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vive che di un pensiero, di quello dell’indipendenza, senza la quale ogni libertà diventa problema, v’hanno degli uomini i quali idoleggiando la forma repubblicana, a questa subordinano tutto. Quindi nella vittoria dell’armata piemontese, in quella di Carlo Alberto veggono la minaccia di un pericolo al principio che hanno inaugurato in Poma!! Noi ormai non facciamo più le meraviglie di nulla, perchè non v’ha errore che non crediamo possibile.»

E appresso:

«Chi non s’accorge che la proposta fatta oggi, tende ad attraversare la speditezza delle operazioni” di guerra? Si va sussurrando da altri che il nostro contingente d’armata non deve passare il Po se non quando il Piemonte abbia officialmente riconosciuto la repubblica quasi che si trattasse di guerra piemontese e non di guerra italiana!...

«Noi conchiudiamo: i popoli non s’ingannano; guai a chi lo tenta! Noi vogliamo essere prima di ogni altro Italiani.»1

Questo linguaggio acerbo so vuolsi, concorda con ciò che noi abbiam sostenuto nei capitoli antecedenti. Ma le accuse non erano mal fondate, perchè il governo in Roma alla fine si scosse è vero, ma a cose terminate. Il 20 si commettevano le armi, il 21 si adottarono temperamenti d’indole bellicosa, il 25 si ordinava il triduo alla Divinità per la inaugurazione della guerra italiana, ed intanto fin dal 23 colla battaglia di Novara le sorti degl’italiani eran decise a loro danno.

Finalmente dopo vari giorni di febbrile ansietà, giunsero il 29 le prime notizie della sconfitta delle armi piemontesi.

Risultava dalle medesime che il generale Ramorino che guardar doveva il ponte sulla destra del Po a Mezzana-Corte, abbandonato il posto all’apparire degli Austriaci,

  1. Vedi Speranza dell’Epoca, n. 58.