della etnica teologia, il genio del bene era rappresentato da Oromaze e quello del male da Arimane, così i neri rappresentavano in Roma il genio del male; quindi ai neri attribuissi un incendio che la sera del 19 si manifestò nel magazzino appartenente ai fabbricatori di carrozze fratelli Casalini, situato agli orti detti di Napoli. Ivi eran molti carri da cannone.3
Un foglietto che si stampò subito per riversarne, come dicemmo, la colpa sui neri, terminava così:
«La ditta Pio-Bombardatrice di Gaeta, se non la di struggete, non ci darà pace. Domani incendieranno anche le case nostre. Morte ai nemici della santa libertà dei popoli, e morte senza misericordia!»4
Se queste cose attribuivansi ai neri vediamo che cosa facessero gli ultra bianchi, ch’erano i loro nemici accaniti.
Narreremo il fatto accaduto al palazzo Farnese, ove la guardia nazionale ebbe il merito di ristabilire l’ordine; ma prima di far ciò diremo che il corpo della guardia civica o nazionale non ostante la intrusione di eterogenei elementi che ne viziaron la essenza, rimase in complesso un corpo onorato, nemico dei disordini, alieno dalle rapine, amante dell’ordine pubblico. Non si potrebbe al certo predire quali sconcerti sarebbero potuti accadere in una città come Roma, fatta in allora nido e adunamento di tanti torbidi elementi, se non avesse esistito quel corpo. Esso, è vero, non operò tutto il bene che avrebbe potuto, non fu il più saldo sostegno della sovranità bersagliata; però quanto alla tutela dei cittadini, risparmiò molto male che non si vide, ma che sarebbe accaduto inevitabilmente.
Nella notte adunque dal 18 al 19 marzo essendosi conosciuto dai più facinorosi del partito repubblicano che al palazzo Farnese sarebbersi abbassati gli stemmi reali, a preservazione d’insulti, o a pretesto di disordini, una mano di forsennati recossi a quel palazzo imprecando e vociferando, a colpi di pietre fracassandone i vetri, e minacciando in fine d’invadere e manomettere il palazzo medesimo.
Una pattuglia della guardia nazionale pronta accorse dal vicino quartiere del 7° battaglione, e con modi di persuasione anzichè di minaccia, riuscì non senza difficoltà a farli desistere, nè andò immune da rampogne e da accenti di sdegno per cosiffatta sua intromissione.
Solleciti si fecero nella mattina seguente i comandanti tutti del corpo civico di protestare energicamente contro quel fatto turpe e scandaloso; e si diressero al governo affinchè adottasse energiche misure a tutela della pace pubblica.
Una tale protesta venne inoltrata alle autorità governative dal generale di brigata, capo dello stato maggiore generale, Pietro De Angelis con una lettera che noi ad onor suo e del corpo che rappresentava, qui trascriviamo:
- «Al ministro dell’interno
N. 7884. | Li 19 marzo 1849. |
» Non posso dispensarmi dal rimettere a codesto ministero dell’interno l’acchiuso foglio firmato da tutti e singoli i comandanti i battaglioni della guardia nazionale.
» Eglino, con esso foglio, si fanno energicamente a reclamare il rigor delle leggi contro quei perturbatori dell’ordine pubblico, i quali, sotto aspetto di liberalismo, non cessano dal compromettere, con atti dannosissimi, la pubblica quiete, compromettendo anche la maestà del governo in faccia ai cittadini, e all’Europa intera.
» Quanto a me, unendomi ai loro sentimenti, chieggo un provvedimento in proposito; provvedimento che soddisfi i giusti reclami dei comandanti della benemerita guardia nazionale.
«Sicuro di conseguire quanto richieggo, vi auguro ogni prosperità.
» Pel comandante generale |
Omettiamo l’atto di protesta che potrà leggersi nel nostro Sommario.6 Riporteremo invece l’indirizzo del ministro Saffi del 20, col quale riprovava l’accaduto. Esso diceva cosi:
» Repubblica Romana
» in nome di dio e del popolo
- » Militi della guardia nazionale di Roma!
» Mentre il governo procedeva energicamente contro i pochi traviati, che cogl’impeti incivili delle loro passioni, turbando l’ordine e mettendosi innanzi alle leggi della Repubblica, ne offendono la dignità; una protesta generosa uscita dai vostri battaglioni, veniva a confortarci nella nostra amarezza; perocchè amarissima cosa è per noi il vedere da alcuni mal compresa la santa idea di libertà, e l’essere costretti a biasimare e punire la colpa, là dove non vorremmo che applaudire e premiare la virtù cittadina.
«Voi avete protestato sdegnosamente contro l’insulto fatto alla nazionale milizia dal piccolo numero di coloro, che insigniti dell’uniforme della medesima, sogliono mescolarsi ai tumulti di piazza, e convertire in insegna d’inquietezze e di scandali la divisa dell’ordine civile e della pubblica sicurtà, come è avvenuto in alcune arbitrarie inquisizioni, e violazioni della libertà individuale, e come l’altra notte avvenne sotto il palazzo Farnese.
» Militi cittadini! Questo magnanimo sdegno sta bene in petti romani. La devozione alle patrie leggi e la severa osservanza alla disciplina fecero onnipotente l’antica Roma nelle sue conquiste guerriere. Queste medesime virtù, poste a guardia del nuovo concetto di libertà e di giustizia universale, che voi siete tenuti a compiere sopra la terra, vi renderanno onnipotenti nelle morali conquiste, a cui la Provvidenza vi chiama.
» I moti violenti, i tumulti popolari, le romorose manifestazioni politiche, possono avere, o cittadini, motivo e significato in quelle forme di governo, le quali rilevano dal fatto arbitrario della storia e dalla volontà di pochi, e non dalla coscienza libera e spontanea del popolo. Essi moti sono in allora altrettante generose e necessarie espansioni di una più larga idea di civiltà. Ma quando il governo si compenetra perfettamente col sentimento e col diritto della nazione, quando il governo non è che l’attuazione ordinata e ben guarentita della volontà generale, come in una Repubblica democratica; i tumulti e l’invasione delle leggi, non possono essere che effetto di stoltezza, o di ostilità individuali mascherate sotto bugiardi e profanati nomi.
» Il governo della Repubblica non dee nè può lasciar compromettere la sua maestà, la sua forza morale, le sue convenienze a simili intemperanze; egli ha puniti e punirà i perturbatori, essendo risoluto a reprimere efficacemente le improntitudini da qualunque parte esse derivino. Sia detto una volta per sempre e per tutti.
» Per grande ventura, in questa luce di civiltà che illumina l’eterna Roma, fra questo popolo che tanto mantiene dell’antica virtù, siffatti inconvenienti sono assai lievi, e voi, militi nazionali, a cui sta profondamente scolpito negli animi l’onore del nome italiano, potete prevenirli assai di leggieri. Voi avete date, in molte gravi occasioni, solenni prove di attività, di unanime eooperazione, di disciplina in servigio della patria. Il governo confida alle vostre braccia la pubblica salute. Siate subordinati e concordi, pronti ed energici sempre nell’esercizio de’ vostri doveri, e a dissipare e impedire i disordini basterà solo l’autorità dell’esempio e la virtù morale della vostra presenza.
- » Roma li 20 marzo 1849.
- » Viva la Repubblica romana, viva l’Italia.
Abbiamo riportato il detto indirizzo per intero per constatare con una confessione officiale tanto il fatto dei disordini accaduti al palazzo Farnese, quanto gli atti che provocò, ed inoltre per sottoporre a’ nostri lettori un documento che giudicammo importante, perchè racchiudeva in un certo modo la professione di fede politica di uno dei capi del partito mazziniano, che pochi giorni dopo si trovò (come uno dei triumviri) alla testa del governo.
