Storia degli antichi popoli italiani/Prefazione e alcune annotazioni dell'editore

L'Editore ai cortesi lettori

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Prefazione dell'autore


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L'Editore


AI


CORTESI LETTORI




Tre scrittori di molto grido si sono fra più altri specialmente occupati di quest’opera lodatissima, e scopo la fecero delle loro ingegnose meditazioni. Il Romagnosi, il Rossetti, il Raoul Rochette. Degno lor parve di attento studio un lavoro di celebre autore, che dopo di avere coll’Italia avanti il dominio de’ Romani ottenuto ben giusti e meritati applausi, ci presenta, dopo ventidue anni di indagini assidue, la Storia degli antichi popoli italiani, e ne mostra quale si fosse l’esser civile, morale e intellettuale dei padri nostri nella età più remota, sì intimamente collegata colla civiltà delle più famose [p. vi modifica]nazioni del tempo antico. La somma importanza di sì elevato subbietto rende curiosa ogni idea destata, leggendo quest’opera, nella mente di uomini addestrati nell’arte critica, nella recondita erudizione, nelle astruse investigazioni. Giova quindi esporre in compendio i lor pensamenti per dare a questa edizione il maggior grado possibile di pubblica utilità.

Le notizie sull’Italia prima dei Romani, dice il Romagnosi, sono di gran momento non solo per gl’Italiani e per tutta Europa, ma eziandio decisive per la filosofia dell’incivilimento. Il romano imperio comprese quel tratto di globo che parve dalla natura chiamato a primeggiar sulle genti. Circonvallato dalle parti di oriente e mezzodì (verso i continenti asiatico e ed affricano sino al mare Cimmerio), dalla fossa interna del Mediterraneo; guarentito dalle montagne dell’Atlantico e del Libano; rinforzato dai deserti che ricingono queste fortificazioni, circoscritto nelle parti dell’Occidente e del Settentrione dai mari Atlantico e Baltico; intersecato internamente da naturali comunicazioni di mari, di laghi, di fiumi; favorito da una latitudine geografica scevera dagli estremi del caldo e del gelo; [p. vii modifica]ecco la terra preparata ad una signoria senza esempio nell’antichità, e che lasciò in retaggio il primato dell’Europa sull’altre parti del mondo.

Ma gli esordi del romano impero si confondono con un’anteriore italica civiltà sulla quale appunto s’aggira l’insigne lavoro del nostro Autore. Se perirono i fasti veramente storici e concatenati dell’Italia anteriore ai Romani, sopravvissero nondimeno bastanti notizie per indovinare non solo la maternità del romano incivilimento, ma eziandio la procedenza dell’antichissimo degli Italiani. La qual procedenza se fu assai controversa, ciò provenne da quella superiorità dell’Italia per la quale specialmente i Greci ambirono di arrogarsene il merito. In ciò furono secondati dalla tarda grecomanìa, che sul fine della romana repubblica invase gli scrittori latini.

Pure attraverso le dispute, può la buona critica aprirsi ancora una via, e giungere a segnare la precedenza della italica civiltà in modo non meno sicuro o probabile di quella dei Greci. Se ciò prima d’ora non fu praticato in una maniera definitiva, giova sperare che lo sarà non molto più tardi, sempre che [p. viii modifica]gl’Italiani sieno compresi dallo zelo da cui fu animato il ch. Micali. In tutte le opinioni ci ha qualche cosa di vero; e se prima non fu possibile il concordarle, ciò avvenne sì perchè le ricerche non furono spinte sin dove giugnere potevano, e sì perchè la critica non fu abbastanza illuminata. Dagli antichi fu scritto poco e favoleggiato molto; dai moderni fu scritto molto e ragionato poco.

Le favole storiche sono narrazioni stese con un linguaggio di stagione, mercè del quale si conservarono le tradizioni in una maniera la meno alterata. L’allegorismo personificato con cui furono rivestite giovò per conservare la sostanza dei fatti e per mantenerne la memoria. Nell’infanzia delle società la popolare intelligenza coglieva il senso apparente della notizia, e la trasmetteva come la ricevette, attesochè l’allegorismo e la personificazione non erano suo lavoro. Il maraviglioso e l’eroico che decorava le favole, nell’atto che eccitava l’ammirazione, serviva di cemento per la loro ricordanza.

Ma i veggenti sapendo che nelle favole storiche non si racchiudeva verun mito arcano alla prima vistata, scifferavano il vero senso [p. ix modifica]della favola. Udendo per esempio che l’Inaco greco, corrispondente al Giano italico, veniva detto figlio dell’Oceano, ogni savio intendeva due cose: l’una che trattavasi di un temosforo fondatore di vita civile, e però che non poteva essere un sol uomo attesochè egli da sè stesso non poteva nè compiere, nè radicare una sì lunga operazione, qual è quella dell’incivilimento; funzione che compiere non si può ordinariamente, fuorchè colle colonie e colle conquiste; l’altra cosa che intendevasi si era che si trattava semplicemente della venuta dal mare, e non della paternità o maternità naturale dall’Oceano, il quale non genera nè partorisce uomini. Figlio del bosco o della montagna dicesi poeticamente anche in oggi un pastore od un cacciatore.

A malgrado di sì ovvie avvertenze abbiamo veduto parecchi eruditi rifiutare del tutto le favole allusive a’ fatti umani, o quand’esse non presentavano un evidentissimo assurdo, intenderle a modo del rozzo volgo. Chi direbbe per esempio che il Bailly astronomo e filosofo abbia considerato Atlante come un re effettivo a petto della leggenda intorno alla scienza ed all’arte che venivagli attribuita, la [p. x modifica]quale supponeva il concorso di tanti studj e di tanti secoli? E che diremo dei nomi delle popolazioni, delle città e dei territorj dedotti da supposti personaggi reali predominanti? Convien ignorare la condizione delle primitive popolazioni, convien ignorare la storia la qual afferma che le denominazioni etniche e territoriali venivano imposte o in vista di certe particolarità locali, o in venerazione della divinità protettrice, o in conseguenza del nome della tribù come appunto praticarono i Barbari del medio evo. Non è meno incomportabile il leggere sempre che gli Enotri, vocabolo che significa dalle isole del vento, ricevettero il nome da un re Enotro, che l’Italia, ossia un piccolo territorio in fondo della Calabria, ebbe il nome da un re Italo, Roma da un re Romolo, e va discorrendo? Tempo è omai di emanciparsi da sì zotico modo di pensare in archeologia; ma tal emancipazione debb’essere usata con assennatezza perchè sfrenata non degeneri in vaniloquj; specialmente se vi si mescolino stiracchiate etimologie, nè si convalidi l’archeologico procedimento con ausiliarie prove. Uopo è procedere da principj razionali affatto diversi; uopo è di por [p. xi modifica]fine alle dissidenze sulla origine dell’italica civiltà. Questo solo punto è degno della storia, e con questo solo esiste la storia. La vita selvaggia o stazionaria è bensì suscettiva di una statistica, ma non d’una storia in cui si tratti di quella serie di vicende e di passaggi pei quali l’umanità tende a quell’equilibrio che nasce dalla soddisfazione de’ bisogni e delle tendenze che sono nelle mani della natura. Ma per produr questa istoria si esige appunto l’incivilimento, e però l’origine di esso forma l’origine della storia.