Dobbiamo ora dar luogo nelle nostre memorie ad un dispiacente episodio. Nel Positivo del 21 marzo, giornale scritto da monsignor Gazola, ed in quello successivo del 23 si ebbe la impudenza d’insinuare, sulla fede di un Russo, che il santo padre, da giovane, aveva appartenuto alla giovane Italia. Eccitò sensi di sdegno una calunnia così infernale. Il giornale il Costituzionale si fece in avanti e spezzò la sua lancia contro il Positivo negando recisamente il fatto e disfidando il Positivo stesso a produrne le prove. Il che non avendo avuto luogo la calunnia fu manifesta, e mai più non si parlò di questa invereconda e bugiarda asserzione. Ci saremmo astenuti dall’insozzare queste carte col racconto di tale bruttura, cui meglio ci sarebbe piaciuto d’involgere in un oblio sempiterno; ma i giornali ne parlarono, e lo stesso Santo Padre avendovi fatto allusione nella sua allocuzione del 20 aprile del 1849, ci siamo trovati costretti di narrare anche questo vergognoso episodio della nostra storia. 8
Intanto i fatti che occorrevano mostravano ognor più il disordine morale ch’esisteva, e provavano fino all’ultima evidenza che la tanto desiderata, acclamata e vantata libertà era conculcata ed oppressa. L’assemblea era disprezzata apertamente e giudicata peggio che inetta in cosi gravi momenti.
La Pallade difatti del 24, la Pallade ch’era tuttora il giornale più popolare di tutti, scagliava nel suo numero 503 contro la medesima le accuse di continuare ne’ suoi vaniloqui insipienti, di essere bambina di sapere e digiuna di ogni esperienza delle pubbliche cose. «Non dobbiamo a lei, diceva, questi uomini, che seggono di presente al governo dello stato, inabili ad eseguire quanto e più forse ch’essa non sia a deliberare; così che fra la inettitudine dei legislatori e la spregevole nullità dei governanti noi veggiamo la repubblica condotta a mal termine e quasi spirante sotto i colpi parricidi?» Si accusava quindi l’assemblea d’incuria manifesta per la guerra d’indipendenza, si accusava anche di aver tradito il popolo, e si applaudiva al progetto di scioglierla.9
Che cosa potrebbe dirsi di peggio contro nientemeno che i legislatori repubblicani ed i rappresentanti del popolo? E da chi? Dal giornale che ne rappresentava gl’interessi, e che professava i principi più ricisamente democratici e repubblicani?
Era inoltre attaccato e balestrato il governo, ed accusato d’inettezza e di mancanza di energia da alcuni foglietti volanti sotto il titolo di Svegliarino e sottoscritti da Un repubblicano dell’Italia centrale, i quali posson leggersi nella nostra raccolta.10
Che se ai disordini prenarrati si aggiungan quelli di cui ora parleremo, dovrà convenire ognuno che i governi popolari ne’tempi moderni, colla esistenza dei circoli, colla libertà della stampa, coll’assenza di principi religiosi, collo sbrigliamento delle passioni, colla cupidigia dell’oro, colia intemperanza di freno, colla disistima o il disprezzo verso il principio di autorità, e coll’amore smodato pel lusso e pei piaceri della vita, non solo non son mettersi ad effetto, ma che anzi il castigo ed il flagello il più terribile che il cielo sdegnato possa infliggere alla misera umanità, è nelle condizioni attuali della società) un governo retto a popolo.
Fra i disordini che abbiamo annunciato annovereremo quello che il cardinale De Angelis, secondo la Pallade,11 era stato tradotto nel forte d’Ancona; e se pur non voglia considerarsi come disordine il trasporto in fortezza di un cardinale di santa Chiesa, non è certo un indizio di civil temperanza.
Il giorno 26 di marzo venivano condotti in Roma carcerati dai civici di Sant’Oreste il segretario del cardinal Ferretti ed una guardia campestre del marchese Canale, accusati entrambi di progetti di reazione anti-repubblicana.12
La Pallade stessa veniva posta sotto processo pel suo articolo del 24 contro l’assemblea.13
Il direttore di polizia Meucci trovavasi costretto di emettere due ordinanze, una delle quali il 27 contro i civici ch’eransi abbandonati ad arbitrarie requisizioni domiciliari, l’altra il 28 contro gli osti, i locandieri, e gli albergatori, i quali in ispreto della legge trascuravano di dar l’assegna delle persone da loro alloggiate.14
Il 30 veniva condotto in Roma arrestato monsignor Bocci suffraganeo di Civitavecchia, unitamente ad un tal Simeoni.15
Conducevasi in castel sant’Angelo il 31 il tenente colonnello dei reduci Luigi Grandoni.16
Di quei giorni inoltre un tale Giovanni Battista Mastrella inviava all’assemblea un suo opuscolo intitolato così:
G. B. Mastrella, All’assemblea nazionale romana — Provvedimenti onde salvar la repubblica. Roma, 1849.
Era un opuscolo in-8. di 28 pagine.
Sentano poi i nostri lettori qual sorta di dottrine con esso diffondevasi.
Nella prefazione si diceva che fin dall’aprile dell’anno precedente 1848, l’autore, quando tutti facevano echeggiare gli evviva in favore di Pio IX e di Carlo Alberto, aveva pubblicato un opuscolo stampato nientemeno che in cinquecento esemplari e diffuso nel pubblico. In quell’opuscolo inculcava la necessità della repubblica. Il primo mezzo poi che proponeva per salvar la repubblica, nell’altro opuscolo diretto all’assemblea nazionale romana, era, come alla pagina 6ª il seguente:
«Colle più rigorose ricerche si prendano dove si trovano tutti i danari e gli oggetti d’oro e d’argento, che si possano fondere per coniare moneta; e qualunque altro oggetto prezioso, e quadri, e statue, ed antichità, e mobili di qualche pregio, e bestiami, e tutto ciò che si può vendere al pubblico incanto, e se ne contraccambino i possessori coi beni usurpati dal clero. E nell’eseguire questa disposizione avverto, che non si debbe avere riguardo alcuno alla estrazione delle antichità, qualunque ne sia il valore di stima, perchè quando la patria è in pericolo, un sacrificio che contribuisca a salvarla, per grande che sia, non è mai sì grave, che meriti di essere messo in dubbio per farlo. Si consideri che, se lo straniero invadesse lo stato, si farebbe di tutto padrone, e trasporterebbe ogni cosa, ove più gli piacesse, come tante altre volte è accaduto. Non tele o tavole inverniciate; non sassi antichi e moderni fanno la felicità de’ popoli, ma libertà e giustizia. Lungi dunque l’idea che codesti ornamenti sieno a noi necessari per essere in tempi di pace un’esca alla curiosità degli stranieri, e quindi tornarne a noi molto vantaggio per la loro venuta.»
Propone più sotto l’abbassamento del prezzo del sale; quindi soggiunge:
«Sieno confiscati i beni a tutti quei possidenti che fuggono, o che nascondono od involano altrimenti il danaro e i detti oggetti, e sieno riguardati quali nemici della patria; e se si prova che il danaro e i menzionati oggetti sottratti giungessero al valore di scudi mille, sieno ancora esiliati dallo stato.
» Sieno però eccettuati da questa straordinaria disposizione tutti quelli che, non essendo obbligati a mantenere alcun parente, non posseggono oltre ai cinquemila scudi; ugualmente si eccettuino coloro che, obbligati a mantenere parenti, non posseggano più di scudi diecimila: ma non sieno da questa legge eccettuati gli usurai, e gl’incettatori di commestibili, che, pei loro ladroneggi, tollerati od ammessi da leggi ingiuste, sono cagione del caro prezzo dei generi di prima necessità. A costoro, tuttochè non fossero possessori di beni immobili, tanto agli uni, che agli altri bisogna togliere tutto il danaro e dar loro beni del clero; e tutti quelli che lo nascondessero, dalla somma di scudi cento in poi, scoperto che ciò sia, si confischi loro ogni cosa, e sieno immediatamente esiliati, e ritornando nello stato furtivamente, sieno impiccati nelle prigioni ec.»
Alla pagina 12 a parla della necessità di mettere in piedi un esercito di sessanta mila uomini per mezzo della coscrizione. Quindi propone l’accusa pubblica, e la creazione di un dittatorato o comitato di salute pubblica composto di dieci individui, come ebbe luogo in Francia per salvar la patria. 17
Accostumati noi a riguardare con occhio di orgoglio, di stupore, di ammirazione, quegli oggetti e monumenti delle arti antiche e moderne, che formano la gloria e lo splendore di Roma, e godenti in veder tributarsi a loro tale una venerazione, che di poco dal culto si discosta, egli è a stento che possiamo raffrenare il nostro sdegno sentendo o leggendo stampate proposizioni d’indole sì selvaggia e brutale.
E che? Non altra qualifica dovrassi attribuire alla Trasfigurazione di Raffaello, alla Comunione del Domenichino, all’Apollo di Belvedere, al Laocoonte, al Perseo di Canova, alle Colombe del Campidoglio, al Mosè di Michelangiolo Buonarroti, che quella di tele o tavole inverniciate, di sassi antichi e moderni; meritevoli perciò di esser venduti al primo offerente per una vil moneta? E non son desse tali opere dell’umano ingegno che servono ad estollere e nobilitare la specie umana?
Nè si creda già che chi si orrende bestemmie pronunziava fosse uno dei repubblicani oscuri, o le cui idee venisser dagli altri suoi compagni ripudiate. Si apra il numero 1 del Tribuno,18 e si rinverrà che il Mastrella faceva parte del comitato dei circoli italiani in Roma per la Costituente italiana, e che ivi siedeva in compagnia dell’Agostini, dello Scifoni, del Guerrini, del Vinciguerra, di un Pompeo di Campello, dei Pompili, del Dall’Ongaro, di Antonio Torricelli e del Ciceruacchio, sotto la presidenza di Filippo de Boni e la vice presidenza di Atto Vannucci.
Si deduca da ciò qual condizione era riservata alla povera Roma, ove il partito esagerato dei puri repubblicani italiani avesse preso il sopravvento, e fosse pervenuto a reggerne le sorti.
Ripiegandoci ora di qualche giorno in dietro veniamo a parlare della guerra italiana.
Conosciutasi in Roma il giorno 17 la denuncia della cessazione dell’armistizio, non mancò il Mazzini di esercitare per cosa di sì grave momento la sua eloquenza nella riunione dell’assemblea del giorno seguente. Parlò difatti con tal calore della guerra imminente e de’ sacrifici che reclamava da chi sentivasi battere in petto un cuore italiano, che al termine del discorso una pioggia di oro scese dalle tribune. Eran le donne ivi assistenti che privavansi per la repubblica de’ loro orecchini, fermagli ed anelli. Il Monitore che ci racconta il fatto aggiungeva che questo primo tratto non lo sorprese nella patria delle Cornelie. 19
Il giorno 20 poi il ministro delle finanze Manzoni recossi al banco Torlonia ed acquistò delle cambiali pagabili in Londra per L. 2,500 sterline a favore della casa inglese Anthony e comp. per pagare una commissione di fucili alla medesima conferita per mezzo dello stesso Anthony che in quei giorni era venuto in Roma da Malta, e si abboccò per detto affare con me che scrivo. Le armi spedironsi effettivamente in seguito, e furon quelle che in sui primi di maggio giunte a Civitavecchia, vennero sequestrate dal generale Oudinot che comandava la spedizione francese negli stati romani.
Parve in quel tempo che l’assemblea ed il governo si scotessero dal letargo vergognoso in cui giacquero per quasi due mesi. Adottarono è vero taluni provvedimenti, ma quando avrebbe potuto giungerne in tempo l’attuazione, le sorti italiane eran già decise.
Il primo atto fu un bando dell’assemblea del giorno 21 il quale diceva:
«Il cannone italiano, annunzio di battaglie e di riscatto, tuona di nuovo nelle pianure lombarde. All’armi.
» Tempo è di fatti non di parole! Le schiere repubblicane insieme alle subalpine, e all’altre italiane combatteranno: non sia fra loro gara che di valore e di sagrifizî. Maledetto chi nel supremo arringo divide dai fratelli i fratelli.
» Dall’alpi al mare non è indipendenza vera, non è libertà, finchè l’Austriaco conculchi la sacra terra.
» La patria domanda a voi uomini e danaro. Sorgete e rispondete all’invito. All’armi, e Italia sia.
» Roma, 22 marzo 1849.20»
E a questo bando seguiva un ordine al ministro delle finanze di pubblicare ogni 15 giorni lo stato delle rendite e delle spese «tanto più adesso che la guerra per l’indipendenza chiede rilevanti spese e sacrifici.21»
E con altro mobilizzavansi 12 battaglioni della guardia nazionale, in vista sempre della guerra.22
E per la guerra d’indipendenza ordinavasi un battaglione di finanzieri.23 E ponevasi il battaglione universitario a disposizione del ministro della guerra.24 Mettevansi pure a disposizione dello stesso ministro i carabinieri.25
L’assemblea decretava il 25 un triduo alla Divinità in Roma e in tutto lo stato, ad inaugurare colle benedizioni del cielo la guerra italiana. Il comitato esecutivo notificava ciò in data del 26, ed inserivasi nel Monitore del 28.26
Ma mentre il 28 crederasi in Roma di propiziarsi il cielo con tridui e preghiere a favore della guerra italiana, la guerra era già decisa da vari giorni, e non gl’Italiani ma gli Austriaci eran rimasti vincitori. La battaglia di Novara del 23 avea posto fine alla guerra, come racconteremo più sotto.
Queste tarde disposizioni del governo per prender parte alla guerra attestano e confermano ciò che noi sostenemmo nel capitolo precedente, cioè che a tutto pensavasi fuori che alla guerra dell’indipendenza; e che la repubblica romana era idoleggiata quasi al punto ch’essa fosse tutto, e che lo stabilimento di un governo puramente democratico in Roma fosse di per se solo atto ad assicurare la indipendenza che nell’Italia subalpina andavasi colle armi a propugnare.
I repubblicani di buon senso e di buona fede accusavano apertamente il governo per tanta incuria, quasi che si fosse fatto giungere l’acqua alla gola prima di parlare di armi e di armate, o di disposizioni bellicose. Le accuse eran giuste purtroppo, le date parlano da per loro, ed una delle ragioni principali che consigliavano questa incuria risiedeva nell’odio che i repubblicani portavano al governo del Piemonte e a Carlo Alberto che n’era il capo.
Sentiamo i lamenti che a questo proposito venivan fatti dalla Speranza dell’Epoca del giorno 27:
«Ieri il rappresentante del popolo Pietro Sterbini, manteneva all’assemblea, che non si dovessero inviare le nostre truppe in Lombardia se prima il governo di Piemonte non dichiarasse di riconoscere la Repubblica romana. A questa opinione noi non avremmo neppur tolto a rispondere, se per più d’un lato non ci fosse riferito, tale essere la sentenza del comitato esecutivo o almeno di taluno de’ suoi membri. Per vero dire noi non vogliamo ancora credere alla realtà di un tale racconto. Troppo in vero, troppo ne sarebbe grave il vedere il nostro paese, il nostro governo in sì basso stato caduto da mercanteggiare e patteggiare, quando si tratta dell’indipendenza italiana.»
E più sotto, in un altro articolo:
«E pure il governo di Roma, un governo che proclamò come migliore la forma repubblicana, risponde a bassa voce all’appello dell’Italia, e per nulla spiega quell’energia che è indivisibile dalla grande occasione, e senza la quale tutto è in pericolo. Non è tempo di simulazioni. Mentre l’immensa maggioranza del popolo non vive che di un pensiero, di quello dell’indipendenza, senza la quale ogni libertà diventa problema, v’hanno degli uomini i quali idoleggiando la forma repubblicana, a questa subordinano tutto. Quindi nella vittoria dell’armata piemontese, in quella di Carlo Alberto veggono la minaccia di un pericolo al principio che hanno inaugurato in Poma!! Noi ormai non facciamo più le meraviglie di nulla, perchè non v’ha errore che non crediamo possibile.»
E appresso:
«Chi non s’accorge che la proposta fatta oggi, tende ad attraversare la speditezza delle operazioni” di guerra? Si va sussurrando da altri che il nostro contingente d’armata non deve passare il Po se non quando il Piemonte abbia officialmente riconosciuto la repubblica quasi che si trattasse di guerra piemontese e non di guerra italiana!...
«Noi conchiudiamo: i popoli non s’ingannano; guai a chi lo tenta! Noi vogliamo essere prima di ogni altro Italiani.»27
Questo linguaggio acerbo so vuolsi, concorda con ciò che noi abbiam sostenuto nei capitoli antecedenti. Ma le accuse non erano mal fondate, perchè il governo in Roma alla fine si scosse è vero, ma a cose terminate. Il 20 si commettevano le armi, il 21 si adottarono temperamenti d’indole bellicosa, il 25 si ordinava il triduo alla Divinità per la inaugurazione della guerra italiana, ed intanto fin dal 23 colla battaglia di Novara le sorti degl’italiani eran decise a loro danno.