Ciò premesso il Romagnosi non teme di offendere la gloria nazionale negando all’Italia l’originario indigeno incivilimento, sì perchè quest’offesa sarebbe comune all’Asia, all’Affrica, all’America ed al rimanente d’Europa, e sì perchè l’Italia ebbe tanti meriti di superiorità nello svolgimento del seme arrecatole da vincere qualsiasi paragone. Perchè Raffaello non inventò la pittura e Canova la scultura si offende forse la loro gloria col dire ch’essi furono prima discepoli e poi maestri? Più ancora: il carattere intellettuale e morale di straniero non si va forse coi secoli cancellando per dar luogo al nazionale [p. xii modifica]predominante? La Francia occupata dai Franchi, dai Borgognoni, dai Normanni non ha forse cancellate le lor differenze per far primeggiare l’indelebile carattere disegnato da Catone, da Cesare, da Tito Livio? Che importa che in questa classica terra sieno venuti Libj, Siriaci, Pelasgi? Qual cosa seppero questi operare nelle loro terre native? Osserviamo cosa hanno saputo far gl’Italiani iniziati da quegli stranieri nell’arte della civiltà. Essi negli annali del mondo hanno creato la terza era e percorsero il terzo stadio dell’umano incivilimento, il quale diramato nell’Europa ha potuto risorgere iniziando la quarta età. Ecco l’articolo che importa per la gloria nazionale.

Quindi accignendosi a mostrare la derivazione dell’italica civiltà egli afferma ch’essa procede da parti diverse, ciò arguendosi dalla forma delle religioni, dalle denominazioni etniche e territoriali, dal linguaggio e da usanze singolari. E quanto alle religioni nel Dio Giano ravvisa un temosforo di genti non istanziate, e in Saturno i segnali della introdotta vita agricola fermata sui territorj. Giano e Saturno padri e primi dominatori offrono, a suo detto, colle loro personificazioni due [p. xiii modifica]ere sacerdotali per L’Italia. Giano possiede la dottrina atlantica di Tagete; Saturno l’orientale de’ Cabiri. A queste due personificazioni succede una terza nella quale non si tratta più dell’autocrazia di Giano e di Saturno, ma del regno di Giove, figlio e successor di Saturno. Giove stanziato nell’Olimpo co’ Dei maggiori, con arti innoltrate, simboleggia l’età dei Padri presieduti da un capo. Egli sotto la dipendenza del Fato e col consiglio degli altri Numi supremi regge le vicende più importanti del mondo antico. S’arroge il Bacco Sabazio, ossia de’ Sabii, popoli della Mesopotamia. Il mito di lui non è punto diverso e staccato dal tagetico, dal cabirico, dall’olimpico, ma è sostanzialmente lo stesso. Ora il mito tagetico è di derivazione libica, il cabirico olimpico di derivazione pelasgica, quello di Bacco Sabazio di derivazione siriaca. Con queste tre procedenze si contemplano tre forme esterne di religioni etniche, aventi sacerdozj, misterj, orgie e discipline autorizzate e pubblicamente sanzionate, le quali ci denotano la venuta in Italia di genti dall’Affrica e dall’Asia che o per colonie o per conquiste piantarono qui la loro sede. Il [p. xiv modifica]nome di Giano non è esclusivo al Lazio e all’Italia ma d’origine libica; la ricciatura dei capelli e della barba di lui apparente nelle più antiche monete è simile a quella de’ Berberi dell’Affrica atlantica; parecchie deità raffigurate sui vasi degli Etruschi più antichi han l’apertura auricolare posta al livello della linea mediana dell’occhio, coincidente con quella che fu osservata nelle mummie de’ paesi confinanti coll’Etiopia; i nomi de’ monumenti religiosi dei Tuschi, cioè degl’Itali, si riscontrano ancora nella così detta Libia ossia Mauritania; i sepolcri toscani più antichi non differiscon da quelli della Cirenaica e dell’Egitto sulle scogliere di là dal Nilo; Vetulonia stessa città principale de’ Tuschi è di origine libica; le monete che le appartengono hanno Giano bifronte nel diritto e nel rovescio la nave che indica l’approdare alle spiagge italiane di genti straniere: più in breve, gli stessi Numi predominanti, la stessa mitologia, lo stesso sacerdozio, gli stessi riti, lo stesso arcano, che a un dipresso troviamo nella Caldea, nella Fenicia, nell’Egitto, e nella Libia autorizzano il Romagnosi a dedurne la derivazione straniera della religione civilizzante dell’Italia, attesochè gli [p. xv modifica]Italiani non sono gli autori di quella degli altri paesi.

A convalidar poi l’opinione che il primo italico incivilimento sia proceduto in gran parte dall’Affrica di qua dell’Atlante compresa dai Greci sotto il nome di Libia, prende il Romagnosi in esame le originarie denominazioni d’Italia, e dimostra che gli Oschi, gli Ausonj, gli Esperj, gli Etruschi, ed altri popoli non estesero a tutta la penisola i proprj lor nomi, bensì gl’Itali; intorno a’ quali, rifiutate l’erronee etimologie colle quali alcuni pretesero dedurre il nome d’Italia da Italos che vuol dir eroe, o da un ideato re Italo, osserva esserci alcune monete di città italiche autonome, nelle quali, oltre il Giano bifronte, e la nave trovasi impresso in caratteri etruschi ora tla, ora v-tla, ed ora i’italia. Ma nella Numidia, egli dice, eravi una città capitale chiamata Tala, il cui nome scritto all’etrusca si riduce in Tla, sopprimendosi la vocale intermedia, com’era di stile e attestano varie leggende. Que’ Taliani stanziati colle loro istituzioni agricole in mezzo alle potenti orde numidiche, forse non potendo reggere a’ loro assalti, od estendersi nel paese, furono [p. xvi modifica]costretti ad emigrare, e però passarono prima in Sicilia dove lasciarono le loro tracce colle celle sepolcrali sulle scogliere dei monti, indi in Tuscania dove praticarono lo stesso. Di là resi col tempo forti e numerosi estesero il loro dominio, fiorir vi fecero la civiltà, per cui dimenticati i nomi di Ausonia, di Esperia, d’Enotria, che si erano succeduti l’un l’altro nella stessa regione, vi perpetuarono quello d’Italia. A quest’Itali è dovuta la paternità del nostro incivilimento: titolo di merito immenso, di divino splendore, di memoria indelebile. Aristotile rammemora questa gente in uno stato di innoltrate instituzioni sociali in tempi molto anteriori all’età stessa di Minosse, che secondo i cronologisti cadrebbe di circa 1406 anni prima dell’era volgare, e precederebbe di 653 anni la fondazione di Roma. Vitulonia fu la città lor principale; e se italica cioè atlantica fu la pianta dell’incivilimento e della favella, l’Italia a buon diritto ottenne e mantenne quest’almo nome, che divenne proprietà personale degl’Italiani a motivo della lor lingua, la quale partendo da’ suoi primi temosfori scorse a traverso di tanti secoli senza interruzione e col continuo uso de’ suoi elementi, [p. xvii modifica]e colle sussidiarie acquisizioni divenne pura, regolare e pulita fino a spogliarsi dei dittonghi e racchiudere una pieghevolezza adattata non solamente alle opere di estetica ma anche a quelle della più sublime filosofia.

Lungo sarebbe il volere partitamente seguire il nostro filosofo nelle sottili e astruse sue indagini intorno ai segni che accusano derivazioni atlantiche, pelasgiche e siriache, da lui ravvisati nel recondito significato de’ nomi di luoghi, che, a sua detta, con quelli de’ luoghi d’Affrica e d’Asia coincidono; ne’ varj passi di antichi scrittori greci e latini onde que’ nomi ci vengono; nelle pratiche italiche religiose e civili che con quelle delle indicate regioni si assomigliano; nelle indicazioni territoriali ed etniche italiane, siriache e numidiche, per le quali fidatamente conclude che o questi nomi, queste pratiche, questi riti sono passati da noi alla Siria ed alla Numidia, o da quelle vetuste rinomate regioni a noi. Il primo modo non è ammissibile, perocchè consta dalla storia che prima de’ tardissimi Romani non furono dall’Italia spedite genti in que’ luoghi: dunque è forza ammettere il secondo. Laonde libiche, pelasgiche e siriache furono le [p. xviii modifica]origini dell’italico incivilimento, vale a dire che esso a noi fu apportato da genti tanto della Mauritania quanto della Siria, sia marittima, sia interna. E per ultimo risultamento propone il seguente ristretto cronologico della storia civile anteriore a Roma.

Diciotto secoli circa prima dell’era volgare, dic’egli, l’Italia era abitata da pastori qui venuti a stanziarvisi. Dugento settantatre anni dopo alla prima venuta di genti straniere compajono gl’Itali detti ancora Enotri perchè posero a coltura il terreno ferace della Campania, poscia gli Umbroni perchè da per tutto fabbricarono case e torri murate. L’incivilimento quindi stanziato in Italia incominciò nel 1584 prima dell’era nostra volgare.

Quegl’Itali resi forti coll’Enotrico incivilimento, e colle popolazioni aggregate dovendo sostener la solita lotta colle tribù pastorali de’ Siculi, de’ Morgeti e d’altre minute simili tribù, esercitano per quasi tre secoli la lunga e sanguinosa guerra della propagazione dell’incivilimento, e di vittoria in vittoria si estendono su tutto il gran paese di qua e di là dell’Appennino ed occupano la falda delle alture di quasi tutta l’Italia. Da ciò nasce la divisione [p. xix modifica]d’Insombria, Olumbria, Villombria. A questa guerra sembra posto fine coll’espulsione di que’ pochi Siculi, i quali o non essendosi assoggettati o non essendosi rifuggiti presso i Liguri ed i Sanniti furono nel principio del decimoterzo secolo avanti all’era nostra volgare sospinti in Sicilia.

Ma due secoli e mezzo dopo la venuta degl’Itali comparvero gli Atriani dall’ultimo littorale della Siria, e i Fenici dall’isola di Creta in Italia. Gli Atriani pigliano stanza intorno alle foci del Po e giungono a dominare il golfo Adriatico. I Fenici si stabiliscono nella Villombria sotto il nome di Saturnii e vi fondano un piccolo Stato territoriale e marittimo. Essi sono precisamente il Saturnus arma Jovis fugiens di Virgilio. Ed ecco tre potenze civilizzanti nel corso del decimoquinto secolo prima dell’era volgare sull’italico continente, le quali in parti diverse sì per mare che per terra danno opera a propagare la vita stanziata e progressiva civile. Queste tre potenze sono gl’Itali detti Umbroni, gli Adriaci, ed i Fenici tirreni. Ma l’opera maggiore fu tutta compiuta dagli Umbroni. Ad essi toccò la suddetta lunga e sanguinosa guerra di quasi [p. xx modifica]tre secoli propagante la vita civile. Ad essi devesi dapertutto l’erezione delle prime case murate, dei borghi, delle città munite, delle colonie, e la prevalenza della lor lingua, benchè comune ne fosse il fondo colle altre popolazioni sottomesse e fin anche con quelle dei Liguri, la venuta dei quali si può stabilire a 576 anni prima di Roma. Altre guerre sostennero gl’Itali collegati cogli Atriani contro i Fenici stanziati nel Lazio e nei contorni donde ne furono anche cacciati. A questa lega, dice il Romagnosi, fu dato il nome d’Atr-Usca, ossia Etrusca. L’epoca di essa venne determinata negli annali pontificali Etruschi, i quali segnarono appunto il principio della loro istoria a quattrocent’anni circa prima dell’era di Roma, e quindi verso il 1150 prima dell’era volgare.

Or qui si apre una nuova ed imponente complicazione di guerresche vicende, di progressi e di decadenze importanti il nostro incivilimento. Nello spazio da’ prefati, quattrocent’anni campeggia parallela sì la storia Etrusca che l’Italica degli Umbri. Questo tratto di tempo incomincia colla suddetta lega espellente i Fenici dall’Italico continente, i quali [p. xxi modifica]passano nell’Attica. Esso viene poi proseguito colla emulazione di dominio fra gli Umbroni e gli Etruschi per sottoporre tribù nomadi, e talvolta contendere fra loro, talchè dopo le precedenti guerre della introduzione e della propagazione dell’incivilimento si esercita quella della conservazione. Questo stesso tratto di tempo viene finalmente chiuso nell’Italia superiore colla occupazione fatta dai Galli a cui soggiacque l’Adria, e nell’Italia meridionale coll’occupazione dell’Enotria operata dai Sanniti. L’Italico incivilimento viene quindi minacciato di morte; ma i primordi di Roma spuntano in secreto, e le speranze d’Italia vengono per molti secoli assicurate.

Il prospetto cronologico qui prodotto, dice il Romagnosi, è in via di mera proposta senza prova alcuna; ed egli stesso ben vede che a fronte delle vigenti opinioni apparirà temerario. Ma noi, soggiugne, abbiam diritto di ricusare una definitiva condanna prima di qualunque discussione, e quindi d’invocare un giudizio a causa pienamente conosciuta, cioè dopo le prove che siam pronti a sottoporre al tribunale del pubblico.

[p. xxii modifica]Duolci nell’animo che l’invida morte ci abbia involato guest’animoso filosofo che, vivendo, avrebbe forse chiarito più largamente le profonde sue idee, e dato al suo sistema quello sviluppo maggiore di cui gli pareva capevole. Chi tuttavia fosse vago di meglio conoscere com’egli ordinasse i suoi raziocinii, da quai fonti ei traesse le archeologiche nozioni, quali lumi recasse a cenni e luoghi d’ antichi autori per dedurne l’origine e il progresso dell’italica civiltà, vegga la non breve sua memoria divisa in tre parti, e inserita ne’ volumi LXIX e LXX della Biblioteca Italiana.

Se non che idee affatto opposte a quelle del Romagnosi ha suscitato nella mente del Rossetti, per rispetto al principio e progresso dell’italica civiltà, l’egregia opera del Micali. Il Rossetti ha per fermo che l’origine delle nazioni sia e debba restar ignota a tutta nostra potenza intellettuale, e presentarlesi qual enigma misterioso il cui scioglimento quanto è più desiderato e tentato, tanto meglio ci si cela e rifugge lontano da ogni nostra percezione. La ragione e l’esperienza, dice egli, evidentissimamente ci mostrano che l’uomo si moltiplica, che moltiplicandosi si consocia, che [p. xxiii modifica]consociato si sviluppa, che sviluppato progredisce al suo perfezionamento, per giugnere al quale ha per natura in sè una potenza motrice ed un organismo esecutore dei movimenti di questa. L’uomo moltiplicandosi sotto le influenze d’un paese qualunque, che abbia eguali condizioni di suolo e di cielo, ossia di clima, forma una generazione la quale col progredimento della moltiplicazione costituisce prima le sue tribù, poi i suoi popoli, indi una nazione. Formate le nazioni esse progrediscono per proprio organismo e potenza intellettuale, senza necessità che quest’organismo sia comunque pretenziato o sussidiato da altra nazione non prodotta dalla sua propria moltiplicazione e consociazione. Imperocchè volendo asserire il contrario bisognerebbe presupporre resistenza d’un qualche naturale privilegio tra generazione e generazione, tra popolo e popolo, tra nazione e nazione; supposto che il Rossetti crede essere assurdo. Ho premesso, dic’egli, la influenza del clima, cioè della diversità delle condizioni di cielo e di suolo, e quindi anche la naturale necessità di una differenza tanto nella moltiplicazione, quanto nello sviluppamento e nel progresso della potenza motrice dell’organismo [p. xxiv modifica] operatore del perfezionamento dell’individuo, della generazione, del popolo e della nazione. E in questa premessa egli trova il principio e la spiegazione di un maggiore o minore progredimento delle nazioni verso un tale o tal altro determinato punto del loro perfezionamento, non che poi di quello della loro culminazione. Ma questa diversità di progresso non nasce già da inferiorità intrinseca di potenza motrice o d’organismo, nasce bensì dalla superiorità degl’impedimenti che il clima frappone alla moltiplicazione ed alla consociazione, quindi allo sviluppamento ed al progresso; senza però che sì fatta superiorità di impedimenti ammortisca né la potenza motrice, né l’organismo operatore. La differenza certa non è che nello sviluppo e nel progresso o accelerato o ritardato dell’influenza del clima.