Finalmente dopo vari giorni di febbrile ansietà, giunsero il 29 le prime notizie della sconfitta delle armi piemontesi.
Risultava dalle medesime che il generale Ramorino che guardar doveva il ponte sulla destra del Po a Mezzana-Corte, abbandonato il posto all’apparire degli Austriaci, lasciasse ad essi libero il passaggio, ovvero che non obbedisse all’ordine che ricevette il 16 di occupare il 20 la Cava con tutta la sua divisione. Fatto si è che gli Austriaci passarono liberamente, tagliando così la linea dei Piemontesi. Il Ramorino subì un processo perla sua mancanza, ed al processo seguì la fucilazione.
Questa fucilazione secondo le memorie dei veterano austriaco non fu meritata in tale circostanza, perchè il Ramorino fu ingannato dalle mosse degli Austriaci.28 Lo stesso generale però era reo della tentata invasione della Savoia colle orde di Mazzini nell’anno 1834.29
In una parola gli Austriaci ingannando i Piemontesi con finte marcie, fecero una punta nel Piemonte e passarono il Ticino. Il 22 batterono due divisioni piemontesi, ed il 23 dettero la famosa battaglia di Novara, nella quale l’armata piemontese fu pienamente sconfitta. Il re abdicò in favore del figlio il duca di Savoia, e partì, si credette, per Nizza in compagnia soltanto di due domestici.
Il giorno seguente alla disfatta dei Piemontesi ebbe luogo un abboccamento fra il nuovo re Vittorio Emanuele ed il maresciallo Radetzky, e l’armistizio fu concluso.30
Eran quei tempi eccezionali; lo dicemmo più. volte e ora lo confermiamo perchè ad ogni istante ce ne vengono nuove prove somministrate. Dicemmo pure, e questo ancor confermiamo, che Roma era divenuta la calamita di tutti i mestatori politici, di tutti i novatori di buona e di mala fede, e degli utopisti, e dei sognatori, e di tutte le teste bislacche, le quali a Roma come ad un mercato di politici rivolgimenti ratte confluivano.
Era fra questi un sacerdote lombardo, dotto latinista, per nome don Giuseppe Corà, al quale, causa o pretesto la lingua latina, era riuscito di traforarsi nel convitto dei Canonici regolari lateranensi di san Pietro in Vinculis, e da quanto sapemmo in seguito, vi dava lezioni di latino all’aperto, di repubblicanismo copertamente.
Venuto essendo il suo tempo, se gli era montata la testa sì fattamente che non seppe resistere, e diesai a pubblicare il 18 marzo un indirizzo da esso sottoscritto Il repubblicano sacerdote Giuseppe Corà, e intitolato All’indolenza de’ sacerdoti, ove li rampognava perchè non mostravansi caldi repubblicani. Eccone alcune parole:
«E tanto più dovete rompere il vostro troppo lungo e forse anche vergognoso silenzio, perchè le vostre parole devono manifestare fondamentali e luminose verità, opportunissime a togliere le male intelligenze, che lasciano supporre che i sacerdoti o per ignoranza o per nequizia non siano col popolo, ma contro il popolo, e le sue libertà. No, no davvero, alzerò io la voce pel primo, benchè mi sento idoneo meno di ogni altro, no, no davvero che i veri sacerdoti non sono contro il popolo, nè contro le sue libertà e la sua indipendenza. I sacerdoti veri sono e devono necessariamente essere i più validi propugnatori de’ sacri diritti del popolo. E perchè no? Essi, nella massima parte, nati dal popolo, educati pel popolo, mantenuti dal popolo, viventi fra il popolo, non possono essere e non sono che a favore del popolo.31»
Siccome però nel giornale l’Epoca il nome Corà era stato scambiato in quello di Corsi, si dette a pubblicare subito il 22 un altro indirizzo per rettificar l’equivoco. In pari tempo ribadiva il chiodo con forza maggiore, e ne diceva delle belle proponendo di divenir tutti soldati per non ritornare vittime del croato. Crediamo prezzo dell’opera il riportarne l’ultimo brano il quale potrà dare un saggio del fanatismo clerico-repubblicano.
«Repubblica romana! non lasciare i tuoi figli esposti al pericolo imminente di tanti disastri, per effetto di mal inteso amore materno. Ricordati che, in certe circostanze, la madre più amorosa si mostra severa e saturata, col fare altamente piangere i suoi figli, ma dalle loro lacrime passeggiere fa nascere la salute e la contentezza di tutta la loro vita. Repubblica romana. Dio ti tenga l’onnipossente sua mano sul prediletto tuo capo, e non permetta, non permetta che venga mai tempo, in cui morendo possa pentirti di non avere operato quanto potevi operare a salvamento di te stessa, e de’tuoi affettuosi figliuoli. Repubblica romana! Dio ti benedica, ti amplifichi, ti faccia gloriosa ed eterna, dandoti lume d’approfittare alacremente e instancabilmente di tutta l’energia ch’Egli ti concesse con larghezza fino dai primi giorni del tuo nascimento.»32
Si vede poi chiaro che il Corà non fu in Roma repubblicano dopo la repubblica, ma ch’era invece uno di quelli della vigilia, perchè due signorine che avevanlo conosciuto in Firenze gli diresser due lettere in senso più che repubblicano, rallegrandosi della repubblica che esse avevano in Firenze, e di quella di cui il Corà godeva in Roma.
Le dette due lettere furon riportate dal Cassandrino repubblicano del 31 di marzo e del 3 aprile 1849.33 E siccome ci sembrano scritte da due repubblicane di buona fede, colte e rispettabili per rapporti sociali, una delle quali già s’impensieriva pe’ guasti che il movimento repubblicano toscano incominciava a produrre alla religione, così crediamo di riportarle entrambi in Sommario.34 E basti del Corà.
Ora non sarà inopportuno di rammentare che fra gl’inviati della repubblica romana all’estero vennero eletti il cittadino Carlo Saltara a rappresentante presso il governo di sua maestà ellenica,35 ed il cittadino Ubaldo Marioni presso sua maestà britannica.36
Fra i decreti poi di vario genere emanati nella seconda quindicina di marzo son pure da menzionare i seguenti:
Quello del 18 marzo col quale si stabiliva che tutti i rappresentanti, i quali senza permesso si tenevano assenti dall’assemblea, dovessero farne richiesta entro il termine di otto giorni, spirati i quali, s’intendesse avvenuta la loro rinuncia.37
Altro del detto giorno per ordinare che tutti i cittadini dai 18 ai 55 anni facesser parte della guardia nazionale, e per dichiarare mobile, ed organizzare immediatamente tutta la guardia nazionale da’ 18 ai 30 anni.38
Il 20 promulgavasi un ordine del ministro dell’istruzione pubblica Sturbinetti per l’abolizione del privilegio esercitato dal collegio dei pronotari apostolici circa il conferimento delle lauree.39
Si emetteva poi dal governo una dichiarazione di non riconoscere i passaporti rilasciati dai nunzî pontifici all’estero, perchè destituiti di ogni rappresentanza politica e diplomatica.40
Eran padroni i governanti di Roma di non riconoscere i passaporti rilasciati dai nunzî pontifici all’estero; ma motivarne la ragione, e dire ch’eran destituiti di ogni rappresentanza, sente troppo del ridicolo. E chi avevali destituiti? La repubblica. Ma la repubblica non era riconosciuta da governo alcuno, mentre tutti i governi, col tenere i loro rappresentanti a Gaeta, dicevan chiaro che continuavano a riconoscere il papa come sovrano di Roma, e quindi nei nunzi i suoi rappresentanti presso le loro corti.