Fermata questa dottrina, guidatovi, com’ei dice, da massime generali della critica filosofia e della storia dell’umanità, ammette l’origine degli Aborigini italiani, cioè d’incoli primi che non abbiamo onde provare né per attenenza di stirpe aliena, né per autorità di storie, venuti di fuori: queste genti per così [p. xxv modifica]dire natie le considera in istato ancor mobile o semibarbaro di colleganza; e le riguarda come in uno stato ancor nomade, dal quale passarono a farsi pastori ed agricoltori sedentarj con ferme dimore, con stabili matrimonj in società permanente, e con esercizio di arti manuali, talché non può nemmeno dubitarsi aver essi acconsentito ad una comune legge. Nega però che dalle regioni dell’Oriente o dall’Egitto ci fossero nell’adolescenza della nazione qua recati, come altrove in Grecia, buoni insegnamenti di una vita più raffrenata e migliore, o che ciò suppongasi avvenuto per migrazione di famiglie, o per esteso, comecché tacito, commercio di sacerdoti da un paese all’altro. Finché ci mancano prove incontrastabili di tali migrazioni e commercj sacerdotali pare a lui che si debba astener dall’ammetterli, sì perchè non vi ha necessità di procedere per via d’ipotesi, là dove la natura ci guida alla verità, e sì perchè nel concreto nostro caso sembra che la scienza critica possa giovare ulteriormente più che non giovò prima a stabilire la priorità del sapere e del fare degli antichi Italiani a fronte dell’esotico innesto che tutti in addietro prestabilirono, e tutti anche oggidì studiansi di difendere a tutta possa. [p. xxvi modifica] 

In fatti allorché gl’Italiani poterono mettersi a contatto colle lontane regioni dell’Oriente e del Mezzodì doveano essere già progrediti a tal punto di civiltà d’avere proprie salutari istituzioni, dottrine ed arti. Tale contatto potea lor porgere nuove materie, nuovi metodi, nuovi mezzi, non mai un nuovo sapere ed un nuovo fare. Poteano per esse invaghirsi soltanto di straniere forme, ed indursi ad imitarle, sia perchè piacenti per la novità e singolarità, sia perchè necessarie a nuovo vantaggioso commercio cogli stranieri. Ammette quindi che invasioni di Pelasgi e di Liburni e d’Illirici sieno avvenute in Italia, ma di ciò tuttavia non si turba minimamente, perocché sì fatte invasioni meramente barbariche non sono tali che abbiano portato né istituzioni, né dottrine, né arti agl’Itali, ma solo temporario impedimento al loro naturale progresso. E di tali invasioni ben altre ne accaddero senza conseguenza maggiore, perciocché gl’invasori o furono tosto o tardi respinti e spenti, o si sottomisero eglino stessi all’incivilimento che trovarono nel paese invaso e vinto.

Quando ottimamente ritiensi che la macchina del governo etrusco fosse fuor d’ogni [p. xxvii modifica]dubbio d’istituzione sacerdotale, che questa fosse derivata da quella sapienza che reggeva allora il mondo per conformità di bisogni, di mire e di circostanze così nell’Oriente come nell’Egitto, non è mestieri di ricorrere ad uomini travagliati, a famiglie fuggiasche di stirpe sacerdotale, e supporle fatte maestre agli Etruschi, quand’è certo che questi aveano non solo la forza ma la scienza del governo. Concedasi che una perfetta o quasi perfetta conformità di bisogni, di mire e di circostanze produca una sapienza medesima, e quindi la parità di sostanza e di forma di governo, e forse anco di arti e di costumi; ma allora la vera causa di questa parità mirabile sta in quell’accidentale conformità di bisogni, di mire, di circostanze di due diverse e lontane nazioni, non già nel fatto dell’ammaestramento che l’una si derivò da un’altra per qualsivoglia reciproca comunicazione. Se per amendue queste cause mancano le prove istoriche, e bisogna appigliarsi ad una ipotesi, la seconda avrà sicuramente meglio che la prima tutto il suffragio della ragione critica.

Il sistema della derivazione della civiltà e dell’arte da una nazione e quasi da unico [p. xxviii modifica]stipite è pur troppo quello che prevalse in ogni tempo e in ogni scuola. Pare che tutte le nazioni abbiano ambito di farsi emanazioni di altri popoli, e di altre terre, quasi che si vergognassero di tenersi inventrici delle cose loro. Il loro culto, ogni scienza ed ogni arte dovea loro essere provenuto di fuori e da lungi. Non sarebb’egli omai tempo che la critica si occupasse seriamente a combattere sì fatta superstizione almeno circa quegli argomenti dei quali possediamo ed andiamo scoprendo gli originali e parlanti monumenti? La scienza archeologica che ha fatto in breve corso di tempo cotanti progressi, ed a cui tanti illustri intelletti ora dedicano i loro studj potrebbe certamente riuscire a questo scopo; eppure pare al Rossetti doversene assai dubitare. Essa, dic’egli, ha preso una direzione di prevenzione. Lo spirito grecanico e l’egiziaco la predominano. Il primo oltre agli antichi suoi partigiani ne ha grandissima e distinta copia di moderni, tutti vieppiù accesi per le ultime scoperte delle necropoli italiche. Il secondo che da gran tempo era scaduto di attività e di credito è potentemente risorto per le scoperte dello Champollion e del Rosellini. E non andrà guari [p. xxix modifica]che ne vedremo prorompere un terzo quasi nuovo del tutto; e questo sarò, l’indianico, il quale tutti probabilmente gli altri supererà o ingojerà piuttosto.

Pertanto sarebbe, a sua detta, desiderabile che ne sorgesse fin d’ora un quarto, fondatore di una quarta scuola, a cui darebbesi il nome di autottonica, e l’ufficio semplicissimo di raccogliere sistematicamente in tante serie separate certi fatti e monumenti determinati di ogni antica nazione, avvertendo di attenersi con fedeltà alla pretta sostanza e al fondamento di quelli. La prima serie conterrebbe il principio fondamentale della religione di ogni popolo e la forma sostanziale del suo culto; la seconda quello del governo civile; la terza le qualità, la forma e l’uso delle armi; la quarta il costume di abitare e di vestire; la quinta le leggi e gli usi de’ matrimonj; e finalmente la sesta i riti funerei e sepolcrali.

Avendo così in ogni serie il paralello continuo di tutte le nazioni antiche sopra un determinato oggetto, e quindi il confronto del cronologico progresso dello sviluppamento sociale nel sapere e nel fare, si avrebbe il mezzo evidente per un criterio sicuro dell’autottonia o della [p. xxx modifica]derivazione di ciascuna nazione. Con sì fatto metodo verrebbesi forse a conoscere gli assurdi ai quali conduce il sistema delle derivazioni e degli innesti; perciocché si trainerebbero nazioni che ci presenterebbero in ciascuna serie molte uniformità e quasi identità di fatti primitivi, senza vedervisi nemmeno possibilità di comunicazione non che di derivazione. Che se a questi quadri aggiugnerassi quello de’ popoli di moderna scoperta delle Americhe e dell’Australia, il confronto riuscirà vieppiù concludente e forse decisivo contro il chimerico principio della necessità dell’innesto civile o della derivazione di rimote nazioni. Strana gli pare l’opinione per la quale dicesi che un rozzo popolo venga per le divisate comunicazioni, mediante il traffico, a ricevere quell’innesto del sapere e del fare che più gli abbisogna per isvilupparsi e progredire. Imperocché l’interno suo proprio sviluppamento dee essersi già assai innoltrato da sé medesimo prima che gli sieno possibili, cioè noti ed eseguibili, i mezzi di quella comunicazione. Progresso assai maggiore richiedesi ancora perché la rozza nazione inducasi a tramutare le usate antiche costumanze del fare e del sapere suo [p. xxxi modifica]nazionale con quello che nuovo le si viene insinuando o da venturieri estranei, o da proprj viaggiatori. Chi ne dubitasse avrà donde convincersi esaminando partitamente le statistiche, non solo delle diverse nazioni ora viventi o de’ loro popoli, ma financo delle varie provincie o dei distretti di una provincia medesima. Se le sole comunicazioni commerciali dei popoli, ed il contatto personale dei loro individui bastassero a quell’uopo, tutti gli Europei dovrebbero ora starsi del pari fra quell’apice di civiltà e di perfezionamento sociale e civile al quale dicesi essere giunta una tale o tal altra nazione europea. Eppure così non è: anzi continuamente si esclama dall’una sull’arretramento e sul barbarismo dell’altra. E se tanto miracolo non può avverarsi oggidì, con quale senno lo si vorrà avverato fra le rozze nazioni di epoche anteriori ad ogni istoria?

Quanto poi ai monumenti iconici, prima di statuire definitivamante che miti e forme ed emblemi e simboli derivino da stranieri ammaestramenti egli vorrebbe che gl’indagatori si spogliassero di certi ch’ei chiama pregiudizj omai troppo comuni, quali sono 1.° quello di volere che ogni popolo o nazione sia colonia, [p. xxxii modifica]o civile innesto di altra nazione civile; 2.° che ogni arte abbia avuto un suo proprio ed unico ed esclusivo inventore; 3.° che certi popoli o nazioni sieno i prototipi del sapere o del fare degli altri tutti; 4.° che finalmente ogni figura di azione rappresentata dai monumenti iconici, e particolarmente sui vasi fittili, debba assolutamente essere relativa alla storia, alla favola, ed alla simbolica di un dato popolo.

Ed ecco due scrittori di parere onninamente opposto intorno all’origine e al progresso dell’incivilimento e dell’arti italiane. Retribuendo essi ben giusti e meritati encomj alla dotta fatica dell’egregio Micali, sollevano la loro mente all’altezza del soggetto da lui trattato, e meditandolo profondamente, l’uno deriva l’italica civiltà dalla Numidia, dalla Siria, dalla Fenicia, l’altro dalla potenza e dall’organismo da Dio creatore dato all’uomo, che, socievole per natura, non può non moltiplicarsi, crescere, svilupparsi e progredire al suo nobile fine.

Udite le opinioni dei due prelodati scrittori, vuolsi porgere ascolto pure a quella del terzo, degnissima anch’essa di attenta considerazione. Anziché speculare il </noinclude> [p. xxxiii modifica]Raoul-Rochette intorno alla origine e al progresso dell’italico incivilimento osserva nella nobile fatica del chiarissimo nostro Autore la serie copiosa de’ monumenti che accuratamente produce ed interpreta, da’ quali meglio che da discussioni più o meno critiche, da interpretazioni filologiche più o meno felici, si può conoscere la condizione degli antichi popoli. Niun dubita che la scienza archeologica non abbia ornai tanto estesi i proprj confini che l’erudito Lettore non può più dilettarsi di laboriose compilazioni, di sistemi fondati sopra basi mal ferme o ruinose, ma chiede fatti, chiede monumenti nazionali che sono l’espressione delle antiche credenze ed idee, rese nel modo il meno sospetto di alterazione o di errore. Operati questi dall’arti che dipendono dal disegno in quasi ogni età del successivo sviluppo de’ popoli antichi, costituiscono gli elementi più curiosi della prisca civiltà, ci manifestano le particolarità più notabili risguardanti le opinioni religiose, gli usi della vita o civile o domestica, le tradizioni dell’età eroica; notizie tutte o imperfettamente accennate, o affatto ommesse dagli storici Greci e Latini. Da questi monumenti in fine si appara [p. xxxiv modifica]a conoscere il carattere, la cultura, il genio de’ tempi ond’emanano, massimamente raffrontati con quei dell’altre nazioni credute le più svegliate del mondo antico. Applaude quindi alla industra solerte del nostro Autore che in 120 tavole ne adunò non pochi, al sommo rari e preziosi; e giacchè affermò d’avere avvertitamente lasciata aperta agli archeologi la via a più ampie e nuove illustrazioni il Raoul-Rochette brevemente li va discorrendo, ed ora ne rafferma le arcane dottrine, ora mostra l’esterna derivazione di numi, favole, riti e costumanze di varie nazioni, con opportuni raffronti e discussioni erudite che recan maggior lume all’idee del nostro Autore, e ornamento non vano alla sua egregia fatica. Reputiamo dunque prezzo dell’opera sceglier quelle osservazioni paruteci, fra le molte per lui fatte, più curiose e notabili, e affinchè ognun vegga a quali monumenti e luoghi del nostro Autore si riferiscano ne indichiamo il volume, la pagina e la tavola nelle seguenti


ANNOTAZIONI


T. III, pag. 7, tav. XIV, XV, XVI. Intorno ai vasi di terra cotta formati a foggia di [p. xxxv modifica]nopi egiziani con sovrappostevi per coperchio teste umane, che dal Micali saggiamente credensi ritratti di antichissimi Etruschi, non fia inutile consultare il Meyer nelle note al Winckelmann (Werke, III, 11, S. 430, anm. 740), l’Inghirami (Monum. Etr. Ser. VI, tav. G 5, e Mus. Chius. tav. XLIX, p. 50), il Dorow (Voyage en Etrurie, pl. V, fig. 1 a e b; pl. VI, fig. 1 a, e 2 a), e specialmente l’udire lo stesso Raoul-Rochette che trovò un vaso canopico raffigurato sur una greca stoviglia presso il conte Pourtalès-Gorgier (Mon. inédits, p. 372), e riflette che aucun des antiquaires qui nous ont fait connaitre ces curieux monumens de la haute civilisation étrusque récemment sortis des hypogées de Chiusi, et qui ont cherché à expliquer d’une manière plus on moins plausible, et par des rapprochemens plus ou moins heureux, le motif réel et le vrai caractère de la tête humaine qui forme le covercle de ces urnes cinéraires, ne s’est servi d’un monument de même genre, mais d’un autre âge, qui appartient évidemment au même ordre d’idées, et qui me parait propre à décider la question. C’est une urne de terre cuite qui fut trouvée, en 1705, dans [p. xxxvi modifica]le territoire de Ferrare, à la suite d’une grande inondation. Cette urne avait un couvercle forme d’une tête humaine, comme uos canopes étrusques, et cette tête était un portrait de femme ayant les cheveux épars, à la manière des Præficæ: ce qui indiquait la profession de cette femme, d’accord avec l’inscription gravée dans le fond même de ce couvercle, laquelle était ainsi conçue:


HEV.

FL. QVARTILL.

PRAEFICA.


sur le bord du couvercle se lisait encore cette inscription: v. ann. ʟxi, elle a vécu soixante et un ans; ce qui ne laissait aucun doute sur la nature de ce monument; voyez-en la description dans le Mus. Capitol. T. III, p. 125-6. In fatti osservando parecchie di queste teste veggonsi di età, fisonomia e sesso differenti, e talune operate bensì rozzamente, ma in maniera che non può non riconoscervisi la procedenza da un tipo umano eseguita con apparenza di molta fedeltà.