II giorno 21 in seguito della dimissione del preside di Civitavecchia Bucciosanti, vennegli sostituito il toscano Michele Mannucci,41 il quale pubblicò nel 1850 la storia dei suo governatorato in Civitavecchia sotto il titolo seguente: Il mio governo in Civitavecchia, e l’intervento francese. Torino 1850, un volume in-8.42
Si dispose il detto giorno, che le elezioni del Consiglio municipale già varie volte protratte, venisser differite ancora al 15 di aprile.43
Il giorno 22 il ministro della guerra Campello emetteva un ordine del giorno per sostituire la gorgiera colle insegne repubblicane alla sciarpa d’origine tedesca.44
Innalzossi lo stesso giorno lo stemma repubblicano sulla facciata del palazzo dell’assemblea.45
Il Monitore del 24 riportava una circolare dell’assessore del ministero dell’interno G. De Angelis, del 21, colla quale prescrivevasi che la intestazione degli atti notarili fosse d’ora innanzi In nome di Dio e del popolo. — L’anno primo della Repubblica romana — dell’Era volgare 1849, il giorno.......46
Il comitato esecutivo promulgò inoltre altro decreto in data del 23, per aprire un credito addizionale di scudi 18,000 a favore del ministro del commercio sull’esercizio del 1849 per i lavori della basilica di san Paolo.47
Ordinavasi il 25 dal ministro dell’interno Saffi che il borgo di Tossignano venisse appodiato ed unito alla città d’Imola.48
Dirigeva il 26 di marzo il ministro dell’istruzione pubblica Sturbinetti tre circolari relative al battaglione universitario che erasi mobilizzato affinchè potesse prender parte alla guerra della indipendenza italiana.49
Il Monitore del 27 riportava quattro ordini del giorno del ministro della guerra Calandrelli, il primo del 24, gli altri tre del 26, e coll’ultimo di questi si nominava una commissione per esaminare le dimande degli aspiranti alla carriera militare e scegliere i più idonei. Essa era composta dei cittadini:
Luigi Bartolucci generale comandante la prima divisione militare, presidente,
Camillo Gaggiotti intendente generale,
Ludovico Calandrelli tenente colonnello,
Giovanni Pietro Ruggeri tenente colonnello,
Carlo Galassi maggiore,
Pietro Scarsella maggiore,
Pio Branchini capitano,
Pietro Trasmondi capitano,
Olimpiade Meloni tenente, segretario.50
Il 28 si pubblicò altro decreto del comitato esecutivo in data del 25 per proibire alle casse dell’erario di far pagamenti con autorizzazione particolare in conto sospeso.51
Altro decreto si emise il detto giorno, col quale dichiararonsi valide le deliberazioni dei Consiglio di liquidazione del debito pubblico quando intervengono tre votanti.52
In quel giorno inoltre emanavasi dal comitato esecutivo un altro decreto per convertire in una sola specie di boni senza frutto tanto le quattro categorie di boni di
scudi | 2,500,000 | emessi con chirografi pontifici, |
» | 600,000 | con decreto del Consiglio dei deputati, |
» | 600,000 | con ordinanza della commissione provvisoria di governo,
|
» | 200,000 | emessi dalle rappresentanze governative, provinciali e comunali nella città e provincia di Bologna; quanto la somma di |
» | 251,595 | frutti che sarebber decorsi sulle dette categorie di boni fino alle stabilite scadenze di questi, e che risparmiavansi stante la loro conversione in una sola specie infruttifera.53 |
Sotto il detto giorno il comitato esecutivo della repubblica dichiarava sciolto il corpo delle guardie nobili, ed invitava gl’individui al medesimo ascritti di far valere i loro titoli per le giubilazioni a termini di legge.54
Un ordine inoltre del comitato esecutivo emanavasi il 28 per togliere la truppa di linea dalla dipendenza dei presidi, e porla sotto gli ordini del ministro della guerra.55
Ordinavasi in detto giorno che il tribunale di appello dovesse incominciare a tener le sedute il giorno 29.56
E pubblicavasi pure un ordine del giorno in data del 27 del ministro della guerra contro i fornitori di foraggi.57
Decretavasi il 29 la restituzione ai popolo veneto del palazzo di Venezia abituale residenza degli Austriaci ambasciatori. 58
E con decreto del comitato esecutivo ponevasi la bandiera italiana col leone di san Marco al palazzo stesso, in seguito dello esservisi installato l’incaricato di affari di quella repubblica G. B. Castellani.59
Pubblicavasi inoltre la istituzione fin dal 27 di una cancelleria pel tribunale supremo.60
Ed altro decreto del 28 si emanava per parte del comitato esecutivo affinchè nessuno fosse tenuto a ricevere ne’ pagamenti oltre a scudi cinque di moneta erosa.61
Il 29 marzo decretavansi pensioni di scudi sei mensili ai feriti nella guerra della indipendenza inabili al lavoro.62
Ed il detto giorno con una circolare del ministro delle finanze Manzoni davansi talune disposizioni sui preventivi e consuntivi quindicinali.63
Un proclama del generale Arcioni comandante la prima legione italiana chiamava i giovani ad arrolarsi per combattere contro gli Austriaci.64
Il giorno antecedente però, come abbiamo già accennato, eransi avuti sentori di notizie disastrose sulla guerra di Lombardia. Se ne parlò nell’assemblea e ne fu commossa, tanto più che alcuni deputati per lettere particolari avean ricevuto notizie sconfortanti. Nello sbigottimento generale che invadeva gli animi tutti, fecersi delle interpellanze al ministro degli affari esteri, ed esso ne confermd la gravità. Grida di viva la repubblica, viva la guerra, pronunciaronsi, ed il Mazzini, salito in ringhiera, rincorò gli animi abbattuti, ed inculcò raddoppiata energia ne’ gravi e solenni momenti in cui versavano la repubblica e l’Italia. A rinfocolare vie maggiormente l’assemblea e tribune surse lo Sterbini. Parlò della insurrezione in massa che invadeva la Lombardia, parlò d’insurrezioni suscitatesi nelle Puglie e nella Terra di Lavoro, non che di esservi stata proclamata la repubblica. Sperare negli Ungheresi, essere prossima la unificazione colla Toscana, non essere le cose a tal punto da doversi abbattere di animo, esservi anzi a sperare per la salute d’Italia.
E in seguito di questi dibattimenti riunitasi l’assemblea in comitato segreto, e riconosciuta la necessità del concentramento del potere, formulò il decreto per la formazione di un triumvirato. Questo decreto fu affisso al pubblico il giorno seguente 30 marzo, e diceva così:
«Repubblica romana
» In nome di Dio e del popolo
- » L’assemblea costituente
» Considerando che nella gravità delle attuali circostanze è necessario di concentrare il potere senza che l’assemblea stessa sospenda l’esercizio del suo mandato;
Decreta:
» Art. 1. Il comitato esecutivo è sciolto.
» Art. 2. È instituito un Triumvirato, cui si affida il governo della Repubblica.
» Art. 3. Al medesimo son conferiti poteri illimitati per la guerra della indipendenza, e la salvezza della Repubblica.
» Roma, 29 marzo 1849.
» Il presidente
» G. Galletti.
» Il segretario Fabretti.»65
Per siffatto modo si trovò un mezzo termine di riconcentrare il potere nelle mani del triumvirato, di cui il Mazzini sarebbe stato sempre l’anima, la vita e il primo motore, senza distruggere l’assemblea che molti avrebber voluto abbattere del tutto.
Primo atto del triumvirato fu quello d’informare il pubblico di questo cambiamento con un bando che diceva così:
«Repubblica romana.
- » Cittadini! fratelli!
» I casi della guerra d’indipendenza e le nuove sfarorevoli dell’esercito piemontese hanno fatto sentire all’assemblea l’urgenza d’un concentramento di poteri e d’una energia raddoppiata per provvedere alla salute e all’onore della Repubblica.
» Un Triumvirato è stato scelto. La missione onorevole è caduta su noi; e nel nome di Dio e del popolo, col concorso dell’assemblea e colla fiducia operosa dei buoni, noi sapremo compirla.
» Eletti dall’assemblea costituente repubblicana, e parlando a un popolo repubblicano, noi non abbiamo necessità di programma. Il nostro programma sta nel nostro mandato. Mantenere la repubblica; preservarla a ogni patto da qualunque pericolo s’affacciasse dall’interno o dall’estero; rappresentarla degnamente nella guerra dell’indipcndenza: questo è il debito nostro, e questo faremo. Noi abbiamo fede nel popolo; e il popolo abbia fiducia in noi, e ci giudichi dall’opere nostre.