Pag. 12, tav. XVII. Anche intorno al vasellame d’argilla nera non cotta ma prosciugata al sole, di varia forma, con bassirilievi fattivi a [p. xxxvii modifica]stampa diligentemente adunato e prodotto dal nostro autore, veggasi il Dorow nelle Mem. Rom. di Antich. e B. A. T. VI, e nel Voyage dans l’Etrurie, l’Inghirami nel Museo Chiusino, il de Witte nel Catalogo del Museo Durand, il Quaranta nel R. Museo Borbonico (T. VI, tav. 56). Non può dubitarsi che i soggetti raffigurativi non mostrino l’influenza d’ idee religiose trasportate dall’Oriente in Etruria ne’ tempi del suo più remoto incivilimento. Notabile fra gli altri è una figura femminea alata, che preme afferrati pel collo due uccelli acquatici; nella quale saggiamente il Micali ravvisa molta relazione coll’Ized alato de’ cilindri babilonesi, simbolo del buon Genio alle prese coll’Ahriman (Ker-Porter, Voyage, T. II, pl, 80, n. 2, p. 425). Uno di que’ due uccelli è il cigno, tristo animale creduto dall’antichità distruttor della propria specie (Arist. Hist. anim. IX, 1; Aelian. H. V. lib. 1, c. 14; Athen. IX, p. 396). Ne’ libri sacri il cigno disegna un uomo crudele (Psalm. 90 e 18) e la carne di esso era vietata agli Ebrei (Levit. XI, 13; Deut. XIV 16).Ugual soggetto vedesi sopra altri vasi di fabbrica egizia che frequentemente scopronsi a Nola (Mus. Bertoldian. p. 95-97; [p. xxxviii modifica]Mus. Borbon. l. c): On voit donc, dice il Raoul-Rochette, à quelle source antique et orientale avait été puisée l’idée primitive représentée sur nos vases étrusques d’argile noire, avec basreliefs, comme sur les vases peints de fabrique égyptienne, et d’après quel modèle en avait été réalisée l’image symbolique sur ces monuments peints et sculptés, appartenant à la plus haute civilisation grecque et étrusque; et l’on a dans cet exemple un des traits le plus frappants de ces antiques rapports, de l’Étrurie et de la Grèce avec l’Orient, qui se fondent sur les traditions historiques, comme ils se justifient par les monuments figurés de deux peuples, et qui, bien étudiés dans leurs principes et dans leur conséquences, ne peuvent manquer d’ouvrir un champ vaste et fécond aux études archéologiques (Journ. des Savans, 1834, mars, p. 148).

Pag. 33, tav. XXIX, n. 2. È assai probabile che la dea fornita di quattro al dorso, due distese in alto e le altre verso terra, con tutulo in capo, che nella destra tiene per simbolo una colomba, sia l’Astarte fenicia riconosciutavi dal dottor Münter (Relig. der Karth. [p. xxxix modifica]II, 1, p. 70 e 168) la quale modificata secondo le idee dei Greci vedesi in altri idoletti di antico stile (Paciaudi, Monum. Pelop. II, 130). Se vi ha chi dubiti ancora dell’influenza che hanno avuto le idee asiatiche sui monumenti primitivi della civiltà etrusca non ha che a osservare l’Atergatis ossia la Derceto siriaca, il mostruoso Scilla, l’Uomo taurifronte, ed altre figure simboliche recate dal nostro autore e tutte procedenti da orientali dottrine, penetrate in Etruria nella più alta antichità.

Pag. 41, tav. XXXII, n. 6. La dea vestita da lunga tunica fregiata all’orlo, e coperta di un gran peplo che dalla sommità della testa le scende parte sul petto e parte addietro fino alla sommità della veste, creduta Giunone o Cupra, con molta probabilità può credersi di origine orientale trovandosene nell’isola di Cipro l’idea primitiva, e indubitabilmente il tipo più antico. (Münter, der Tempel der Himmlisch. Goettin zu Paphos. S. 1, et Relig. der Karthag. S. 62, 2).

Pag. 49, tav. XXXVI, 3. Benché raro ne’ monumenti dell’arte sia il mito di Atlante, pure vedeasi raffigurato sulla cassa di Cipselo, [p. xl modifica]sulla barriera del trono di Giove Olimpio, sul bassorilievo d’una delle porte del tempio eretto nell’Alti dagli Epidamnii, sul trono di Apollo Amicleo sempre in umane sembianze, sempre in compagnia d’Ercole inteso a cogliere i pomi degli Orti Esperidi. Scorgesi ancora sur un vaso greco della Libreria Vaticana (Passeri, Pictur. etrusc, in Vasc.. T. III, tav, 249; Hamilton, T. III, pl. 194), sullo specchio etrusco edito dal nostro autore, e specialmente sul superbo vaso trovato nell’aprile del 1834 in un sepolcro a Ruvo e acquistato a Napoli dal maggior Lamberti. La notizia ne fu data dal Bollettino di Corrispondenza Archeologica (1834, p. 165) e la figura di Atlante che fa parte di quella ricca composizione dal prelodato Raoul-Rochette che ha fatto il mito di Atlante soggetto d’una sua dotta dissertazione. (Mémoire sur les représentations figurées du personnage d’Atlas; Paris, 1835). Nello specchio che stiam osservando meritano considerazione i nomi apposti ai personaggi raffigurativi. Atlante dicesi api ed Ercole caaice. Verissima cosa è che il figlio d’Alcmena nell’arte etrusca è più sovente appellato heracle, ma è noto altresì che ne’ monumenti e specialmente [p. xli modifica]ne’ vasi trovansi ancora soprannomi poetici delle persone in luogo dei lor nomi propri, e ch’Erifile è designata coi nomi di Calopa (Καλώπα) e Callifora (Καλλιφόρα) sopra due vasi presso il Millingen (Vases grecs, pl. XX e XXI), Argo è appellato Panopide (πάνοψ) sur un altro che fu del Cav. Durand (Bröndsted, a brief Description of thirty-two ancient Greek painted Vases, n. 1, p. 6), Teseo è indicato col nome di Callite, καλλιθες, e col soprannome d’Alcimaco, αλκιμαχος, in uno illustrato dal Welcker (Bollet. dell’istit. Archeol. 1832, p. 150, 151), e così Ercole vedesi qualificato coll’epiteto di Callinico (Καλλίνικος) in Aristide (Orat. in Herc. T. I, pag. 34), in un Inno d’Archiloco (Archil. fragm. 78, ed. Liebel p. 182), in un altro specchio etrusco edito dal nostro autore (tav. L, n. 1), e quest’epiteto in fine è anche messo sul labbro dell’eroe. quale caratteristico equivalente al suo nome, in Euripide (Herc. fur. V, 582). Pare dunque non potersi dubitare che il nome etrusco CAANICE, non rappresenti ne’ suoi elementi la greca parola καλινικος (Καλλίνικος); e poiché questo nome denota nel monumento etrusco l’eroe al quale esclusivamente attribuivasi per epiteto nella antichità [p. xlii modifica]greca, la congettura può dirsi recata a certezza. C’est là, conchiude l’illustre Accademico parigino, si je ne me trompe, un des résultats les plus satisfaisants, comme le plus positifs, auxquels ait pu conduire encore l’étude comparée des monuments grecs et étrusques; et j’ose croire qu’à ce titre nos lecteurs excuseront l’étendue qu’a prise, un peu contre notre gré, dans cette partie de notre travail l’explication d’un monument si curieux (Journ. des savans, décembre 1834, p. 710).

Pag. 67, tav. XLVI. Gl’idoletti egizj in pasta verde, rappresentanti Phtah, ricoperti di lamine d’oro sono un recente acquisto fatto alla scienza. La presenza di questi oggetti del culto egiziano in mezzo all’etrusche sculture, notificato agli eruditi nel 1827 dalle scoperte fatte ne’ sepolcri Cornetani, est une de ces notions précieuses, un de ces traits de lumière inattendue jetés sur le berceau de l’antiquité étrusque, qui ont éclairé de nos jours le domaine entier de la science, sans qu’on en ait encore déterminé exactement la portée. Des anneaux d’or, où se voient gravés en creux, dans le métal mème, des figures monstrueuses à face de Gorgone, avec des parties [p. xliii modifica]d’animal et des ailes, domptant tantôt un lion, tantôt un sanglier; d’autres figures, à tête humaine, avec un corps de poisson, d’où sortent les deux têtes de la Chimère; un Homme ailé luttant avec un griffon, ou bien le même Génie ailé, placé entre un lion et un sphinx qu’il a terrassés, complètent celle révélation, grave et curieuse par cet accord de signes symboliques tous empruntés aux religions de la Haute-Asie.