» Cittadini, i casi della guerra iniziata possono esserci argomento di dolore, non di sconforto. Il primo è santo; il secondo sarebbe indegno d’un popolo libero. I vantaggi d’un nemico che distendendo il suo campo di operazione indebolisce le proprie forze, possono da un giorno all’altro preparargli rovina. La causa italiana non è fidata ad uno o ad altro nucleo di forze regolari, ma all’energia dei popoli, all’odio irreconciliabile tra la razza straniera che invade e gl’invasi, ai giuramenti della Camera e dei cittadini, al fremito dei tormentati Lombardi, a Dio che ha decretato il trionfo del diritto. La causa italiana e la causa della repubblica domandano oggi a noi concordia di voti, efficacia d’attività, decisione irrevocabile di non tradire la santa bandiera, esempio di solenne costanza pari a quella dell’eroica Venezia. Voi siete della terra che insegnò all’Europa forza, energia tranquilla e costanza. I vostri padri vincevano sempre perchè decretavano traditore chi s’arretrava davanti al pericolo. E voi non sarete indegni de’vostri padri, indegni della bandiera che dalle sepolture dei padri evocammo alle speranze d’Italia e all’ammirazione d’Europa.
» Fede in Dio, nel diritto, ed in noi! Viva la Repubblica romana! Viva l’Italia!
» Roma 30 marzo 1849.
Lo stesso giorno il triumvirato pubblicava il seguente bollettino:
- «Cittadini!
» I vostri Triumviri ricevono in questo momento le seguenti notizie, e si affrettano a trasmettervele.
— Il giorno 27 alle 6 pomeridiane il popolo di Genova commosso dagli eventi della guerra iniziò un movimento insurrezionale. Durante il moto, una staffetta spedita dal governo fu arrestata dal popolo, e un plico preso e letto al popolo, diceva al generale Lamarmora che tutto era andato a dovere, ma che bisognava che ei corresse frettolosamente in Genova per contenere la popolazione che minacciava, e che il governo era deciso di venire agli estremi rigori. Tanto bastò. Fu nominato un comitato di difesa composto dei seguenti:
Generale Avezzana
David Morchio
Ottavio Lazzotti
Federico Campanella
Didaco Pellegrini.
Le autorità sono ritirate nei forti. La città è nostra. Domani o ci affratelleremo colla truppa o combatteremo. Noi salveremo l’Italia o moriremo. Viva la repubblica.
«La lettera non merita commento. L’ultimo prestigio è caduto. Il principio monarchico è condannato.
» Trionfino Dio e il popolo che non tradiscono.
- » Roma 30 marzo ore 10 di sera.
I Triumviri |
Ora che abbiamo narrato in qual modo e per qual motivo venne costituito il triumvirato in Roma, restaci a dire qualche cosa dei membri che lo componevano, salvo dell’Armellini, sul conto del quale riferimmo ciò che ne divulgò la pubblica stampa in Roma, come può leggersi nel capitolo VII di questo terzo volume della nostra storia. Parleremo pertanto degli altri due e prima di tutto del Mazzini.
Non è per altro nostro intendimento di tesserne una biografia per disteso, chè troppo vi sarebbe a dire di quest’uomo singolare per energia, per talenti, e per tenacità di propositi. Che se questi avesse diretti ad uno scopo più plausibile e ragionevole, ne avrebber fatto uno degli uomini più straordinari, e benemeriti del secol nostro. Ma disgraziatamente mentre noi abbiamo bisogno di fondare e ricostruire, era nato il Mazzini col genio di tutto sovvertire e distruggere, e ciò ne sembra essere stato costantemente il suo vitale elemento.
Nacque il Mazzini in Genova, taluni credono nel 1802, altri nel 1806, e studiò prima sotto un savio e dotto sacerdote, quindi nella università.68
Da giovanissimo si fece conoscere per caldo ed abile scrittore nei giornali. Unitosi col Guerrazzi e con La Cecilia fondò in Toscana l'Indicatore livornese giornale di scienze, lettere ed arti. Ma non piacquer gli articoli, e quel triumvirato venne sciolto dalla polizia di Leopoldo.
Tornò in patria, vi fu imprigionato e quindi pati l’esilio.
La rivoluzione del 1830 lo colse in Francia, e colà divisò di fondare in Marsiglia la Giovane Italia, che fu ad un tempo e scuola letteraria e associazione politica.69
Rifugiossi quindi nella Svizzera, e pare che divisasse in Carlo Alberto l’uomo atto a compiere le sue viste sulla unificazione d’Italia. È celebre la lettera che a questo effetto diresse nel 1831 a quel monarca.70
Dopo quel tempo visse sempre scrivendo, ramingando, e cospirando.
Fu accusato di aver trascinato i fratelli Bandiera nella intrapresa che costò ad essi ed a’ loro compagni la vita. Seppe però chiarirsi dall’accusa con uno scritto intitolato: Ricordi dei fratelli Bandiera.71
Oltre ai giornali l’Indicatore livornese e la Giovane Italia di cui abbiam parlato, pubblicò in Italia l’Indicatore genovese e nel 1848 la Italia del popolo a Milano. In Londra pubblicò l’Apostolato popolare. A Parigi l’Italiano. In Svizzera la Jeune Suisse. Fra i suoi opuscoli si notano: Foi et avenir, De l’initiative révolutionnaire, Ils son partis, Austria Italy and the Pope, Lettera a Pio IX,72 Ricordi ai giovani,73 Della guerra d’insurrezione.74
In Lugano sotto il titolo di Scritti letterari di un Italiano vivente, furon raccolti molti fra i suoi articoli; abbiamo pure una raccolta intitolata Prose politiche di Giuseppe Mazzini.
11 5 marzo 1848 fondò in Parigi l'Associazione nazionale italiana.75
Condottosi in Milano dopo la insurrezione del marzo 1848, non solo vi fondò la Italia del popolo, ma vi avversò la fusione col Piemonte.
Fin dal 12 febbraio 1849 e prima che giungesse in Roma, fu ascritto alla nostra cittadinanza.
Il 24 venne eletto con 8982 voti o suffragi a deputato dell’assemblea costituente.
Giunse in Roma il 5 marzo.
Il 6 fece il suo ingresso nell’assemblea e vi riscosse vivissimi applausi. Vedi il suo discorso.76
Il 25 fece uscire in Roma il programma del suo giornale l’Italia del popolo.77
Il 29, come dicemmo testè, fu eletto ad uno dei membri del triumvirato. Qui arrestiamo i nostri cenni biografici. Il resto sul conto di lui, e per ciò che concerne i suoi rapporti con Roma, lo dirà la storia che stiam tessendo.
Ora aggiungeremo alcuni giudizi. E primo di tutti quello del Montanelli sul Mazzini:
«Mazzini seguace di Herder e di Schiller vedeva nell’avvenire dell’umanità un’era felice d’universale armonia, e si compiaceva dell’ideale che consolò Condorcet morente in prigione.»78
E appresso a pagina 32:
«Rideva del credo mazziniano Guerrazzi, stimato la testa forte del partito, e la prima volta che lo avvicinai, avendogli fatta professione ancor io di teoriche politico-mistiche alle quali m’inclinavano il temperamento entusiasta, l’età giovanissima, e gli studi filosofici, mi diceva parergli tutti noi pastori d’Arcadia, egli andare per diversa via, e diverse vie condurre a Corinto, Carlo Bini protestava in quelle teoriche non capirci nulla, e parlava di Mazzini come d’un buon figliuolo che scambiava la realtà colle larve dorate della sua fantasia, e la sola cosa che non gli perdonasse era la pretensione di voler dirigere il movimento italiano stando fuori d’Italia, perchè diceva: non può governare la nave chi non c’è dentro. In somma la Giovane Italia, lontana dall’essere società di credenti stretti allo stesso simbolo religioso e politico, come il giornale di Marsiglia voleva dare ad intendere, era, come le altre società politiche che l’avevano preceduta, coalizione d’interessati alla rivoluzione, ai quali l’idea negativa del rovebuiamente dei governi attuali serviva di nesso sociale, senza curare nè quali fossero le opinioni loro sugli ordini da sostituire, nè tanto meno quale la loro credenza religiosa.