Pag. 74, tav. XLVIII. Nello specchio mistico ove sono raffigurati Vulcano ed Epeo che lavorano intorno al cavallo di Troja la voce (pecse), non vuol tradursi aecse per aequus, come parve al Lanzi (Saggio ec. tav. XII, 3; II, 177) seguito dal Millin (Galer. mythol. CXXXVII bis, n. 604), ma pecse ossia ἔπηξε, voce di cui si servono per consueto gli antichi poeti greci particolarmente quando trattasi di lavori metallici. Unita quindi al SETHLANS, che è il nome etrusco di Vulcano, par chiaro che debba significar fecit; spiegazione ingegnosa del ch. Raoul-Rochette (Mon. ant. ined. p. 82, n. 3) alla quale il Grotefend ha dato il suo autorevole assenso (Allgemeine Letteratur-Zeitung. 1829, n. 182, p. 172). [p. xliv modifica]Pag. 85. tav. LVII. La scultura d’un monumento sepolcrale uscito dalle escavazioni Volcenti che rappresenta le cerimonie praticate verso i defunti nel recarli alla tomba porge occasione di considerare sotto quali sembianze rappresentassero gli antichi l’anima separata dal corpo umano. Ed all’uopo si allegano parecchi vasi, ove sono uccelli volanti con testa umana a quali par che dar non sì possa diverso significato. Sur un vaso edito dal Millingen un uccello di questa forma sovrasta a Procri ferita a morte (Anc. uned. monum. part. I, pl. XIV), nel rovescio d’uno scarabeo della Galleria d’Orléans, nell’interpretare il quale variamente si apposero il Lanzi (Saggio, II, 160) e il Millin (Monum. ined. II, 57) il Raoul-Rochette ravvisa simboleggiata l’anima di Achille, ed aggiugne che la représentation d’oiseaux à tête humaine est généralement admise comme une image symbolique de l’âme des défunts (Monum. ined. p. 381, n. 2). In fatti quest’emblema ne’ vasi della Campania compare sempre nelle scene funebri, con simboli analoghi, come il fior di loto e la corona (Mus. Bertold. p. 90, n. 15; p. 79 e 93); Gerard, Rap[p. xlv modifica]port. p. 65, n. 607; Neapels ant. Bildwerke, l. 251, 270, 324, 333, 375; Millingen, Vases de Coghill. pl. XXXVI). Habituellement, conchiude il prelodato archeologo, les Sirènes se montrent, sur ces vases, opposées à des sphinx, autres figures symboliques dont l’intention funéraire n’est pas moins sensible, et l’invention égyptienne moins constatée.

L’animale mostruoso e alato scolpito in nenfro (come egregiamente osserva il Micali dandone il disegno al n. 7 di questa stessa tavola) offre una analogia sì evidente e curiosa, cogli ammali mostruosi ed alati de’ monumenti persepolitani che tal riscontro rende le sculture etrusche di molt’importanza, in quanto che serve a confermar sempre più l’idea che sia d’origine asiatica il tipo che rappresentano.

Pag. 94, tav. LXII 4. Parecchi frammenti di un fregio fatto a stampa di sottilissime foglie d’oro aderenti a un forte stucco nericcio, ond’erano ornate le pareti d’una cella sepolcrale scoperta l’anno 1830 alla Cucumella nel piano di Canino un bell’esempio ne porgono d’una pratica d’arte derivata dall’antichità asiatica, non istraniera alla, Grecia e [p. xlvi modifica]all’Etruria, segnatamente per la interna decorazione delle tombe. C’est un fait qui a été constate à diverses époques, dice il ch. Raoul-Rochette in un’opera eruditissima testè pubblicata, depuis la renaissance des lettres jusqu’à nos jours, que des tombeaux étrusques avaient en leurs murs revêtus de lames de bronze (Lanzi, Saggio, T. II, p. 211). Un de ces tombeaux fut découvert au XVI siècle, à Chiusi; et la relation originale s’en conserve à la galerie de Florence. Une découverte semblable ent lieu vers la fin du siècle dernier dans un endroit du territoire de Corneto; et c’est sur la foi du docte antiquaire Orioli qu’elle est rapportée par M. le professeur Vermiglioli (Opuscoli, T. IV, n. 7). C’est aussi dans la Nécropole de Tarquinies que se trouvait le tombeau décoré à la voûte de disques de bronze avec des têtes en relief (Annal. dell’Inst. archeol. T. I, p. 150, 151): monument du même goût, qui se rapporte à la même pratique de revêtement en lames métalliques ou en bois peint; qui fut le système général de l’antiquité asiatique, et qui n’avait pas été étranger à l’antiquité grecque, à en juger par le Calcioekos de Sparte [p. xlvii modifica](Pausan. III, 17, 3), et par le thalamos de Danae (Athen. VIII, 345, A; cf. Jacobs ad Anthol. Palat. VII, 329 ), deux édifices plaqués intérieurement de lames de bronze, et cités par Pausanias à l’appui du troisième temple de Delphes, qui était aussi, suivant la tradition locale, un édifice de bronze, εκ χαλκοῦ (Pausan. X, 5, 5); c’est-à-dire revêtu sur ses murs de lames de bronze; et pour qu’on ne s’étonnât pas de ce mode de revêtement, appartenant à l’âge mythologique, et devenu sans doute plus rare dans la Grèce appauvrie, Pausanias observait que c’est de la même manière qu’étaient décorés les plafonds du forum de Trajan; il aurait pu ajouter celui du portique du Panthéon qui conserva jusqu’au pontificat d’Urbain VIII, en 1626, son revêtement en lames de bronze et d’argent (Fea, Dissertaz. sulle rovine di Roma). Mais pour ne pas nous écarter de notre sujet, c’est d’un tombeau revêtu en bronze, τύμβας ἐὒγλύπτοιο μετάλλου, qu’il est fait mention dans une épigramme de l’Anthologie (Brunck, Analect. T. III, p. 296, n. 680, cf. Jacobs. Animadv. t. XII, n. 262-3) dont le sens et la teneur n’ont été tourmentés par les critiques que faute [p. xlviii modifica]d’avoir connu les exemples de tombeaux ainsi décorés. On sait qu’Alexandre avait voulu ériger à Pella un proscènium de bronze, χαλκοῦν προσκήνιον (Plutar. Op. Mor. II, 1096, 15, T. X, p. 509. Reisk), c’et-à-dire, revêtu en bronze: ce qui offrait dans un autre genre d’édifices, une pratique analogue. Je puis maintenant ajouter à ces exemples classiques ceux que me fournit un habil architecte M. Donaldson, qui observa, à la façade de quelques tombeaux de l’Asie-Mineure des enfoncements pratiqués pour y insérer des plaques de métal (Supplement to the Antiquities of Athens and other Places in Grece, T. IV, p. 56), lesquels auraient pu servir tout aussi bien pour des peintures sur bois. Tout récemment encore, un antiquaire éclairé, M. de Prokesch, ayant eu occasion d’examiner des tombeaux taillés dans le roc près de Thyatire, a remarqué que la surface du rocher avait été autrefois couverte de plaques de métal (Annal. de l’Instit. Archeol. T. VII, p. 193) et l’on ne peut douter que, si ce mode de revêtement fut usité à l’extérieur et sur la façade des tombeaux grecs, à plus forte raison put-il avoir lieu à l’intérieur, [p. xlix modifica] comme on l’a vu dans des tombeaux étrusques (Peintures antiques inédites, p. 425-26).