» Sotto il vessillo di Dio e del popolo gli atei stendevano la mano ai deisti; e nella formula indefinita d’unità, i partigiani dell’unità francese stavano insieme coi partigiani dell’unità federale. Guerrazzi era federale. Il mazzinismo, ossia la dottrina teologico-politica di Giuseppe Mazzini, contava nell’associazione per minima frazioncella.»
Ed a pagina 33:
«Frattanto Mazzini annunziava all’Europa migliaia di apostoli armati, impazienti di battaglia; e molti fra i capi locali ragguagliato a questi vanti il poverume del personale a loro noto, si consolavano figurandosi essere il luogo che conoscevano una eccezione, e la faccenda pro cedere altrimenti in tutti gli altri luoghi. Ed è sempre così in tutte le imprese di cospirazione; sempre la stessa storia delle migliaia di combattenti immaginari, e dei conti fatti per ciascun paese su quello che sente dire dell’altro.»
Ed a pagina 190:
«Non è questo il luogo a discutere le dottrine politiche di Mazzini. Giudicandolo soltanto dal lato della strategia, diremo ch’egli, senza accorgersene, s’impappinò nel formalismo, e ciò lo inabilitava a giovare alla Italia, come, per le non comuni qualità sortite da natura, avrebbe potuto. Intestatosi a metter su congiorone di popoli, era impossibile che gliene andasse una bene. Macchiavelli sentenziò che le congiure non riescono quando più di tre o quattro sono a parte del segreto.»
Sentiamo ora il giudizio di Gioberti sul Mazzini, che estiragghiamo dal primo volume pagina 472 del Rinnovamento civile d’Italia:
«Giuseppe Mazzini è appunto l’uomo di cui costoro (i Puritani) abbisognano; essendo un politico d’immaginativa non di ragione; e avendo un’idea sola, cioè la repubblica. E siccome chi ha una idea sola, non può variare (quando ogni mutazione importa almeno due concetti), così non è da stupire che il Mazzini sia fisso nel suo pensiero e abbia quella costanza nelle chimere che i semplici ammirano, ma che i savi chiamano ostinazione. Laonde fra i suoi adoratori non si trova un sol uomo di conto; anzi è da notare che i più dotti e valorosi democratici ripugnano alle sue dottrine. Che se qualche ingegnoso, ingannato dai rumori, l’ebbe in pregio prima di conoscerlo; accostatoglisi e divenutogli intrinseco, dovette ritrarsi, stomacato da tanta presunzione accoppiata a tanta nullezza.»
Odasi pure il giudizio del Farini, estratto dal terzo volume pagine 275 della sua storia, edizione di Firenze del 1853:
«Le solite frasi; la solita forinola: Roma del popolo che succede alla Roma dei pontefici ed alla Roma dei Cesari, per unire e liberare l’Italia e rinnovare l’umauità! Vaga e quasi mistica farmela come le son tutte quelle del Mazzini. Il quale non è vero che abbia nè religioso, nè economico, nè politico sistema ben definito: fermo, anzi ostinato, egli è solo in questo, che l’Italia debba formare un unico stato con Roma capitale per mezzo di una rivoluzione, di una guerra, di un governo popolare. In teologia è deista, è panteista, è razionalista a vece a vece, o un po’ di tutto: par cristiano, ma non sapresti se sia cattolico, o protestante o di qual setta: è parso un tempo che egli copiasse in tutto il Lamennais, cioè un altro uomo senza verun sistema: repubblicano il Mazzini nol fu sempre o nol parve: certo non l’era o nol pareva quando nel 1832 invocava re Carlo Alberto liberatore: se era repubblicano, vagheggiava una strana forma di repubblica, quando nei 1847 incoraggiava Pio IX ad aver fede, e lo credeva acconcio ad ogni nazionale, anzi umanitaria impresa. Un tempo scrisse contre le teorie che appellano socialiste; poi, mutati i tempi, ne confettò qualche nuovo scritto, e si collegò con socialisti d’ogni nazione. Mediocre uomo credo io il Mazzini in tutto, ma gli è un genio di pertinacia: orgoglio tragrande, in sembianza di umiltà e di modestia: costumato, liberale, buono, de’suoi amici tenerissimo, ha gran potere di lusinga: tempra d’animo ostinato in mezzo alla universale mollizie degli uomini moderni: virtù in mezzo ai vizi di molti de’ suoi acoliti: parola facile, immaginosa, carezzevole: idee fantastiche che agli ignoranti paiono sublimità; compatimento dei vizi, e pur troppo anco delle scelleranze de’ suoi, e caldo patrocinio d’ogui fido: abiti ed usi democratici, culto idolatra del popolo posto in terra ed iu cielo allato a Dio: queste, se io non fallo, le ragioni della sua potenza. Aggiungi una formola semplice che abbaglia i semplici, i quali credono che il semplice sia facile, e non l’è; perchè composto è l’organismo delle società come quello dell’uomo e dell’umanità, ed in politica buone sono le formole che alle trasformazioni organiche delle società umane, per tempo e per momento di civiltà, s’affanno, non quelle che vogliono soggettare la storia, il tempo, i costumi, la natura. Mazzini parla molto di apostolato e di sacerdozio, e in verità ha natura di sacerdote più che d’uomo di stato: non vedé anch’esso in Italia che la propria casta: vuole costringere il mondo nel cerchio della sua idea eterna, una, immutabile. Che importano a lui i dolori dell’umanità? Tutti i tribolati, tutti i morti in Mazzini son martiri: non sono scritti nell’albo dei liberi cittadini d’Italia, ma il martirologio della fede mazziniana li vendica! Che sono gli anni ed i secoli nel compito dell’idea eterna? Mazzini sa che deve trionfare: par lo sappia da Dio stesso: parla ispirato, parla santo: bestemmia e prega, benedice e scaglia anatema: è pontefice, è principe, è apostolo, è sacerdote. Fuggiti i chierici, a Roma è in casa sua.»
Avendo di questa guisa riportato il giudizio che del Mazzini pronunziarono quattro corifeidei movimento italiano, cioè il Montanelli, il Guerrazzi, il Gioberti e il Farini, speriamo ce ne sapran grado i nostri lettori, e reputiamo che ne inferiranno quanta poca unione non solo, ma qual disaccordo di principi abbia sempre dominato in Italia. £ se ci siamo soverchiamente diffusi in parlar del Mazzini, a noi sembra che la di lui celebrità ne’ fasti della rivoluzione ce ne imponesse l’obbligo.
Poco diremo, perchè poco sappiamo, sul conto del Saffi. Registreremo bensì ch’era nato in Forlì, e che a lui si attribuiva secondo l’opinione del Montanelli79 quell’opuscolo che nel 1846 si dette in luce in Lugano sotto il titolo seguente: Indirizzo a monsignor Janni Uditore santissimo, e Ruffini Fiscale, che fa seguito agli ultimi casi di Romagna di Massimo d’Azeglio. In detto opuscolo chiedeva miglioramenti, riforme, e miglior governo.80
Rappresentò Forlì alla celebre riunione generale dei circoli in detta città del 13 decembre 1848, onde promuovere in Roma la proclamazione della Costituente.
Fu eletto quindi a rappresentante del popolo presso la detta assemblea.
Proclamata in Roma la repubblica, esso come ministro dell’interno, fu alla testa dei ministeri del 14 febbraio e dell’8 marzo 1849.
Varî atti da lui sottoscritti posson leggersi nelle presenti memorie.
Esaurito così per noi quanto credevamo dover dire sul triumvirato eletto il 29 marzo, ci resta a parlare di altro piccolo aneddoto che non lascia di avere un qualche interesse.
I giornali dello stesso giorno 29 ed in ispecie il Contemporaneo e la Pallade81 parlarono di uno scontro al confine napolitano fra i nostri soldati ed i carabinieri di quel reame, in seguito di che il nostro colonnello Amadei dei pontonieri e alcuni altri officiali e militi venner fatti prigioni dai Napolitani.
II Monitore pure di detto giorno parlò del fatto nel modo seguente:
«Alcuni ufficiali del nostro corpo d’osservazione verso Prosinone, cedettero alla tentazione di fare qualche brindisi all’Italia, coi loro fratelli di Napoli, non badando che questo avvenisse di qua o di là del confine. Noi accenniamo semplicemente al fatto, lasciando a chi spetta l’incarico di giudicarlo.