Pag. 105, tav. LXVIII. Intorno alla tomba tarquiniese adorna di pitture operate per quanto si crede da artefici provinciali il ch. Raoul-Rochette fa le seguenti riflessioni: Nous admettons volontiers, et nous avons été des premiers à dire, que ceux de ces tombeaux qui présentent des sujets traités dans le costume étrusque et accompagnés d’inscriptions étrusques devaient être reconnus pour des monuments étrusques. Mais ceux qui n’offrent, tout au contraire, que des compositions d’un style grec absolument semblable à celui des vases, pour le sujet, le dessin et le costume, telles que sont les peintures données sur la planche LXVIII, et celles des grottes Marzi et Querciola, comment se refuser à y voir l’ouvrage d’artistes grecs établis et travaillant en Étrurie? N’est-ce pas à une colonie de ces mêmes artistes que l’on s’accorde aujourd’hui à peu près généralement à attribuer cette foule de vases peints qui se découvrent dans les tombeaux de Vulci et de Corneto même, avec des noms [p. l modifica]de fabricants et de dessinateurs grecs, qui ne permettent pas de douter que ces vases ne soient sortis de manufactures grecques? N’a-t-on pas trouvé, dans des tombeaux de Chiusi, des vases grecs de la même fabrique que ceux de Vulci, quelquefois portant le même nom d’artiste? J’en puis citer pour exemple le nom de Panthaeos, qui se lit sur plusieurs vases de Canino et de Vulci, deux desquels sont décrits dans le Catalogne du cabinet de M. Durand, n. 91 et 117, et qui s’est rencontré sur une coupé de Chiusi, publiée dans le Mus. Chiusin. T. II, tav. 133, toujours avec la même inscription: πανθαιος εποιεσεν. Je rappelle en outre que les noms de Taleides et de Nicosthénès, connus par des vases trouvés à Paestum et à Agrigente, se son rencontrés sur des vases de Vulci. Dès lors, quoi de plus naturel et de plus probable que d’admettre l’établissement, en Étrurie, d’artistes grecs, qui auraient exécuté ces peintures de tombeaux et de vases, les unes et les autres de style grec le plus pur? Et en quoi ce fait archéologique, si plausible en soi, si conforme à toutes le données de la science, porterait-il atteinte à l’hon[p. li modifica]neur de l’Étrurie antique ou à celui de la Toscane moderne?

Pag. 119, tav. LXXVI. Merita particolare osservazione il vaso di Amasis, αμαζιζ εποιεζεν, posseduto dal Principe di Canino ov’ è raffigurato Ercole col suo fedel compagno Jolao accolti da Euristeo. L’eroe tebano porta il gladio al fianco, e nella sinistra l’arco e gli strali: l’esser egli privo della clava, attributo più consueto di lui sui vasi d’un età intermediaria ne risovviene quanto narra Strabone (XV, 688), cioè che l’introduzione della clava nelle poesie e nell’arte greca fu attribuita a Pisandro, poeta ciclico antico, autore d’una Eracleide, fiorito verso la Olimpiade XXXIII. Quindi la mancanza di quest’attributo è un distintivo caratteristico dello stile della scuola greca anteriore a Pisandro, la qual particolarità torna di gran momento per la classificazione cronologica dei vasi dipinti, ancorché il vaso d’Amasis non fosse di stile originale, ma di fabbrica d’ imitazione. Oltracciò in questo vaso vuol notarsi lo scettro tenuto in mano dal re di Micene. Esso è decorato da una testa di ariete, altro segno caratteristico con cui si allude al celebre ariete dal vello d’oro [p. lii modifica]che possedeva Tieste, e che ha tanta importanza nella storia poetica dei Pelopidi. Euristeo era nipote di Pelope e di Perseo, e quindi la testa di ariete è il simbolo più appropriato per qualificarlo. Veggasi lo Scoliaste d’Euripide (ad Orest. 998) che allega l’Alcmæonide di Dionisio poeta ciclico, e si raffronti con Pausania (III, 15, 2). Un altro vaso notabilissimo che offre la miglior idea dello stile e della maniera di Amasis, artista, come si vuole, corintio, era nella Collezione del caval. Durand ed ora si possiede dal duca di Luynes (Catalogue du Cabinet de M. Durand, n. 33, p. 16, 17).

Pag. 122, tav. LXXIX, LXXX. Giova credere che la nascita di Minerva dal capo di Giove raffigurata sopra tre vasi dati in disegno dal nostro autore fosse un mito per gli antichi Etruschi di grand’importanza perocchè vedesi ripetuto più volte e non senza talora qualche varietà. Oltre il celebre specchio dell’Università di Bologna (Inghir. Monum. etrusch. sez. II, tav. X, p. 202), vedesi sopra due vasi della celebre Collezione Durand (Catal. n. 20, 21), sur un altro presso il duca de Blacas, e sopra uno, forse il più bello di [p. liii modifica]quanti se ne conoscono, posseduto dal Visconte Beugnot. Tutti procedono dagli scavi Volcenti, tutti osservabili per l’antico stile, e per la introduzione or d’una, in vece di due Illitie, ora di Apollo Citaredo, or di molt’altre figure, ciò che serve sempre più a mostrare avec quelle liberté s’exerçait, sur les sujets les plus sacrés et sur les types qu’on devrait-croire fixés avec le plus de précision par l’autorité religieuse, le talent de ces artistes, si scrupuleux observateurs du costume hiératique.

Pag. 127, tav. LXXXIV. Commendevolissima è la congettura dell’egregio nostro autore che la figura virile, barbata, vestita nel costume jeratico, suonante la lira di nove corde frammezzo a due stele sorreggenti ciascuna una Sfinge alata, rappresenti Orfeo. Non è questo il primo esempio di un tal personaggio ne’ vasi di antico stile. Ve n’ha parecchi ove un simil soggetto fra due Parche o due Erinni (le quali corrispondono alla stessa intenzione delle due Sfingi) non può essere che Orfeo. La sola difficoltà che oppor si potrebbe viene sgombrata dalla certezza che altri poeti dell’età mitologica come Tamirj e Lino veggonsi [p. liv modifica] sui vasi della stessa fabbrica (Annal. dell’ Inst. Archeol. T. I, tav. V, 5, p. 370; Lewesow, Verzeichniss, n. 855), per nulla dire di Saffo, di Alceo e di Anacreonte che veggonsi raffigurati sopr’altri vasi trovati in Sicilia e in Etruria (Catal. du cabinet de M. Durand, nn. 423, 424, ec.).

Di più oltre dottissime annotazioni potremmo arricchire questa Prefazione se giunto ne fosse in tempo di farne uso l’ultimo brano della Memoria del ch. Accademico Parigino che promise di pubblicare nel Journal des Savants del corrente anno 1836. Però ne facciam avvertiti i cortesi Lettori, affinchè se piacerà loro di giovarsene, ricorrano a quell’accreditato Giornale, fonte rigogliosa di sublime recondita erudizione.

Gli studi severi fatti da tre uomini di chiara fama sull’opera dell’illustre Micali, ornamento e decoro dell’italiana letteratura, sono il miglior elogio che per noi far poteasi di lui e della benemerita sua fatica. Né per verun altro motivo ne piacque di qui recare delle dotte loro elucubrazioni parecchi brani, se non perchè diffondendosi da’ nostri torchj la Storia degli antichi popoli d’ Italia in maggior numero [p. lv modifica] di esemplari potremo così sempre più contribuire ad estendere la ben meritata fama del nostro chiarissimo Autore.

Della prima edizione di quest’opera gli esemplari furono esauriti a non modico prezzo con maravigliosa celerità: della seconda pochissimi ne rimangono ancora in commercio. Alla terza, che è la presente, richiestaci da gran numero di studiosi, non è improbabile che fra non molto succeda una quarta, e sì pure alcune versioni di essa in estranie favelle, che tal è la bella sorte delle opere di somma importanza e pel soggetto che trattano, e per esser dettate da scrittori di acuto ingegno, cui gravi e profondi studj assiston sin dalla tenera gioventù, e la cui mente ed il cuore son retti dal più purgato e imparziale criterio.