» Tre giorni sono furono sorpresi da una compagnia, non vorremmo dire nemica, e fatti prigioni. Questo fatto avea messo in qualche allarme il paese: ma dalle ultime notizie sappiamo che ogni cosa è tranquilla, e gli stessi ufficiali si aspettano d’ora in ora al loro corpo.» 82
In seguito di ciò per altro (e questo il Monitore non ce lo dice) vennero arrestati per rappresaglia i conti Filippo ed Angelo Antonelli fratelli del cardinale, l’uno in Roma, l’altro in Terracina, ma dopo qualche giorno furon posti in libertà.
Ora non restaci che a parlare di un avviso al pubblico che trovossi affisso il 31 di marzo e che diceva quanto appresso:
«In conformità degli ordini superiori, domani 1 aprile 1849, il palazzo e gli altri locali già appartenuti al soppresso tribunale del sant’Uffizio saranno aperti al pubblico dalle ore della mattina fino alle 5 della sera.
» Gli orrendi carceri, i supplizi ed i cadaveri rinvenuti nelle ricerche ed escavazioni eseguite in questi ultimi giorni, sempre più ispireranno nel popolo romano inestinguibile odio contro quel Potere da esso per sempre rovesciato allorché proclamò la santa parola di Repubblica.
» Sabato 31 marzo 1849.
» I depositari |
E così chiudevasi il primo trimestre dell’anno 1849.
Narreremo nel capitolo seguente la farsa che si recitò il 1 di aprile nei locali del sant’Uffizio.
Note
- ↑ Vedi Monitore del 17, pag. 199. — Vedi detto del 19, pag. 209.
- ↑ Vedi la Pallade, n. 498.
- ↑ Vedi detta, n. 500.
- ↑ Vedi Documenti, n. 92.
- ↑ Vedi Sommario storico ec., vol. II, pag. 81, 82 e 83.
- ↑ Vedi il nostro Sommario, n. 73. — Vedi Somm. storico ec., vol. II, pag. 83.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 221. — Vedi Contemporaneo del 22 marzo. — Vedi Bollettino delle leggi, pag. 169.
- ↑ Vedi il Positivo del 21 e del 23 marzo 1849 — Vedi il Costituzionale del 23 e 30 marzo detto — Vedi l’allocuzione pontificia del 20 aprile 1849 nel paragrafo che incomincia: «Alle altre innumerevoli frodi ec.»
- ↑ Vedi Pallade, n. 503.
- ↑ Vedi il foglietto intitolato: La cosa non va. — Vedi Documenti, vol. VIII, n. 84. — Vedi Lo svegliarino, sonata seconda. — Vedi Documenti, n. 88.
- ↑ Vedi Pallade del 19 marzo.
- ↑ Vedi detta del 27 marzo, n. 505. – Vedi Documenti, n. 98.
- ↑ Vedi Pallade, n. 505.
- ↑ Vedi Monitore del 29, pag. 261. — Vedi la prima ordinanza in Sommario, n. 74.
- ↑ Vedi Pallade, n. 503. Vedi il Torre, dalla pag. 290 alla pag. 294.
- ↑ Vedi Pallade, n. 410.
- ↑ Vedi l’opuscolo del Mastrella fra i Documenti sotto il n. 97, e nel volume VIII delle Miscellanee, n. 16.
- ↑ Vedi Tribuno dell’11 gennaio 1849, pag. 2, n. 1.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 209.
- ↑ Vedi Sommario storico ec., vol II, pag. 93. – Vedi Monitore del 23. — Vedi Contemporaneo del 24. - Vedi Bollettino delle leggi, pag. 186.
- ↑ Vedi Monitore del 23. Vedi Bollettino delle leggi, pag. 187.
- ↑ Vedi detto del 23. — Vedi detto, pag. 188.
- ↑ Vedi detto del 23. - Vedi detto, pag. 189.
- ↑ Vedi detto del 23. — Vedi detto, pag. 190.
- ↑ Vedi detto del 23. — Vedi detto, pag. 192.
- ↑ Vedi Monitore del 28, pag. 255.
- ↑ Vedi Speranza dell’Epoca, n. 58.
- ↑ Vedi Memorie della guerra d’Italia degli anni 1848-49 di un veterano austriaco, vol. II, pag. 203.
- ↑ Vedi detto.
- ↑ Vedi Contemporaneo del 30 e 31 marzo, 1 e 3 aprile — Vedi Monitore del 31, pag. 273.
- ↑ Vedi Epoca del 18 marzo. — Documenti, vol. VIII, n. 95.
- ↑ Vedi l'Epoca del 22 marzo. — Vedi Documenti, vol. VIII, n. 96.
- ↑ Vedi Cassandrino repubblicano, n. 4 e 5.
- ↑ Vedi Sommario, n. 75 e 76.
- ↑ Vedi Monitore del 17 marzo.
- ↑ Vedi detto del 22, pag. 227.
- ↑ Vedi detto del 19.
- ↑ Vedi detto del 19.
- ↑ Vedi detto del 21, pag. 227. Vedi Documenti, vol. VIII, n. 93.
- ↑ Vedi Monitore del 20, pag. 213. - Vedi Sommario, n. 77.
- ↑ Vedi Monitore del 21 marzo.
- ↑ Vedilo nella nostra raccolta.
- ↑ Vedi Monitore del 23, pag. 231.
- ↑ Vedi Pallade, n. 403.
- ↑ Vedi Monitore del 22, pag. 230.
- ↑ Vedi Monitore del 24, pag. 237.
- ↑ Vedi Monitore del 25 marzo 1849.
- ↑ Vedi detto del 26.
- ↑ Vedi il Monitore del 1 aprile.
- ↑ Vedi detto del 27 marzo.
- ↑ Vedi detto del 28, pag. 255.
- ↑ Vedi detto del 28.
- ↑ Vedi Monitore del 28 marzo.
- ↑ Vedi detto del 30.
- ↑ Vedi detto del 28, pag. 256.
- ↑ Vedi detto del 28, pag. 256.
- ↑ Vedi detto del 28, pag. 256.
- ↑ Vedi detto del 29, pag. 261.
- ↑ Vedi Costituzionale del 30.
- ↑ Vedi Monitore del 29, pag. 261.
- ↑ Vedi Monitore del 29, pag. 261.
- ↑ Vedi detto del 31, pag. 269.
- ↑ Vedi detto, pag. 265.
- ↑ Vedi detto, pag. 270.
- ↑ Vedi Bollettino delle leggi, pag. 260.
- ↑ Vedi Monitore del 31, n. 59.
- ↑ Vedi Documenti, n. 100. — Vedi Monitore del 31. — Vedi Contemporaneo del 1 aprile. — Vedi Pallade, n. 500.
- ↑ Vedi Civiltà cattolica, anno secondo, vol. IV, pag. 266. Vedi Giulio de Breval, Mazzini giudicato da se stesso e da’ suoi. Firenze 1853, in-12, pagina 19.
- ↑ Vedi Programma della Giovane Italia nella Miscellanee, vol. XLV, n. 1.
- ↑ Vedila nella Collezione completa degli opuscoli liberali ec. Ginevra 1831, vol. II, pag. 81. — Vedi Giuseppe Mazzini, Prose politiche. Firenze 1848, pag. 13.
- ↑ Vedi Miscellanee, vol. XXVI, n. 2.
- ↑ Vedi Mazzini, Prose politiche, pag. 228.
- ↑ Vedi Miscellanee, vol. V, n. 2.
- ↑ Vedi dette, vol. XV, n. 8.
- ↑ Vedi Guardia nazionale del 30 marso 1849, n. 26. — Vedi Speranza del 17 dicembre 1848.
- ↑ Vedi Sommario, n. 72.
- ↑ Vedilo unito al giornale. Vedi Sommario, n. 78.
- ↑ Vedi Montanelli Memorie, vol. I. pag. 19.
- ↑ Vedi Montanelli Memorie, vol. I, pag. 130.
- ↑ Vedi vol. VII Miscellanee n. 4.
- ↑ Vedi Contemporaneo del 29, n. 71. — Vedi Pallade, n. 507.
- ↑ Vedi Monitore del 2 marzo 1849.
- ↑ Vedi Pallade, n. 509.